mercoledì 23 aprile 2014

Uomini e animali, questione di violenza




Non c’è animale che per conquistare un territorio, una femmina o il comando del branco, non scelga di procurare all’avversario il maggiore danno fisico, nella stupefacente consapevolezza che più colpisce e più prevale e che la morte è il male massimo che può infliggere. E’ a questo risultato estremo che tende aggredendo l’avversario?
O invece ha coscienza che tra procurare una ferita e determinare la morte passano altri stadi di danno fisico e agisce quindi secondo il livello di nocumento che ha deciso? Se così è, ogni animale possiede non solo il concetto di strategia bellica ma anche quello di condanna e dei vari gradi di essa, una condanna che commina ed esegue secondo una cognizione di colpa e di pena. 
Consapevolezza, coscienza, cognizione: oppure mero istinto? Per quanto se ne sappia, un animale non può avere contezza alcuna di ciò che fa, per cui agisce in forza del suo istinto naturale. Come spiegare allora che un cane, un leone o un gatto guardino l’avversario – che sia un altro animale o anche un uomo – negli occhi e non in un’altra parte del corpo, la zampa o un piede, da dove potrebbe più ragionevolmente, cioè «istintivamente», attendersi un attacco? Perché gli animali percepiscono dallo sguardo l’umore dell’altro, esattamente come fa l’uomo? E’ dunque il loro un istinto di tipo umano? 
Entrambi vedono nell’eliminazione fisica del rivale o nel suo indebolimento la soluzione per farsi ragione. Mettere l’avversario in condizioni di inferiorità è un metodo anche di punizione oltre che un mezzo di supremazia. Questo significa che sia gli uni che gli altri usano la forza non solo per vincere ma anche per dominare: fanno la guerra, conquistano un dominio e poi amministrano giustizia. 
Ma lo stato di inferiorità nel quale viene ridotto il rivale può anche non essere fisico: oltre a un danno corporale può essere comminato un danno che mina la sua qualità della vita. Privare infatti un animale o una persona della libertà o dei mezzi di sostentamento significa penalizzarlo duramente. L’uomo decreta la detenzione e la pena pecuniaria, colpendo la libertà personale e i beni patrimoniali; l’animale commina per esempio il bando, sicché quando un leone vince la sfida, il suo contendente ferito lascia per punizione il territorio e va in esilio, non diversamente del resto da molta prassi ricorrente nella storia dell’uomo, peraltro legiferata: al tempo dell’Inquisizione una delle pene più temute era il fuorbando, che sradicava l’eretico dal suo ambiente gettandolo in una condizione ai limiti della sopravvivenza.
Uomini e animali scelgono dunque come strumenti di potere e di sopraffazione esecuzioni che incidendo sulla sopravvivenza, sulla libertà e sulla qualità della vita colpiscono i beni che sono i più cari sia agli uomini come agli animali. Ma come fanno gli animali a sapere che la vita è il bene più prezioso e ad avere quindi cognizione di cos’è la morte? La domanda è la stessa se anziché agli animali pensiamo agli uomini primitivi. Imparano dal bisogno che sentono di mangiare che per nutrirsi devono procurarsi cibo commestibile e prima di apprendere la tecnica della coltivazione dei campi la loro capacità di sostentamento deriva dalla caccia. La caccia è una forma di guerra permanente che una specie dichiara ad un’altra e che si decide sulla base della forza. Viene chiamata ciclo vitale: il più forte mangia il più debole. L’evoluzione nasce dalla caccia: dell’uomo all’animale e viceversa, dell’animale all’animale e dell’uomo all’uomo. 
E’ la caccia che rivela all’uomo la concezione della morte: ridotto alla propria mercé, egli scopre che l’animale che sta mangiando muore via via che lo mangia; di conseguenza per facilitarsi il pasto trova preferibile uccidere l’animale prima di mangiarlo. Poi scopre anche che cotto sul fuoco è più commestibile e saporito. Ed è la caccia che rivela agli animali la stessa idea di morte. Con la differenza che gli animali, quando scoprono che mangiando la preda essa muore, non invertono il processo: in realtà mangiano gli altri animali sempre vivi, che vincono in battaglia e riducono all’impotenza. Vedono che per abbatterli bisogna ridurli in spoglie e ciò fanno anche quando sfidano un rivale della propria specie. Che però non mangiano. Esattamente come l’uomo, che uccide solo l’estraneo e il diverso. 
E' sperimentando la vita che uomini e animali dei primordi scoprono mangiando come la tecnica per procurarsi il cibo, cioè la violenza, possa essere esercitata per difendersi dalla violenza o per sottomettere i più deboli. Trovati gli aspetti comuni all’origine della vita sulla Terra, quando uomini e animali appartengono allo stesso genere, resta a questo punto da stabilire se nei secoli siano stati gli animali ad avere assimilato gli uomini.