Quando Silvestro di Conversazione in Sicilia arriva a Messina in ferryboat, nella Stazione Marittima non è stato ancora installato il gigantesco mosaico di Michele Cascella che nel ‘39 ostenterà un Mussolini tonitruante al centro di una Sicilia oleografica ricopiata da Quasimodo.
Se gli «astratti furori» avessero atteso due o tre anni per ghermirlo, Silvestro non avrebbe potuto non vederlo e forse ammirarlo, ancorché l’enorme murale esaltasse l’Italia fascista e la «Sicilia centro dell’impero». Il regime pone quel mosaico a troneggiare nel punto dov’è ancora oggi dopo che la Marittima è diventata la porta d’ingresso in Sicilia, nonché quella di uscita. Tutto merito delle navi-traghetto che hanno finalmente scacciato la paura ancestrale dello Stretto che tantalizza i siciliani. Racconta Sciascia che ancora nel Settecento «quei pochi che erano riusciti ad attraversare lo Stretto, andata e ritorno, erano considerati figli della fortuna: e il berretto che avevano indossato durante la traversata si riteneva avesse virtù taumaturgiche, e specialmente per le partorienti». A quel tempo, tra le due sponde erano già attivi esperti piloti autorizzati dai Superiori a guidare le navi lontano dai gorghi e le reme, quella montante e quella scendente, che a Bartolo Cattafi appaiono «fasci alterni di energie che le due terre si scambiano attraverso lo Stretto».
Se gli «astratti furori» avessero atteso due o tre anni per ghermirlo, Silvestro non avrebbe potuto non vederlo e forse ammirarlo, ancorché l’enorme murale esaltasse l’Italia fascista e la «Sicilia centro dell’impero». Il regime pone quel mosaico a troneggiare nel punto dov’è ancora oggi dopo che la Marittima è diventata la porta d’ingresso in Sicilia, nonché quella di uscita. Tutto merito delle navi-traghetto che hanno finalmente scacciato la paura ancestrale dello Stretto che tantalizza i siciliani. Racconta Sciascia che ancora nel Settecento «quei pochi che erano riusciti ad attraversare lo Stretto, andata e ritorno, erano considerati figli della fortuna: e il berretto che avevano indossato durante la traversata si riteneva avesse virtù taumaturgiche, e specialmente per le partorienti». A quel tempo, tra le due sponde erano già attivi esperti piloti autorizzati dai Superiori a guidare le navi lontano dai gorghi e le reme, quella montante e quella scendente, che a Bartolo Cattafi appaiono «fasci alterni di energie che le due terre si scambiano attraverso lo Stretto».
Ma per secoli, la paura innata dello Stretto riflette quella atavica del mare che circonda l’isola. Visti da Sciascia, i siciliani gli voltano le spalle e «si aggrappano agli altipiani e alle montagne, a non vedere il mare e che così il mare non ci veda» sicché l’isola diventi anch’essa terraferma. Si nasce contadini in Sicilia e si diventa pescatori così come si finisce zolfatari: per necessità o per destino; perché se il mare, da dove irrompono eserciti stranieri e pirati, è sinonimo di morte, la terra è invece segno di nobiltà, titolo di proprietà, garanzia di lavoro. Mastro don Gesualdo muore di morte naturale perché vissuto nell’entroterra, mentre Bastianazzo annega con la Provvidenza in un paese di mare. Anche ‘Ndrja Cambrìa muore nel mare che bagna un villaggio di pescatori, lo stesso borgo natale del più grande nuotatore della Sicilia, Nicola Pesce, immerso dal 1200 nel fondo dello Stretto a sostenere la colonna della Sicilia che è a rischio di crollo; ma chissà che Colapesce non sia rimasto nelle profondità abissali dello Stretto per godere della sua bellezza, ricco come lo vede di una varietà che ne fa un ridotto dell’Atlantico, con le sue laminarie, il corallo nero, la clavelina e l’alicia mirabilis: un patrimonio di biodiversità che rifulge tra i relitti di navi e traghetti di ogni epoca in un mondo che dello Stretto fa un archivio storico e, come dice Vincenzo Consolo, anche una macchina del tempo: «Se fosse una lastra sensibile che si lascia impressionare da ogni sagoma che sopra vi passa, vedremmo infiniti legni, infinite vele d’ogni forma e tinta, mercanti e soldati d’ogni razza, leggeremmo infinite storie, la storia che è passata per quelle acque, per quella geografia minuta». Una geografia che cambia agli inizi del Novecento, quando i ferryboat conciliano i siciliani col mare dello Stretto dopo avere consolidato il collegamento con la Calabria. Facendola diventare finalmente di genere singolare.
Già. Perché per secoli la Calabria ha avuto in Sicilia un’accezione plurale, essendo piuttosto «le Calabrie»: colpa della lunghissima durata del viaggio. Bisognava «attraversarle» per arrivare in «continente» o per tornare. «Poi viaggiai nel treno per le Calabrie - ricorda proprio Silvestro di Vittorini - per quel paese di fumo e di gallerie, e fischi inenarrabili di treno fermo, nella notte, in bocca a un monte, dinanzi al mare, a nomi da sogni antichi». La traversata vera è anzichenò quella delle Calabrie (in nottate infinite tra voci rotte di sonno e di sgomento, luci rade e fioche dai finestrini e un senso condiviso di buio e costrizione) e non quella dello Stretto, dove sul traghetto anzi è una gioia «prendere il vento, divorare il mare sull’alta piattaforma a picco sulla corsa e sul mare», come fa Silvestro che, preda dell’entusiasmo, mangia sul ponte «pane, aria cruda e formaggio» di fronte alla Sicilia che si avvicina. Non ci sono siciliani che come lui non continuino tutt’oggi a scendere dal treno o dalla macchina per vedere sul ponte la Sicilia delinearsi o dileguare e sentire di essere sul traghetto, considerato territorio regionale. Così fanno anche la ragazza e l’ingegnere dello sciasciano Il mare colore del vino che «si ritrovarono sullo Stretto sfolgorante del primo sole. Presero di fretta un caffè e poi sedettero, in silenzio, di fronte a Messina: candida, nitida». E così fa anche la donna settentrionale di Di là del mare di Verga sul vapore che imbocca lo Stretto uguale a un «fiume turchino», affacciata sul mare a guardare «le coste che si coronavano di spuma; a sinistra la Calabria, a destra la Punta del Faro sabbiosa, Cariddi che allungava le braccia bianche verso Scilla rocciosa e altera».
L’autostrada ha poi accorciato e reso singolare, oltre che familiare, la Calabria, che però per un tempo lunghissimo è stata lontana e fonte di pericolo. E con essa anche lo Stretto, chiamato dai messinesi «Mare Grosso» perché intransitabile per via delle maree pesanti dello Jonio in lotta con quelle leggere del Tirreno. Solo i «luntri» dei cacciatori di pescespada potevano correrlo arditi, ma ci fu una volta, quando a metà del Settecento la crisi ittica si aggravò, che i pescatori chiesero al papa di lanciare un anatema contro i pescecani. Poi però impararono non più a cacciarli in epiche battaglie su barchette a remi ma a pescarli su comode feluche a motore e conquistarono lo Stretto esorcizzando la maledizione di Odisseo col vincere i gorghi di Cariddi e l’empusa di Scilla. Sarebbero diventati essi stessi i piloti che avrebbero guidato i vapori, quei vapori che solcavano il mare da Messina a Siracusa e che a Trezza, davanti alla casa del nespolo, padron ‘Ntoni accusava di spaventare i pesci mentre le donne del paese correvano concitate a vedere passare il treno costipato di coscritti.
Sono stati quindi prima il treno e poi la nave a vapore a cambiare i siciliani e rifare le loro regole di mobilità designando come snodo lo Stretto fino ad allora tanto temuto. Un mutamento epocale, perché prima che nascesse la linea ferroviaria da Palermo a Messina le comunicazioni erano state affidate alle sole rotte navali per Salerno e Napoli, essendo impensabile attraversare lo Stretto e poi la Calabria montuosissima e interminabile. Quando perciò il treno portò il traghetto, la Sicilia cominciò a dimenticarsi di essere un’isola alla quale giovassero più porti che stazioni e cominciò anche a pensare a un attraversamento stabile. Mack Smith riferisce che l’idea di un ponte o di un tunnel sottomarino nacque nell’Ottocento per velocizzare i collegamenti ferroviari, ma fu presto abbandonata perché la spesa non valeva il traffico. Senonché «alcuni sostennero che il traffico non poteva aumentare oltre un certo limite finché non si fosse trovato il denaro per un ponte». Oltre un secolo dopo, la questione è rimasta in sostanza quella di partenza.
Nel ’43 ‘Ndrja Cambrìa è perciò nell’impossibilità di arrivare a Cariddi una volta che, mancando il collegamento stabile, i «ferribò» sono stati per giunta affondati o sospesi e i trasbordi sono tornati - com’era stato per le chiatte sul Simeto di compare Cosimo - quelli dei Borboni, opera cioè di ardimentosi barcaioli su scafi a vela. Né il nocchiero della Marina reale riesce a imbarcarsi sullo «Jaddinaru», il pollaio, com’è chiamato l’unico traghetto in mare ancora nel ’44, traboccante di umanità sbandata: non diversamente da come sarebbero stati molti anni dopo, a una latitudine inferiore dello stesso Jonio, i boatpeople dei vu cumprà. E’ una femminota di Bagnara Calabra a traghettare ‘Ndrja in barca oltre il «duemari», tornato per ritrovare le rughe e il corruccio dei «pellisquadre» che abitano la mitica Cariddi, uguali ai pescatori peloritani scuri e antichi di Giuseppe Migneco: in tempo perché il signor Cama annunci nelle acque dello scill’e cariddi l’arrivo dell’orcaferone e metta il terrore.
Non sono cambiati i pescatori del Peloro, serrati sul palmo destro di Encelado, il gigante che - incatenato per supplizio sotto la Sicilia - nel 1908 scuote la mano e sconvolge lo Stretto. Nemmeno la paura è cambiata, salvo che a incuterla è oggi un altro mostro: il Ponte, l’orca darrighiana del nostro tempo che raggiungerebbe gli altri mostri irti dal fondo del tempo sulle rupi di Scilla e Cariddi. Anzi no: li userebbe come pilastri e su di essi si sosterrebbe sulle acque di Mare Grosso creando il più grande orrore di tutti i tempi. Ma se l’orca viene prima aggredita dai delfini dello Stretto e poi cannoneggiata dagli Inglesi, chi fermerà invece il Ponte, che significherà soprattutto più traffico gommato, più vittime della strada e più inquinamento atmosferico? Chi vorrà scongiurare il colpo di grazia che subiranno i porti e la navigazione in una regione che non ha mai creduto nel suo mare e che ha invece perso la testa per realizzare un desiderio originario rimasto inapaggato, quello di muoversi su strade al posto delle quali fino a un secolo fa c’erano muli e trazzere?
Non si vede più da gran tempo, ma è atteso il ritorno di Morgana, la fata norrena che ha condotto Re Artù in Sicilia attraverso lo Stretto e che dopo ha guidato di là dal faro Ruggero, ritto sulle coste calabre a chiedersi come passare il mare e sbaragliare i saraceni. Lei lo annullò avvicinando d’amblée le due terre: senza il ponte di barche di Cecilio Metello e realizzando in altro modo i sogni di Carlo Magno e degli stessi Normanni. In che modo? Nell’unico che lascia la zona fatata qual è, «il più bel chilometro d’Italia» come dice D’Annunzio: inventando un ponte ideale e mentale che chi vuole può costruirsi ogni giorno da sé guardando lo Stretto dalle cime dei Peloritani. E lassù lasciarsi arrivare dalle due rive gli echi delle magiche filastrocche intonate dai pellisquadre alle fere perché s’incantino e rinnovino gli antichissimi riti del fiume turchino e le sue economie. Oggi nel mare di Ganzirri una piattaforma Enel produce 22 mila Kwh di energia sfruttando le correnti e integrando l’ecosistema. In estate i pescispada discendono lungo la costa di Scilla e risalgono costeggiando Cariddi e attorniando la piattaforma, senza cadere nelle sei fauci di quella e nei tre vortici di questa: erinni divenute eumenidi o forse presenze spazzate dal tempo, a credere ad Enea che trova vuoti gli antri dopo la terrificante prova di Odisseo.
Narra una leggenda dello Stretto raccolta da Rocco Sisci che i pescispada siano i Mirmidoni che, perso Achille a Troia, si gettano in mare e chiedono di essere trasformati in pesci. La dea Tetide, madre di Piè veloce, lascia loro la spada perché siano ricordati, ciò che è il desiderio più grande dell’ideale greco. Lasciato l’Egeo per lo Jonio, non a caso i Mirmidoni continuano ad affollare lo Stretto: per salvarne la memoria e con essa l’integrità.