C’è una foto nell’album di Tommaso Landolfi, anzi un fotomontaggio, dove l’autore frusinate guarda l’obiettivo con intenzione. E’ una foto d’identità. Landolfi è quasi sessantenne e, in questa ennesima sortita del suo io monologante, sembra voler parlare ancora di sé. «Io (ma quante volte ho scritto questo dannato pronome?)» è già sbottato in Prefigurazioni: Prato dando un compulsivo conato autorecriminatorio.
Ma stavolta si serve di un mezzo visivo per arricchire la sua biografia. Accanto a lui si staglia infatti un assiuolo e Landolfi, con uno sguardo d’ammicco e un sorriso d’intesa, posa a suggerire l’identificazione con l’uccello notturno che è caro a Pascoli non più di quanto - sin dal principio del suo percorso - lo sia a lui.
Ma stavolta si serve di un mezzo visivo per arricchire la sua biografia. Accanto a lui si staglia infatti un assiuolo e Landolfi, con uno sguardo d’ammicco e un sorriso d’intesa, posa a suggerire l’identificazione con l’uccello notturno che è caro a Pascoli non più di quanto - sin dal principio del suo percorso - lo sia a lui.
Dopo le disillusioni della scrittura, o meglio dei modi di espressione letterari e di interpretazione della vita, insorte a mezzo della sua vicenda letteraria, «continuare a inghiottire le notti», come fa l’assiuolo, si riconferma il principio normativo di uno scrittore umbratile e vespertino che però, come dice Pedullà, «non lascia nessun angolo al buio». E che vive da nottambulo: al pari dei giocatori e di quanti rifuggano il mondo.
Landolfi ama l’assiuolo perché si riconosce affetto di un vizio della parola, un’ossessiva sindrome dell’indicibilità che lo accompagnerà al secondo suo stadio, quello distruttivo, dove finisce l’invenzione letteraria e comincia la maniera. Già in Night must fall, racconto della raccolta d’esordio del ’37, Dialogo dei massimi sistemi, l’assiuolo è visto come uno straordinario esemplare capace di ripetere «la sua parola sempre nuova» mentre «a un solo patto un essere umano può ripetere una qualsivoglia parola: a patto che gli si avvizzisca tra le labbra». Inghiottire le notti designa allora un intento utopistico: impossessarsi della vita, riuscire a ripetere le parole che abbiano un senso irripetibile di novità e spiegare per harpax il mondo. L’esempio dell’assiuolo suggestiona da sempre Landolfi: «Sembra che dimentichi ciò che ha detto un momento prima e che fra le note della sua evocazione abbia il tempo ogni volta di morire». Pertanto qual è l’auspicio che si propone alla partenza, quando, scrive Asor Rosa, «su di lui convergono le spinte di due diversi ma non discordanti ambienti, ermetismo e novecentismo» e sceglie il bellettrismo della prosa sontuosa ed escapista che recupera l’ornato ottocentesco? «Prendermi l’impegno di parlare per loro», risponde; imparare cioè dall’assiuolo e dunque discorrere con la morte, fraternizzare con il nulla, avviare una conversazione che pure porterà alla dannazione. Ci si può dannare infatti per non riuscire a tradurre la letteratura in vita e ci si può perdere in un emisfero immaginario in cui, come coglie Sanguineti in Landolfi, la letteratura è intesa invece come morte. Che sopraggiunge dopo una lunga malattia spirituale: «Sempre mi sono voltolato e rivoltolato - scrive in La biere du pecheur - nella vita come un ammalato smanioso nel suo letto». Lungo questa china involutiva Santagata può perciò sorprendere «un progressivo incupimento della scrittura, con un prevalere sempre più chiaro del nichilismo, cui però si contrappone una sorta di autointerrogazione sull’esistenza e sulla morte».
Ma la verità è anche un’altra. Landolfi non vive che sognando e inanellando incubi. Quando si sveglia di soprassalto, in preda a influssi orfici e in stato di delirio come pure di grazia, trascrive i suoi stadi onirici in racconti funambolici e allucinati, e poi corre a un tavolo verde. Finché, giunto quasi a cinquant’anni, cambia in parte vita: mantiene il vizio del gioco, epperò comincia a distillare il suo umore nero in diari epistemologici che interrogano se stesso e il destino del mondo in chiave gnosologica, scrive racconti ancora più stralunati su truci omicidi e torvi incesti, e infine compone poesie pervase da un pessimismo cosmico e smisurato; ma soprattutto dà una deviazione alla sua vita: sposa nel ’56 una donna del suo paese in Ciociaria dalla quale nel ‘58 ha la prima figlia, Idolina, che diverrà la sua prima e più attenta esegeta. Idolina è morta il 27 giugno scorso a cinquant’anni (l’età in cui lo scrittore la concepisce - per poi esprimere tutto il suo entusiasmo per averla avuta nel ’63 in Rien va) e proprio nell’anno, il 2008, che di Landolfi celebra il 9 agosto il centenario della nascita.
E’ negli anni Cinquanta, con La biere du pecheur del ’53 e Ombre del ’54, che Landolfi matura una coscienza definita dall’amico Montale del «recitativo inferiore» e ricondotta da Pampaloni alla prevalenza dei temi esistenziali su quelli figurativi. Si tratta di una crisi profonda e definitiva che segna una morte e una resurrezione, una crisi imputabile sì ai rivolgimenti della vita privata ma soprattutto alla mozione di sfiducia che muove inesorabile alla letteratura. Landolfi muore a se stesso (ai vagheggiamenti della prosa d’arte, mai davvero accolta - nota Ferroni - perché trasformata «in qualcosa di allucinante e ossessivo»; al credo della letteratura come verità, alle sirene del neorealismo, al senso della presenza dello scrittore nel mondo) e risorge dalle sue ceneri per cedere a un ripiegamento nel cerebralismo, nel metaromanzo, nella lezione moralistica e soprattutto nella bolsa sfera autobiografica, i primi rilievi della quale si intravedono già nel ’47 con Racconto d’autunno, il romanzo che per essere intuito dal pubblico alla moda come neorealista (in verità mancando di vederne i pur manifesti significati allegorici) è fra tutti quello di maggiore successo commerciale fino ad avere anche una riduzione televisiva. Così, nel tempo di quella che Maria Corti chiama «la glaciazione neorealista», Landolfi ha la certezza - come lo vede Susan Sontag - di non appartenere alla sua epoca. E quel che fa è di rendersi, secondo anche Sereni, sempre più prigioniero di se stesso, ciò che significa non vivere il presente e chiamarsi fuori dal mondo. Bufalino vedrà in lui un confrére perché come lui si attesterà in un valéryano stato d’attesa. «In realtà aspetto qualcosa - dice Landolfi in Cancroregina. - Aspetto il coraggio di morire». Bufalino non dirà cosa diversa quando confesserà la «vocazione a morire» e vedrà nell’«ultima impostura» la mossa vincente di una partita a scacchi con la Morte.
A volere completare la genealogia landolfiana, è pur vero che la ricerca di Landolfi va posta sulla strada che porta da Leopardi a D’Annunzio, ma a raccoglierne l’esperienza sono nella sostanza Bonaviri e nella forma appunto Bufalino. In vita, è invece a braccetto con Gadda che intenta la «contestazione stilistica» di cui parla Pampaloni, mentre al suo fianco si allineano Delfini, Buzzati, Savinio e più indietro Palazzeschi. Eppure Landolfi cammina da solo. Ha troppi modelli per averne davvero uno che non sia forse il solo Freud e le sue oltranze del Super Io. Il suo stesso surrealismo, dice Ferroni, è di tipo nordico, non mediterraneo, e abita la misura breve del racconto: distinguendo l’essenziale dal superfluo, Landolfi tiene in secondo grado il romanzo, sicché non narra ma descrive e usa solo parole essenziali, vestendole dell’eleganza più seducente. Nichilismo e iperletterarietà lo rendono un eretico in fazione solitaria, un estraneo alla poetica dell’assenza ermetica, alle lusinghe dell’avanguardia e al mito della testimonianza neorealista. Un demistificatore della retorica ufficiale e un iconoclasta di ogni moda e di ogni idea ricevuta. Un intellettuale insomma da solo al mondo, dallo strano comportamento.
Mentre infatti fa di tutto per sottrarsi a scuole, correnti e ribalte, pretendendo persino che i risvolti di copertina siano poverissimi e negando interviste e apparizioni pubbliche al solo scopo di proteggere la sua anagrafe, circumnaviga poi il proprio io con una tenacia maniacale che fa di tutta la produzione successiva alla presa di coscienza della propria «insufficienza», dunque della resa al cupio dissolvi - i diari, ma anche i racconti, i saggi e gli elzeviri - un santuario eretto al culto di una personalità instabile e febbrile se non anche un lungo ciclo di esercizi terapeutici che, come lui del resto vuole, lo portano alla morte anziché restituirlo alla vita. Ma a ben vedere - e Debenedetti ha visto benissimo - più che di un ripiegamento e quindi di una svolta, l’evoluzione di Landolfi integra una condizione di coerenza che Marcello Carlino pone sotto la specie della ripetitività. Lo spirito del primo racconto pulp del ’29, Maria Giuseppa, è lo stesso di quello dei racconti splatter del ’75 intitolati A caso: una sintesi palindromica che riflette un retrogusto ottocentesco spalmato sull’intera opera, figlia innanzitutto del secondo romanticismo nero e gotico, di quel macabro decadente che ha per araldi Poe e Hoffmann e che nel surrealismo eterodosso di Artaud e Bataille trova una seconda parentela.
Senonché, a conti fatti, Landolfi «finisce col somigliare soprattutto a se stesso», osserva ancora Debenedetti, perché per tutta la vita non cerca che l’assiuolo, musa della ripetitività. Come Sisifo, Landolfi si infelicita e incrudelisce giacché non ripete che gli stessi gesti, non riproduce che la stessa vita cristallizzata e informe: a un certo punto, teorizza, l’attività di scrittore diventa mestiere e quindi omologazione a un cliché ripetitivo, uguale a quello di un operaio alla catena di montaggio e di un giocatore d’azzardo. La coazione a ripetere, che è il risultato della morte della letteratura, sterilizza la volontà di potenza e determina l’amor fati. La conseguenza è la fossilizzazione, avendo il brand della ripetitività alla fine ragione dei vani tentativi dell’autore di trovare, come dice Ferroni, «una lingua personale e unica» perseguendo un ideale di letteratura che non sia ostacolato dall’artificio e dalla menzogna. Ecco allora qual è il male oscuro di Landolfi: la scoperta che Pirandello ha ragione a sostenere che la forma non può mai diventare vita, sicché la letteratura non può mai spiegare l’uomo e il suo mondo. Perché? Perché il linguaggio letterario ha una storia a sé essendo lingua invenzionale; ha perciò una autonomia che è la sua potenza ma anche il suo nodo scorsoio dovendo essere comunicata agli altri e diventare viva da lingua morta che è. Appena resa fruibile, la sua identità si disperde e diventa altro da sé. Giustamente Carlino parla dunque di «stallo bello e buono» e spiega l’ossessione irrisolta di Landolfi: se ciò che è narrato, che diventa letteratura ma che non si fa vita, può essere aggiornato e rivisto e quindi perde la sua unicità (e Landolfi ne dà prova rifacendo tre volte il racconto Maria Giuseppa), allora la scrittura induce falsificazione, ammette la menzogna, diventa straniamento.
Landolfi non riuscirà mai a uscire da queste spire e finirà per sbatterci la testa e arrendersi: le parole sono la sua unica realtà, per le quali prova amore e terrore; sono tutte nel vocabolario (l’unica istituzione che, dice Pedullà, non irride), ma sono insufficienti a sostenere le ragioni della letteratura di dire la vita. Allora la sua condizione permanente è quella da lui stesso definita di «stato di insufficienza», una qualità che - nota Pampaloni - occupa uno piano esistenziale e riguarda l’uomo. Il dramma è nella parola, spiega Pampaloni: da un lato la parola è artificio, dall’altro insufficienza. Cosa significa? Significa che la sua poetica - chiarisce subito Pampaloni - involge «un sentimento dell’insufficienza esistenziale a cui si applica una scommessa di artefice, una letteratura che si riassume in un tentativo di tormentosa sublimazione».
Ci siamo dunque: Landolfi è ondivago tra esistenzialismo e artificio e non ha gli strumenti per rompere le maglie dell’una e dell’altra rete di fattura certamente montaliana. A Falqui che dice di non sapere come prenderlo Sanguineti replica che è Landolfi a non sapere come essere preso. E’ vero. Debenedetti paragona la sua regola a quella di uno squisito ospite che accoglie l’amico riservandogli una stanza della quale loda tutti i vantaggi ma che nottetempo si rivela infestata di spiriti. Allo stesso modo Landolfi procede per ritrattazioni e complicazioni, come in malafede: conduce rassicurante da un piano di realtà a un mondo orrido sospeso tra follia e allucinazione, nel quale appare in figura di empusa, per poi fare credere, riprendendo il sorriso, che è stato solo un brutto sogno.
Fa di più. Frequentando un bestiario raccapricciante, da morboso entomologo, stabilisce la condizione umana in una nuova chiave orwelliana, tant’è che nel ‘42, in Nuove rivelazioni sulla psiche umana, anticipa di 26 anni gli scenari del film Il pianeta delle scimmie immaginando scienziati-cane che evocano la civiltà umana scomparsa. La scimmia, anzi la «scimia», arriva davvero nel ’46: è Tombo de Le due zittelle, metafora dell’inconscio umano tralignato. Dal suo recesso di sdegnosa e sofferta solitudine Landolfi ha anticipato la coscienza moderna, ma - dice Debenedetti - «la sua grazia poetica par che derivi dal tremore che si tratti anche qui di una vincita a un gioco d’azzardo».