mercoledì 19 dicembre 2007

La famiglia secondo il modello Soprano


Se la mafia fosse quella che, su un teatro di mimi, interpretano i Soprano, sarebbe facile accettarla come un contropotere severo ma indulgente: una mafia dal volto umano che amministri giustizia secondo un codice giusnaturalistico non è più il cancro della società ma la sua interfaccia.
L’icona di un boss preda di attacchi di ansia, in terapia da una psicologa che a sua volta, per colpa sua, finisce in cura da uno psichiatra, appare consolatoria e gradita perché suggerisce un’idea di vulnerabilità e favorisce dunque un’accezione di mafia con la quale è possibile convivere essendo possibile sconfiggere: una mafia tutto sommato non temibile se è spietata solo con gli ingiusti, del tipo della congrega dei Beati Paoli, che riparando torti guadagna fiducia, appoggio e benevolenza dei siciliani oppressi e malversati. La mafia che si nutre dell’ideale di Zorro o Robin Hood, del bandito galantuomo - come per certi versi fu visto anche Giuliano - può in effetti piacere a quanti non riescono a riconoscere allo stato la capacità di tenere l’ordine pubblico e assicurare la giustizia.
Uno come Tony Soprano, che in casa si muove come un travet smanioso di mettersi in pantafole, remissivo con i figli e su posizioni paritarie con la moglie, un boss dimezzato che fuori è un re illuminato, un capo di capi di delicata sensibilità, incarna un tipo di mafioso che, volendo mascherarsi non nella società ma in famiglia, contraddice in pieno la realtà. Mentre infatti può capitare che un boss si affidi alle cure di un analista (ciò che invece nella serie televisiva viene visto come un grave vulnus all’immagine del capo che non deve cedere mai), è impossibile invece che nasconda la sua identità e la sua attività in famiglia. 
Lo stesso termine di “famiglia”, che rimanda al nucleo familiare come anche alla cosca, postula una stretta cointeressenza di affetti e affari, sicché tanto più questi prosperano quanto più quelli siano ispirati al riconoscimento della intangibile superiorità del capofamiglia.
Nella realtà un boss che abbia problemi di governo in casa, dove si mostri cedevole con la moglie e i figli, non ha alcuna possibilità di mantenere il potere clanico. Il figlio di Provenzano che dice pubblicamente al padre “Ti voglio bene” afferma allora un principio che postula un legame sentimentale non disgiunto da un inalienabile rapporto di subordinazione. E perciò il Tony Soprano che in casa sta in accappatoio e che fuori gira sempre armato di pistola non evoca il sembiante del mafioso, ma quello del mostro dalla doppia personalità, dello schizofrenico mister Hyde insomma: il che giustificherebbe le sue sedute dalla dottoressa Jennifer Melfi, senonché il suo mal di vivere è dovuto alla sua difficoltà di essere compos sui, come qualsiasi persona del nostro tempo.
Piuttosto chiediamoci se nel progressivo deterioramento delle relazioni interfamiliari di casa Soprano (segnate da minacce di divorzio, un figlio scapestrato anch’egli sotto analisi e aspirante suicida, una figlia ossessionata dall’indecisione se farsi medico o avvocato, una moglie che vuole tenere vivo il focolare domestico ma va anche lei dall’analista) l’immaginario statunitense non veda l’ineluttabilità della deriva sociale e del crollo delle istituzioni etiche e morali, giacché esse non riescono a mantenersi salde neppure in seno a una famiglia il cui credo debba essere proprio la loro rigorosa osservanza. 
E allora la proposta subliminale della serie televisiva made in Usa non è tanto l’ipotesi di una facile vittoria sulla mafia partendo dallo sgretolamento della famiglia, quanto quella dell’impossibilità di salvare la famiglia quale che sia nella nostra società. Perdippiù, nello scontro tra i due tipi di “famiglia”, quella degli affetti e quella degli affari, è solo la prima a essere continuamente minata e a rischiare di crollare mentre la seconda non conosce, nella sfera del capoboss, segni di cedimento alcuno.
Nelle ultime puntate abbiamo visto Tony Soprano muoversi sui due coté con il passo di chi antepone la seconda alla prima famiglia: uccide il nipote Christofer Moltisanti, perché spia dell’Fbi, e massacra di legnate un molestatore della figlia dando l’impressione di volere reintegrare il proprio stato di capoboss oltreggiato piuttosto che quello di padre geloso e furioso. Del resto l’abbiamo già visto: ha odiato fino alla morte la madre, ha pensato pure di ammazzare zio Junior che dal canto suo non ha esitato a sparargli per ucciderlo architettando la sua eliminazione per il bene della famiglia, ha coperto la sorella che ha ucciso il marito per solo orgoglio, ha ucciso soci, amici, lontani parenti: una ecatombe perpetrata in uno spirito di regolamento di conti teso a mantenere la qualità di boss, prevalente rispetto a quella di padre e parente.
Nella realtà della mafia le due famiglie orbitano una attorno all’altra e sono legate da un criterio di inscindibilità per cui non può avvelenarsi una senza che ne resti contaminata l’altra. Che un mafioso vada da uno psicologo non è comportamento da vedersi come disonorevole, assimilabile com'è in fondo a un incontro con un sacerdote: i problemi spirituali non sono di “Cosa nostra”, che alle questioni morali non attribuisce la stessa importanza che a quelle etiche: non conta tanto cosa si pensa ma come si agisce, perché è l’azione che fa premio sui pensieri. Sicché un mafioso depresso può esserlo senza turbamenti all’equilibrio della “famiglia” fino a quando eserciti senza traumi il suo potere e nello stesso tempo mantenga privo di traumi l’ambito parentale e affettivo. 
Per un vero mafioso non esistono due famiglie distinte, ma una sola, divisa secondo due principi: di interesse e di attenzione. L’improbabilità che “I Soprano” adduce distinguendo una famiglia dall’altra va vista a scopi revulsivi: si vuole fare credere a una mafia che tiene lontane alcova e cantina e che se soffre di cuore ha però un digestione perfetta, oltre che una mente lucidissima. Come dire che l’America si preoccupa di mantenere lo status quo e l’ordine sociale antico e accettato: sacrificando sul suo altare lari e penati, indicando all’uomo economico la via dell’analista e scegliendo alla fine il primato del profitto. Se “I Soprano” fossero nati in Italia, avremmo visto Tony battersi per salvare prima la famiglia degli affetti e poi quella degli affari.