lunedì 6 aprile 2020

Un'epidemia di natura, non un nemico in guerra


Il coronavirus evoca il leone dello schetch con Alberto Sordi e Monica Vitti nel film Le coppie: il ménage adulterino viene sconvolto, all’ennesimo appuntamento del mercoledì in un’appartata alcova, dalla comparsa sul ciglio di casa di un leone che, costringendo i due amanti a tapparsi dentro, li porta a litigare e a rompere la relazione.
È l’imprevisto inconcepibile, l’ostacolo insormontabile, l’impedimento fuori controllo che induce comportamenti derivati e consequenziali, tali che Monica Vitti, per trovare una spiegazione realistica, si chiede: «Ma chi ce l’ha messo ‘sto leone dietro la porta?», sospettando l’opera di uno dei due coniugi traditi, in realtà riportando sul piano umano un fenomeno di natura. Allo stesso modo pensiamo all’attuale epidemia come al frutto di un laboratorio, purché ci sia possibile dare un volto umano a un fenomeno naturale che è molto più temibile perché sconosciuto, se lo stesso Odisseo preferisce affrontare il mostro Scilla che non il gorgo Cariddi. Nel 1837, in occasione dell’epidemia di colera, la popolazione siracusana, sobillata da alcuni aristocratici antiborbonici, si sollevò accusando il governo di spargere il veleno rifiutandosi di credere che si trattasse di un morbo. 
Ma come il leone di Sordi è un animale che, appartenendo al mondo fisico, non risponde ad alcuna logica, la pandemia è un fatto di natura contro il quale non ci si può battere come fosse un nemico con proprietà umane, ma dal quale ci si può tutt’al più riparare, al pari di un uragano, o scappare quale fosse un terremoto. Parlare dunque di guerra, come fa oggi il mondo, e ugualmente di eroi, è sbagliato e distorsivo perché l’ipotesi di un nemico reale da affrontare mutua una condizione nella quale si richiedono forza, coraggio, strategia e lascia spazio a responsabilità e a speranze insussistenti di rivalsa e di vittoria finale, mentre occorre immaginare un’epidemia come un’alluvione permanente di fronte alla quale i termini usati sono di sciagura, devastazione, mortalità, fatalità. La differenza è capitale, perché dopo una guerra torna la pace e si ripristina lo stato originario quando invece dopo un terremoto si pensa a costruire case più solide e disporre piani antisismici. Scrive Manzoni nei Promessi sposi, che alla collera umana per epidemie come la peste "piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi".
È pur vero che la comunità scientifica lavora a un vaccino, ma si tratta sempre non di un’arma ma di un rimedio, perché la prevalenza della natura sull’uomo non dipende dalla capacità di difesa di questo ma dalla capacità di offesa di quella: un terremoto che duri un’ora non lascerebbe in piedi il migliore edificio antisismico, come un virus capace sempre di modificarsi potrebbe infierire senza fine. Per una legge che sembra fisica, i fatti naturali non sono tuttavia interminabili, avendo una durata e semmai una ciclicità, diversamente dai fatti umani che tendono a perpetuarsi. 
Il coronavirus è apparso inaspettato e sgradito nelle nostre vite determinando effetti crescenti di derelizione ed elicitazione: da un lato disarticola il mondo e scompone la rete di relazioni che il progresso ha intessuto, da un altro revolve dalla coscienza collettiva e dall’animo individuale il meglio e il peggio dove lo stato di natura del mondo materiale incrocia la coscienza umana. A fronte di infermieri che invece di darsi malati presenziano le loro corsie, troviamo preti che si rifiutano di avvicinarsi ai moribondi per l’estrema unzione, chi specula sulle mascherine, parenti che chiamano il 118 per liberarsi in casa di anziani sintomatici, automobilisti che investono pedoni e si guardano bene dal soccorrerli: comportamenti questi propri di uno stato nel quale l’epidemia è vista come un nemico, sia pure invisibile – i medici muoiono in prima fila nell’assalto alla baionetta contro il virus e la gente comune si confà a una situazione di guerra. Se fosse invece considerata un flagello, nell’epidemia vedremmo come nei secoli passati un castigo divino oppure un morbo della nostra civiltà quali sono il diabete e il cancro. Semplicemente non siamo soldati sul fronte o cittadini nei rifugi bombardati ma pazienti o potenzialmente tali che richiedono cure e non armi.