sabato 12 luglio 2008

La Sicilia letteraria tra realtà e infingimento

Bruno Benfenati: "Il manoscritto"
Forse è dal passato che bisogna partire per arrivare alla Sicilia letteraria degli ultimi tre anni: da due romanzi rimasti per decenni inediti e perciò riconducibili a un tempo ancora più remoto, a riprova del principio di fissità della cultura siciliana.
L’arte della gioia di Goliarda Sapienza e Terra matta di Vincenzo Rabito (entrambi ambientati in un arco diacronico che copre gran parte del Novecento, entrambi romanzi di formazione e di forti passioni individuali) insemprano una Sicilia mitica ed arcaica del cui retaggio erede legittima appare oggi Simonetta Agnello Hornby, che anche nel suo ultimo Boccamurata evoca modelli etici e morali che potremmo dire della scarabattola, propri cioè dei lari familiari e del mondo piccolo e primario. Due romanzi che si tingono a vicenda, perché mentre il versicolare ed estemporaneo flusso coscienziale del semianalfabeta pensionato ragusano (che mette per iscritto la tradizione orale del «cuntu» e del reduce di guerra, nel senso della calviniana «smania di raccontare») coglie dello spirito del tempo l’aspetto maschile più evenemenziale, nonché quello meno claustrale, l’appartata e ipostatica scrittrice catanese restituisce nel chiuso di conventi e palazzi di una irrelata terra etnea il tormento e l’estasi della coscienza femminile più inquieta e psicomachica. 
Se è così, possiamo dunque ascrivere Rabito, spinto a vedere sé nel mondo, nella cosmogonia verghiana e riferire alla lezione pirandelliana l’autrice catanese che invece riflette il mondo dentro di sé - Verga e Pirandello rimanendo tutt’oggi i padri nobili e irricusati di tutti gli scrittori siciliani. Con un significativo dato di novità in entrambi: il picaresco bracciante ibleo e l’immorata femme sans merci di L’arte della gioia integrano due indoli ribelli che rompono con le prescrizioni normative di una Sicilia iussiva e illiberale dove un outcast come Vincenzo Rabito può scagliarsi contro tutti e tutto, dalla famiglia allo stato, e la licenziosa Modesta di L’arte della gioia protendere le cime alla spregiudicatezza di Irina di Boccamurata. Da dropout a protagonisti e artefici della loro vita, rotti i ceppi dei «vinti», Vincenzo e Modesta sono il fatto nuovo della Sicilia che insorge contro il precetto di irredimibilità sciasciana e il credo di immodificabilità lampedusana. Più Modesta che Vincenzo, per la verità: entro un quadro generale di nuovo interesse verso il processo di emancipazione della donna siciliana, risospinto a marce forzate. 
La ragazza sfacciata e ipocrita di Goliarda Sapienza, che - forse proprio per la sua anagrafe - tanti critici ed editori italiani hanno trovato scandalosa, è decisa, a differenza della brancatiana Barbara Puglisi, a fare valere la sua qualità di donna insoddisfatta non delegando più altri ma tenendo la scena sociale in prima persona. Discendente della Lupa di Verga, Modesta raggiunge le figure di donna che negli ultimi anni saltano sempre più numerose dalla letteratura alla società siciliana detabuizzandola. 
Dopo la Angelina di Volevo i pantaloni della Lara Cardella andata in avanscoperta, all’orizzonte è poi apparsa con il peso delle sue oltranze la conturbante Melissa P., forse il frutto più maturo di questo ideale della farfalla che promuove l’oicofobia, il disprezzo cioè dei propri usi. La polemica di Melissa Panarello si è rivolta anche contro le istituzioni locali risolvendosi alla fine in un rifiuto che si è precisato, com’è stato per altri autori siciliani, nel rinnovare lo spirito della diaspora: una sindrome collettiva più che un destino. Via da Palermo è anche andata Delia Vaccarello, autrice di un romanzo saffico, Quando si ama si deve partire (Mondadori), che già nel titolo contiene un’intenzione esistenziale. Risoluta ormai a vivere a Milano è pure la catanese Silvana La Spina che con Maria Laura Gangemi, rigorosa poliziotta e fragile donna e madre, ha inventato un personaggio che in Uno sbirro femmina (Mondadori) affronta la mafia e i poteri forti catanesi con un animo che maschera una labilità spirituale caduca e cagionevole. 
Fuori dalla Sicilia vivono anche Chiara Palazzolo e Paolo Di Stefano, la cui ricerca narrativa acquisisce donne del tipo di Mirta della trilogia dei sopramorti della Palazzolo (ultimo titolo Ti porterò nel sangue, Piemme) e della più realistica Rita di Di Stefano che Nel cuore che ti cerca (Rizzoli) trasfonde una storia vera in un fondo invenzionale che ricorda Pastorale americana di Philip Roth: di un padre che cerca la figlia scomparsa della quale sentiamo la voce di bambina che negli otto anni di segregazione cresce e diventa sempre più una donna determinata e matura. 
Irrequieta e indomita è anche Maria Trigòna di Marco Vespa che in Nata in riva al mare (Marsilio) asseconda un gusto per il cerebralismo e il ghirigoro interiore le cui marche ritroviamo anche in L’indecenza (Mondadori) di Elvira Seminara, storia di un menage à trois nutrito dalla lisergica figura di una domestica ucraina sulla cui evanescenza si regola la vita di una coppia - e soprattutto di una moglie - che non si basta in una Catania troppo borghese per essere vera. Autentica è invece la Sicilia di Turi Vasile che in Silvana (Avagliano) produce un suggestivo gioco combinatorio tra la terra natale e la donna amata nella misura di racconti brevi che involgono scansioni articolate come cadenze di una elegia del cuore e della memoria. 
Diverse le donne di Aurelio Grimaldi, che se in libri come Le buttane e Storia di Enza aveva colto il vivo di una Sicilia isomorfica adesso sta per pubblicare da Città Aperta Come Melissa convinse mamma e papà ad amarsi per sempre, romanzo dei buoni sentimenti scritto insieme con le figlie Arancia e Camilla di sedici e nove anni. Una presenza non nuova quella delle teenager: la siracusana Chiara Strazzulla, anche lei trapiantata da tempo a Roma, ha ricreato infatti una vasta saga norrena, Gli eroi del crepuscolo (Einaudi), nella quale due adolescenti sono protagonisti di un fantasy dove la Sicilia non c’è più. 
A ben vedere la tendenza attuale è proprio questa: liberarsi della Sicilia, un’idea fino a qualche tempo fa inconcepibile e tutt’oggi respinta dalla generazione più matura, da Camilleri (impegnato in una trilogia tutta siciliana delle metamorfosi il cui ultimo titolo è Il casellante, Sellerio) a Vincenzo Consolo, diventato abulico ma autore per ultimo di un espressivo e partecipato rapporto narrativo «di qua dal Faro»: La pesca del tonno in Sicilia (Sellerio). Ma Giuseppe Bonaviri, il terzo della grande triade siciliana vivente, ha per il momento deciso di lasciare la Sicilia rurale e magica della sua infanzia per riflettere sulla vecchiezza: in Gesù lunare, che Sellerio si prepara a pubblicare, darà infatti conto del suo stato di semicecità immaginando in una fiaba di cinquanta pagine un angelo azzurro e un cieco di fronte al mistero nero della vita. 
E dunque: se, una volta prese le distanze dalla Sicilia, in Quando è la rivoluzione (Baldini Castoldi Dalai), Fulvio Abbate rivanga i movimentati anni Settanta di una Roma oleografica ed evocativa, Vanessa Ambrosecchio porta la sua Mariù a Venezia per esplorare «il paese del corpo» in un romanzo, Cico c’è (Einaudi), che è un postmoderno abregé di fisiologia del sesso e dell’amore adolescenziale; Michele Giuttari ambienta ancora a Firenze il suo giallo politicamente scorretto Il basilisco (Rizzoli) e Sergio Campailla in La divina truffa (Bompiani) si trasferisce con Cagliostro nel Lazio e poi in Europa, così come Giosuè Calaciura, che dagli angiporti palermitani ha trovato piste di scandalo nei cosmopoliti ambulacri del Vaticano dando con Urbi et orbi (Baldini C.D.) un noir di porpora e intrigo.
Proprio la vena storico-realistica irrora una produzione non sparuta che riporta in Sicilia. In Carne viva (Baldini C.D.) Domenico Cacopardo si situa nello stesso Settecento rivisitato da Campailla ma rimanendo nel Messinese e disegnando un personaggio di donna, Costanza Mondio, che è tra i più riusciti del gineceo siciliano pronto a decastigare i propri costumi. Costruiti su vicende reali come nel caso dell’ultimo Paolo Di Stefano, sono anche le prove omologhe, tra romanzo e saggio, di Maria Attanasio e Davide Camarrone: Il falsario di Caltagirone (Sellerio) della prima ricostruisce una figura che allo Sciascia dell’abate Vella sarebbe piaciuta non meno dell’inverosimile morto-vivo di Ragusa che Camarrone in I diavoli di Melùsa (Rizzoli) ha reinterpreato forse con troppa libertà. Aderente invece al dato storico si è tenuto in La volata di Calò (Sellerio) Gaetano Savatteri che ha fatto luce su un misconosciuto e geniale artigiano dell’entroterra siciliano, mentre Stefano Vilardo ha riproposto da Sellerio l’indimenticato Tutti dicono Germania Germania, commossa testimonianza dal vero dell’epopea dell’emigrazione. Dello stesso calco lirico-mimetico è anche il romanzo a tinte forti e felici di Roselina Salemi sulla fine di un paese del Siracusano fagocitato dalle ciminiere: il suo Il nome di Marina (Rizzoli) rende la biografia di un luogo ipostatizzandolo nella figura del suo più tenace abitante. 
Alla perdita della memoria di un luogo è anche riferibile, ma sul piano unicamente dell’invenzione letteraria, Memorie di un traditore (Mondadori) di Enzo Russo che declina il sentimento ulisside del nostos sotto la specie dell’infrazione dell’ideale dell’ostrica. Romanzato è anche Il manoscritto di Shakespeare (Sellerio) di Domenico Seminerio che attinge a episodi autentici e finisce per fare un’olla di verità e finzione. Shakespeare compare anche nel secondo romanzo di Ottavio Cappellani, Sicilian tragedy (Mondadori), un grottesco tra pantomima e anapestica che vuole scimmiottare Camilleri ma che finisce per cadere negli stilemi delle diverticolari e improbabili atmosfere di Ciprì e Maresco. Sono gli stessi cieli che in qualche modo, ma sotto una cifra meno prorompente e dionisiaca, trascolorano La mossa del matto affogato (Mondadori) di Roberto Alajmo, che sceglie di calibrare il ritmo di una tranche de vie di perdizione e afflizione agli effetti di una mossa assassina degli scacchi entro una logica rovesciata della riviviscente mossa del cavallo di camilleriana memoria. 
Questo gusto per gli ottoni di tipica matrice siciliana, un esperpento riconiato nella lingua e nei modi febbrili e brucianti di una ricerca stilistica tutta in arsi, trova una sintesi nel modello di espressione proprio di Silvana Grasso che costituisce il terminale alto contrapposto a quello basso di Camilleri. Il suo Pazza è la luna (Einaudi) ripropone una galleria di tipi siciliani che fanno un tout de même di eccentricità e barocchismo con ambienti, storie e stile. 
Ma è Camilleri, con l’autorità del suo successo, a tenere il comando della regione e dettare oggi ai siciliani i modi di espressione che si traducono anche in statutari modi di conoscenza.

Articolo uscito su L'Unità