mercoledì 22 aprile 2020

La Sicilia prima dei Greci, più ombre che luci


La storia la scrivono da sempre i vincitori e non risponde al principio di falsificazione di Popper, valido solo nella scienza, dove una teoria vive fino a quando non viene confutata. Quanto alla Sicilia, quella che la storiografia dominante ci ha fatto conoscere sin dall'antichità, le ricerche, le scoperte archeologiche e gli studi nulla hanno aggiunto alla ricostruzione ufficiale della sua storia.
Si fa partire l'evoluzione dell'isola dall'ottavo secolo con la colonizzazione ellenica e si relegano nella prospettiva della "Sicilia favolosa" e persino nel mito gli avvenimenti antecedenti. Il caso riguarda l'intera Italia, la cui storia si fa cominciare dagli Etruschi ignorando la lunga e ben testimoniata vicenda dei Siculi, che solo autori dell'Ottocento come Maggiore, Martelli e altri hanno provato - senza riscontro - a porre in primo piano. Basata sulle fonti classiche, da Tucidide in poi, tutte incerte e contraddittorie, la ricerca storica moderna non ha fatto alcuno sforzo per superare i paradigmi imposti, né la Regione siciliana o altri enti isolani, così pronti a sbandierare il credo dell'identità regionale, hanno esperito mezzi per aggiungere alla storia della Sicilia i capitoli mancanti, quelli precedenti all'ellenizzazione.
Si tratta in particolare di fare luce sui Siculi, oltre che sui Sicani, gli Elimi e i Morgeti, le popolazioni cioè indigene: nemmeno esse autoctone, ma certamente titolari di un diritto di possesso dell'isola antecedente a quello dei Greci e di ben più lunga datazione. In realtà, se si vuole rintracciare l'elemento siciliano primigenio bisogna risalire ancora indietro e arrivare alla civiltà dei "Castellucciani", ovvero a mille anni prima, nel 2000, a un'età detta primitiva alla quale molto sbrigativamente viene annessa anche la presenza dei Siculi. L'egemonia culturale del modello ellenico oggi invalente ha portato a grandi equivoci: non solo la confusione tra Sicelioti e Siculi ma anche la supposizione che la Sicilia facesse parte (come anche alcuni autori classici purtroppo affermavano legittimando l'errore) della Magna Grecia e che Siracusa ne fosse la capitale: un modo anche questo per mistificare la storia e svilire l'importanza della Sicilia, la cui sola costa ionica in verità fu colonizzata dai Greci mentre nel resto dell'isola dominarono popolazioni ostili ai Greci che avevano un'altra lingua, altri dei e un'altra scrittura. Magna Grecia era piuttosto la sola penisola italiana e "Italioti" venivano chiamati gli abitanti, tenuti distinti dagli stessi Greci dai "Sicelioti". I quali, insieme con I Siculi, non potevano oggettivamente essere considerati - epperò lo furono - greci appartenenti a una nazione estesa fino a comprendere quella grande potenza rivale (e vittoriosa) che era la Sicilia a capo della quale era posta l'invincibile Siracusa.
La verità è che autori greci e filoellenici hanno voluto nei millenni imporre l'accezione di "Magna Grecia" alla Sicilia per affermare una superiorità della Grecia che nei fatti non c'era, se Gelone si poté permettere di dire agli ambasciatori spartani e ateniesi (che lo volevano al loro fianco contro i Persiani) che "l'anno perdeva la sua primavera" col negargli il comando di tutte le forze alleate. E Gelone era tiranno di una città corinzia legatissima alla madrepatria, per cui si possono dunque immaginare quali fossero i sentimenti dei Siculi nei confronti della Grecia come anche di Siracusa. La guerra di liberazione condotta da Ducezio a capo dei Siculi viene tutt'oggi vista alla stregua di una rivolta popolare, quasi di schiavi, domata dalle forze legittimate al dominio della Sicilia. Non diversamente da quella che riguarderà per due volte la dominazione romana.
Così come la storiografia dominante ha inteso mortificare la Sicilia legandola alla Magna Grecia, allo stesso modo i Siculi hanno subito analogo processo di cancellazione della memoria. La ricerca storica di ogni tempo non si è minimamente interessata a scoprire come fu possibile che di colpo i Siculi scomparvero dalla scena, come dinosauri; e non si è interessata perché i Siculi - e ancor più i Sicani e gli altri popoli - furono considerati al pari di tribù indigene e selvagge, non degne di alcuna attenzione. Ancora oggi è così. Basta vedere come sono trattati i siti anellenici rispetto a quelli greci, così magnificati e valorizzati. Dai laghetti dei Palici alle città sepolte ma testimoniate da resti abbandonati come al Mendolito, ai "Santoni" e ai "Ddieri" di Palazzolo inaccessibili ai turisti, alle piramidi attorno all'Etna, a Pantalica e all'Anaktorion, le vestigia sicule non godono di alcun aplomb, insieme con le divinità sicule come Hybla e Adranos. L'interesse scientifico salta dalla grecità all'antichità archeologica e crea in Sicilia una lunga teoria di "secoli bui" sui quali ben poco si sa e viene fatto sapere.
I Siculi vengono addirittura creduti sprovvisti di una loro lingua anche scritta e si pensa che le incisioni trovate in Sicilia e in continente ad essi attribuite siano, contraddittoriamente, una variante del greco in Sicilia e una variante del latino nella penisola, mentre costituiscono non un dialetto ma una vera e propria lingua che in parte è quella che i siciliani oggi continuano a usare e che deriva dal sanscrito e prima ancora dall'alfabeto preindoeuropeo. Un glottologo siciliano di Centuripe trapiantato da giovane a Monza, Enrico Caltagirone, nell'indifferenza del mondo è riuscito a interpretare le incisioni sicule attestando una loro originalità nonché un grado di espressione che dimostra uno stadio culturale per nulla inferiore a quello dei celebrati Greci, solo se si pensa al significato impressionante e sorprendente di tre di esse: "la malattia guasta la vita", "la risata può essere un insulto", "possa questo corpo risorgere". La comunità scientifica ha del tutto taciuto l'opera di Caltagirone, insistendo sul teorema ereditato dall'antichità che perpetua un'idea dei Siculi che li accosta ai pellerossa o ai nativi africani. L'equivoco sembra un imperativo passato da secolo in secolo per tenere la Sicilia in uno stato perenne di inferiorità e sottomissione voluto da tutti.
Persino Omero nell’Odissea (dove Polifemo viene visto come un mostro e non come un uomo quando in realtà rappresenta il primo siciliano che cercò di cacciare dalla sua terra gli stranieri) dimostra la confusione invalsa già al suo tempo giacché chiama Sicania l’isola e Siculi i suoi abitanti. A Odisseo fa dire che proviene dalla Sicania, sennonché la vecchia serva è chiamata “sicula” e allo stesso modo “Siculi” sono detti da uno dei Proci gli indigeni. L’isola appare dunque ad Omero come una terra di schiavi dove i Proci suggeriscono a Telemaco di destinare gli stranieri perché siano venduti e da dove sono giunti a Itaca come “schiavi per costrizione”, cioè a vita, la “vecchia sicula” e il marito Dolio che vivranno amabilmente in casa di Laerte insieme con i figli: schiavi docili e devoti tanto che il padre di Odisseo viene assistito con “gentile cura” dalla vecchia badante, schiavi per nulla inclini a forme di ribellione e di protesta.
Epperò tale conoscenza della Sicilia stride con le più recenti acquisizioni storiche, secondo le quali i Siculi, provenienti originariamente dalle sponde del Mar Nero con le loro divinità fra cui il terribile e guerriero dio Adranos, furono un popolo bellicoso: arrivarono nell'Illiria e attraversarono il mare a cui diedero il nome del loro dio, Adriatico, per sbarcare sulle coste italiche dove fondarono città che chiamarono Adria, Hatri, e poi giungere in Sicilia, stanziandosi all'inizio alle falde dell'Etna dove fondarono una città, oggi Adrano, sede di un tempio dedicato ad Adranos destinato a divenire meta di pellegrini da tutta la Sicilia pregreca.
Ma allora, a volere dare credito a Omero, schiavi furono i Sicani mentre i Siculi furono dei guerrieri? La ricerca tace e non dà risposta all'interrogativo se prevalessero gli uni o gli altri in un periodo, il dodicesimo secolo, al quale si fa risalire la guerra di Troia. A ridosso della quale si ha sulla scena mondiale l'apparizione di una popolazione, gli Shekelesh, nella quale una parte della storiografia identifica i Siculi, che avrebbero fatto parte dei "Popoli del mare", una coalizione arrivata incredibilmente a devastare decine di città ittite e a minacciare l'Egitto usando (secondo Claudio D'Angelo, un ricercatore siciliano) armi di ferro e non più di bronzo ma soprattutto un'arma micidiale e mai vista prima: il fuoco, lanciato nelle città trovate incenerite con frecce ignifughe grazie a un composto la cui materia prima pare si trovasse in Sicilia.
Ma furono davvero i Siculi i mitici Shekelesh? Contano fra le altre due ipotesi: che essendo stati dagli Egiziani fatti prigionieri soldati circoncisi si trattasse di una popolazione semitica e non sicula; che invece fossero proprio Siculi in base all'assonanza onomastica, la coincidenza dell'arrivo degli Shekelesh in Sicilia con la guerra portata contro l'Egitto e il commercio che empori siculi come soprattutto Thapsos tenevano con le popolazioni del Mediterraneo orientale, trattando soprattutto lana, prodotto questo che contribuisce a formare l'attributo di shekelesh dove la radice sheke indica i Siculi e l'apposizione lesh significa lana.
Come si vede, ci sarebbe motivo e materia per condurre serie indagini e finanziare campagne di ricerca, essendo altissima la posta in palio: si tratta di risolvere quesiti storici millenari che potrebbero dare senso e contenuto a quella che viene chiamata "identità siciliana". Non è solo una questione storica. Dall'accertamento della verità sui Siculi dipende anche la promozione della lingua siciliana e il suo riconoscimento. A parole la Regione ne ha promosso la diffusione nelle scuole, ma nei fatti lascia che rimanga all'oscuro la sua origine. Tacciono anche le università, le fondazioni, gli storici e gli enti pubblici e privati. Anche questo è un atteggiamento di vassallaggio nei confronti della cultura dominante e un modo per vivere una condizione riconosciuta di inferiorità.