sabato 2 maggio 2020

Goliarda Sapienza, in carcere per troppa letteratura


Solo negli ultimi anni è stato riconosciuto il talento della scrittrice catanese Goliarda Sapienza, morta nel 1996 a 72 anni. In vita fu del tutto sconosciuta. Una vita travagliata, vissuta perlopiù in povertà, e fatta per suscitare scandalo. Conobbe anche il carcere, dove scrisse L’università di Rebibbia, esperienza che dovette curiosamente imputare al troppo amore per la letteratura. Avvenne a Roma dove viveva, dopo aver terminato di scrivere quello che oggi viene considerato il suo capolavoro, L’arte della gioia. Chiese a una ricca amica centomila lire in prestito per fare delle copie del suo romanzo e quando venne richiesta di restituire i soldi, anziché onorare il debito andò a trovarla a casa e le rubò dei gioielli che vendette a Milano servendosi di una carta d’identità a sua volta rubata a una propria sosia, Titina Maselli, la sorella del regista Citto che era stato dal ‘47 al ‘65 il suo compagno e che gli rimarrà amico fino alla morte improvvisa. 
I gioielli finirono in una mostra all’Eur, a Roma, e la cameriera della vecchia amica, che era stata sospettata del furto, li riconobbe. I carabinieri risalirono a Goliarda grazie a un errore commesso: avendole fatto leggere il manoscritto dell’Arte della gioia, l’amica aveva potuto conoscere Modesta, che è la protagonista del romanzo ma che soprattutto era il nome di battesimo riportato nel documento d’identità di Titina Maselli, nome al quale Goliarda non aveva saputo resistere nel farlo suo e darlo alla sua protagonista.
Il romanzo non avrà vita facile e uscirà postumo. Quando nel 1976 Goliarda Sapienza lo termina, dopo dieci anni, Stefano D’Arrigo ha pubblicato da un anno il suo interminabile Horcynus Orca. Figli della stessa stagione abbagliata dalla attrazione saggistica, i due letteratissimi romanzi siciliani convivono lo stesso destino del Gattopardo: se Lampedusa si era immalinconito a vedere inedito il manoscritto, D’Arrigo si ammala a riscrivere il suo, mentre la Sapienza si riduce in povertà per pensare al libro della sua vita che riteneva il più importante. Angelo Pellegrino, siciliano e scrittore anch’egli, per 21 anni marito della Sapienza, ammetteva che senza l’enorme successo avuto in Francia, nel 2008 il libro non sarebbe entrato nel catalogo Einaudi. Nel ‘98 Pellegrino ne aveva pubblicato a sue spese una parte nella collana Millelire di Stampa alternativa e nel 2003 aveva pubblicato la stesura integrale, ma mercato e critica erano rimasti del tutto indifferenti.
Dodici anni dopo la morte dell’autrice catanese e trentadue da quando era stato scritto, L’arte della gioia tornava in Italia con il carico di alcuni pregiudizi e l’etichetta di romanzo addirittura satiriaco. I pregiudizi riguardavano la struttura: concepito come romanzo naturalistico di tipo ottocentesco (e Dostoevskji è l’autore de chevet di Goliarda che muore tenendo I fratelli Karamazov in mano), con uno svolgimento che tiene rigorosamente uniti fabula e intreccio, svela poi improvvise soluzioni sperimentalistiche che ne distorcono il dettato. Le contaminazioni non sono poche: intrusione della terza persona che si sostituisce all’io narrante; cantucci creati con il lettore messo a parte della vicenda dalla stessa autrice implicita; dialoghi articolati in forma di copione teatrale; elisione dell’indicazione dei personaggi che hanno la parola; eliminazione delle risposte interlocutorie e resa dell’azione secondo i modelli orali della tragedia greca di cui accoglie spesso il ritmo concitato dello scambio di brevissime battute e il ruolo del coro; campi cinematografici con parlanti che interloquiscono come personaggi della scena precedente; costruzioni sintattiche secondo la parlata siciliana e uso frequente di termini dialettali entro una pronuncia tenuta comunque sui toni alti di un linguaggio e di uno stile a volte persino rondeschi. Tecnica teatrale e cinematografica, imparate come attrice prima sulla scena e poi sul set, si ritrovano fuse e trasposte di peso in un romanzo che vorrebbe assecondare il gusto residuale della neoavanguardia in un clima, quello strutturalistico, che però richiede al romanzo il massimo della coerenza e dell’unità di registro.
Sennonché Goliarda Sapienza vuole fare del suo romanzo una gioiosa e velocissima macchina di vita, come quella della protagonista animata da una «pazza volontà di vita» e dall’anelito a farne il pieno. L’arte della gioia implica perciò la voglia di esorbitanza, di trasgressione, di liberazione della volontà. Di qui il titolo del romanzo e la sua esuberante natura di testo insaziabile e volitivo, accanito nella ricerca del massimo, secondo la lezione di Vittorini i cui ragazzi del Garofano rosso ad altro non penso che ad essere mas hombres.
Tanta ricchezza di istanze non poteva non nuocere a un romanzo a carica europea che, volendo riprendere i motivi più siciliani propri dei Viceré di De Roberto prima che del Gattopardo, guardava invece alle esperienze ben più vaste del Flaubert di Madame Bovary e soprattutto dello Stendhal del Rosso e il nero, la principessa Modesta altro non essendo che una Emma votata al macerante piacere della vita è un Julien Sorel risospinto a vivere sempre in abiti altrui. Educata in convento, Modesta va in una casa patrizia dove guadagna il titolo di principessa. Sposa la causa del socialismo e sull’onda di una continua ricerca del piacere anche sessuale, non risparmiandosi sin dall’inizio esperienze saffiche e incestuose, attraversa tutto il Novecento riflettendo sempre la gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo. Ha anche nuociuto alla Sapienza l’intento vetero-dannunziano di sintetizzare arte e vita. Portando questa in quella, è finita infatti in carcere.