Ci sono regioni grandi quanto il Molise sconosciute alla geografia e note soltanto alla storia. L’Harpitania per esempio. E l’Occitania. Cambia anche la lingua. E cambiano anche gli uomini. Si tratta di grandi vallate cinte da monti dominati dalle colonne del Bianco e del Monviso, nelle quali la storia ha lasciato tracce profonde e determinato differenze etnologiche.
Sicché Giorgio Bocca, figlio di queste montagne come pure delle profonde vallate dell’altipiano, può dire: «Io non sono un harpitano, ma un occitano del cuneese. Nella Harpitania ci sono arrivato con la guerra e il giornalismo, con il mio amico condotto di Morgex e la seconda casa di Bellardey». A questi luoghi, incuneati tra Piemonte e Val d’Aosta, Bocca ha dedicato un libro dal titolo evocativo, Le mie montagne, per parlare ancora una volta della sua vita, riandando alla Resistenza e ripercorrendo gli anni dell’attività giornalistica. Ma stavolta con la testa in alto: a guardare le sue montagne e a farsi guidare nel passato. Con l’aggiunta di un sottotitolo la cui natura ossimorica riesce epifanica: "Gli anni della neve e del fuoco".
Che idea ha della montagna? La vede come un luogo mentale?
La vedo come la madre protettrice.
Perché piemontese o perché partigiano?
Ma guardi, dovendo fare il partigiano contro i tedeschi sono andato nelle montagne di casa e le ho sentito come una madre.
Lei scrive che la montagna a un certo punto arriva alla ribellione e si ha la saldatura tra partigiani e montanari. Questo vuol dire che la montagna si identifica con la Resistenza.
Le cose non sono così complicate. Era normale che andasse così. Sono di Cuneo, arrivano i tedeschi che occupano la città, che facciamo? Andiamo in montagna che è l’unico rifugio posibile. Voglio dire che la Resistenza in montagna nasce spontanea, come per legittima difesa.
Ma lei dice che «la montagna è il sostituto della sfida civile, il luogo fuori dal fascimo, un mezzo per radunare i primi fedeli». Insomma c’è questo legame.
Tutto dipende da cosa ci mettono dentro gli uomini in queste concezioni. Certo, è più di un luogo geografico, anche se di per sé la montagna è solo un corrugamento della superficie. Poi, quando diventa il mezzo per salvare se stessi e il paese, assume un altro valore.
Oggi si sente un montanaro?
Mi sento un cittadino italiano.
Un cittadino italiano che ama moltissimo la montagna. La sua passione per gli scii per esempio.
Amo gli scii per hobby, non perché sono montanaro. Ma poi, vede, la montagna come il mare costituisce per gli italiani un’idea di bello nella quale identificarsi. In Russia è la pianura il valore geografico più sentito idealmente, mentre la pianura suggerisce a noi scarsi stimoli.
Mattei però la volle conoscere personalmente perché era un uomo di montagna.
Sì, ma perché ero stato anche partigiano.
Nell’introduzione lei critica il revisionismo storico perché ha ripudiato la Resistenza. Ma sino a che punto è spinto questo fenomeno? Non si tratterà di sacche isolate?
Secondo me è una manovra politica che viene spacciata per una questione storica. Alla politica di centrodestra di Berlusconi la Resistenza dà fastidio, tant’è vero che lui non ha mai partecipato ad una manifestazione. E quindi il revisionismo è stato sostenuto ed esercitato per fare fuori la Resistenza e con essa i partiti del centrosinistra.
Pensando anche altri libri che lei ha scritto, è come se tutta la sua vita si concentrasse nell’età della Resistenza, proprio in quella stagione in cui è stato partigiano.
Ma no, tutta la mia vita, dal ’43 ad oggi, è stata una lotta per la democrazia nella speranza che in Italia potesse prevalere una società civile.
Però sono rimasti pochissimi, se non soltanto lei, a reiterare l’ideale della Resistenza.
L’Italia com’è oggi è nata dalla Resistenza, dai sindacati, dai partiti di sinistra.
Questo processo di revisionismo accredita l’idea che la Resistenza sia stata anche una forma di guerra civile. Ciò che in fondo è quanto lei in questo libro sostiene.
Ma certo: l’ultima guerra è stata una guerra risorgimentale ma anche civile. È difficile darvi una definizione perché si è trattato di una guerra civile sui generis, in quanto c’erano i tedeschi che occupavano il paese e proteggevano i fascisti. Senza l’occupazione tedesca il fascismo non ci sarebbe mai stato.
Prima di essere partigiano lei è stato ufficiale dell’Esercito.
Sì, ero sottotenente di complemento.
Quindi ha militato sotto le bandiere fasciste.
Il fascimo era un partito. Il regno d’Italia era un’altra cosa. E poi cosa vuole, eravamo in guerra e io ero stato chiamato. Cosa potevo fare?
Comunque con quella divisa lei ebbe modo di vedere quanto fosse disorganizzato l’apparato militare italiano.
Già. Era un esercito a pezzi che aveva perso la guerra prima che cominciasse.
Com’è che lasciò la divisa militare e divenne «ometto», come lei dice si chiamassero i partigiani semplici?
La divisa militare la smise con l’armistizio Badoglio e la parola d’ordine fu «andate tutti a casa».
Quindi lei fu uno dei tantissimi che furono chiamati «sbandati».
Eravamo semmai «congedati».
Perché lei dice che gli anni Trenta furono frenetici ma anche straccioni e deludenti?
Il fascismo è stato un regime che ha tentato di fare dell’Italia una potenza mentre in realtà non era tale. E questa fase crescente è culminata con la conquista dell’Etiopia dove una parte degli italiani speravano di trovare un paese ricco e si sono accorti invece che era un’impresa coloniale priva di senso perché in tutto il mondo la spinta colonialista si era esaurita. Noi siamo arrivati buoni ultimi.
Erano quelli gli anni del consenso però.
Io dico nel libro che fu un periodo farragionoso. Nessuno capì come maturò l’alleanza con la Germania: un puro azzardo e un atto di furbizia sperando che la Gemania vincesse la guerra per conto nostro. Eppure il nostro era uno stato che aveva una flotta tra le prime del mondo e un esercito di otto milioni di soldati, ma a un certo punto questo apparato militare e imperiale crollò.
Lei militò come partigiano nelle file di Duccio e non in quelle di Livio, due comandanti del Cuneese che si fecero praticamente la guerra.
Cosa vuole, anche durante la guerra di Resistenza ci furono gelosie e invidie personali.
Tanto che lei perse l’amicizia di Nuto Revelli.
Appartenevamo a due campi diversi e nei rapporti personali avevamo dei sospetti, dei dubbi. Ma non fu un’amicizia persa per sempre né fu una rottura così grave. Eravamo amici come sempre, ma io stavo attento a come parlavo con lui perché era un uomo di Livio Bianch.
Lei sembra indicare in questo libro la piemontesità come un blasone se non addirittura com un privilegio.
Ci sono delle tradizioni militari e civili che non vanno dimenticate. Per esempio il Piemonte è la regione, anzi lo stato, che ha fatto l’unità d’Italia.
Si sente dunque un italiano privilegiato?
Ah beh, rispetto ai napoletani certamente.