Quando Gesù Cristo, rivolto agli scribi e ai farisei, dice loro la celebre frase "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra", così salvando una peccatrice (tale anche ai suoi occhi, visto che la invita a non peccare più, ma tale soprattutto secondo la legge imperante di Mosè), non indica il peccato universale, perché è proprio e soltanto di adulterio che accusa i giudici della donna.
Se volesse invitare a scagliare la pietra in presenza di un peccato di qualsiasi genere, dovremmo infatti supporre che il Messia voglia equipararli tutti a uno stesso livello di gravità mentre è proprio l'adulterio che per legge merita la lapidazione. Quel che però fa Gesù è di sconfessare la giustizia come principio esso sì universale.
Se volesse invitare a scagliare la pietra in presenza di un peccato di qualsiasi genere, dovremmo infatti supporre che il Messia voglia equipararli tutti a uno stesso livello di gravità mentre è proprio l'adulterio che per legge merita la lapidazione. Quel che però fa Gesù è di sconfessare la giustizia come principio esso sì universale.
Le parole divine che intendono rendere gli uomini uguali di fronte allo stesso reato-peccato sortiscono infatti il risultato di farli invece impunibili sull'assunto che chi ha commesso adulterio non può giudicare e punire un altro che si macchi della stessa colpa. Alle parole di Gesù gli scribi e i farisei vanno via uno alla volta, cominciando dagli anziani, che evidentemente hanno maggiore consapevolezza dei loro trascorsi di adulteri. Andando via si confessano colpevoli pubblicamente, come pubblicamente hanno voluto che fosse riconosciuta la colpa della donna adultera, trascinata in mezzo alla folla. Soltanto un "giusto" può alzare la pietra contro di lei, ma nella turba non ce n'è uno solo: colpa soprattutto della legge mosaica che ammettendo il ripudio nelle forme più discrezionali lascia largo spazio all'adulterio. Essendo onnisciente, o conoscendo bene i costumi ebraici, Gesù sa o suppone che non c'è un solo giusto tra la gente, per cui pronuncia un'intimazione che non mette in discussione la legge mosaica né il fondamento della propria dottrina ispirata alla compassione e all'indulgenza dai peccati. Altrimenti bisognerebbe ipotizzare che in Giudea non siano mai stati eseguiti lapidazioni o strangolamenti (in caso di donne sposate), dovendosi escludere che solo nella folla davanti a Gesù e unicamente in quella non si sia trovato un giusto.
Senonché gli scribi e i farisei, ben educati a un integralismo irriducibile e senza concessione alcuna, men che meno verso un "falso profeta", potrebbero obiettare due ragioni: la prima, che la lapidazione è comandata da Mosè contro gli adulteri ed è legge dello Stato confessionale, dimodoché deve essere eseguita così come tutte le altre sentenze, a cominciare dalla legge del taglione, senza che sia richiesto al giudice o al boia di essere indenne dalla stessa colpa; la seconda, che l'esecutorietà della pena è demandata direttamente al popolo, quindi in forma collegiale e non individuale, per cui non rileva la mano del singolo ma quella collettiva. Eppure, andando via uno alla volta, i giudei si sono sentiti personalmente e individualmente responsabili al pari della donna.
Cosa li ha convinti a desistere dall'osservanza della legge quando hanno appena prospettato a Gesù, sfidandolo a pronunciarsi, l'obbligatorietà dell'azione penale? Non c'è risposta nell'analisi fatta dagli esegeti di ogni tempo di un testo che peraltro non è ritenuto autentico, se non in senso apologetico attribuendo forza decisiva alle parole di Gesù. Eppure nel brano giovanneo 8:1,11 c'è un'indicazione. Sibillina ed enigmatica, ma c'è. Giovanni scrive che quando gli scribi e i farisei chiedono il suo parere sulla lapidazione egli si china e comincia a scrivere a terra con un dito. In realtà Giovanni ci ha appena detto che è già seduto a terra, intento ad ammaestrare (qualche versione biblica corregge in "insegnare") la folla che si è radunata al tempio. Ed è probabile che sia seduto sulla sua tunica, secondo l'uso comune. Quindi non si china nel senso che si mette a terra ma, essendo già seduto, piega il solo busto per scrivere nella polvere. Gesto che compie subito dopo che i giudei sollecitano una risposta, finché si alza in piedi e fornisce la risposta divenuta paradigmatica.
E' la prima volta che vediamo Gesù scrivere quando abbiamo avuto motivo di pensare che fosse addirittura analfabeta e ignorante non avendo mai fatto una sola citazione letteraria nei suoi sermoni, resi sempre e solo oralmente e senza mai leggere un testo scritto. Perché si mette a scrivere a terra? Per prendere tempo e pensare alla risposta? E cosa scrive o magari disegna? Vuole fare intendere che la legge mosaica è scritta nella sabbia? O vuole mettersi al fianco dell'adultera, costretta a terra e sul punto di essere lapidata, scrivendo qualche parola di ammonimento o di solidarietà? O forse sta prendendo appunti in vista dell'insegnamento da riprendere dopo l'interruzione? Non sono domande che avranno mai una risposta migliore di ogni altra.
Ma un fatto è documentato: Gesù si china due volte a scrivere a terra ritardando la risposta. Potrebbe allontanarsi e poi tornare, oppure seguitare a parlare alla gente ignorando gli integralisti o magari fingere di non averli sentiti, cosa da escludere perché proprio quando ascolta la loro domanda si china a scrivere e sospende il sermone. Un altro fatto è certo: così come Giovanni non ci dice cosa Gesù scrive a terra, nulla ci rivela del discorso che sta tenendo al tempio. Vede i farisei con la donna, raccoglie la loro provocazione e si concentra rimanendo seduto a terra e zittendosi. Con la scusa di avere qualcosa da ricordare e perciò se l'appunta, in realtà Gesù sta riflettendo molto velocemente e se una parola sta scrivendo sulla sabbia è "transustanziazione", un caposaldo della sua dottrina che tanto ha scandalizzato gli ebrei, del tutto contrari ad accettare di mangiare carne no kosher per assimilarsi al messia: questo pane è la mia carne e ogni volta che ne mangerete vivrete in eterno e vi risusciterò. Le parole di Gesù introducono l'eucarestia, il momento liturgico più simbolico e gravido di significati: il sangue si trasforma in vino e la carne in ostia sacra. Sempre. Non c'è mai stata una santa messa in cui questo miracolo non sia avvenuto e che il corpo e il sangue di Cristo non siano stati intesi come transustanziati nel senso di una sostanza che si realizza in un'altra.
Gesù sa bene che se diffida i giudei a farsi giudici per un peccato che è anche di ognuno di loro non può poi sostenere che la transustanziazione si compia sempre, a prescindere dal singolo celebrante: se la sostanziazione del corpo e del sangue di Cristo si ha anche nelle mani di un celebrante che ha appena peccato, la giustizia non può non realizzarsi anche per mano di giudici ingiusti.
Questo teorema è sviluppato con esiti definitivi da Leonardo Sciascia in Il contesto. Il presidente Riches dice all'ispettore di polizia Rogas: "Prendiamo, ecco, la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall'ordine fa sì che ad ogni celebrazione il mistero di compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi (...). Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta. Sicuramente. E direi anche: inevitabilmente".
Sciascia parla di celebrazione della legge e non di amministrazione, volendo così sacralizzare la giustizia. Chinandosi a scrivere sulla sabbia Gesù ha svolto lo stesso processo mentale ponendosi la questione se la giustizia si compia sempre così come la propria "manifestazione" si perpetua nel pane e nel vino al di là dei meriti dei celebranti. Si è dunque contraddetto e sulla sabbia ha confessato l'errore che stava per commettere, rendendosi conto che la folla, compiendo un atto di giustizia, avrebbe dato manifestazione di una transustanziazione civile, di una "celebrazione" inevitabile? E' invece da accogliere l'idea che Gesù abbia voluto distinguere la giustizia terrena, sia pure ispirata dal cielo com'è quella mosaica, dalla fede in Dio: la prima è soggetta ad errori, la seconda mai. Sicché la legge statale non può essere celebrata, come pretenderà Sciascia, ma solo amministrata ed è quindi dipendente dalla volontà umana e da un singolo giudice, mentre la fede è officiata da ministri che sono meri funzionari di Dio. In sostanza Gesù vuole dimostrare che la legge umana è soggetta ad errore.
Anche Sciascia si pone la questione di fronte ai gradi di giudizio, agli appelli e ai ricorsi, momenti che postulano l'errore giudiziario. E teorizza l'esistenza di un'opinione laica della giustizia, "un'opinione che sta al di fuori" e che quando riguarda una religione ne minaccia la vita stessa. Il dogma in sostanza non ammette dubbi ed è sulla natura di esso che Gesù riflette raccogliendosi col dito sulla sabbia. Può imputare ai giudei la stessa colpa dell'adultera perché la loro legge non si compie inevitabilmente, è un'opinione che sta al di fuori e che rientra, fondandosi sulla possibilità dell'errore, nell'ambito della "opinione corretta" in base alla quale Socrate ha già definito la natura degli uomini politici, i quali possono realizzare anche grandi cose ma come farebbero gli indovini, senza cioè coscienza del risultato ottenuto. Cosa diversa è la transustanziazione, che avviene anche per iniziativa del più peccatore degli officianti.