venerdì 22 agosto 2008

La missione impossibile dei poeti della scuola siciliana



Di fronte a una riproposizione di tale mole dei poeti siciliani qual è quella dei tre volumi dei Meridiani Mondadori curati da Roberto Antonelli, Costanzo Di Girolamo e Rosario Coluccia (I poeti della scuola siciliana, 2008), era naturale attendersi il più grande degli eventi: la restituzione dei testi della tradizione manoscritta al loro dettato originario, la ritraduzione cioè del corpus toscanizzato nel dialetto siciliano del Duecento, come nel secolo scorso hanno pur provato a fare, ma con scarsi esiti, Santangelo e altri.
Ci si aspettava insomma il miracolo. Che non c’è stato. Il kolossal filologico ha esitato un lavoro frammentario di note a piè pagina senz’altro di tutto rispetto e di grande rigore, ma ancora molto lontano dal ridare alla Sicilia quel che era della Sicilia. Se la ricerca italiana non c’è riuscita in questa occasione in cui ha esperito il massimo sforzo, è bene mettersi definitivamente il cuore in pace. 
In realtà si trattava di una missione impossibile: «restaurare» i codici e riportare alla luce la poesia originale, rifacendo in senso inverso quel che i copisti fecero nel processo di importazione nell’Italia centrosettentrionale del repertorio della Magna Curia federiciana. Ma, come ammette Di Girolamo, «non sappiamo molto del siciliano del tempo in cui si formò la Scuola, né tantomeno dei decenni precedenti». Il fatto è che le differenze tra siciliano e toscano non erano né poche né piccole e che soprattutto, ancora Di Girolamo, «l’operazione di adattamento ebbe effetti devastanti». Sicché la poesia siciliana che, nella translatio studii è rimbalzata nei codici (il Vaticano, il Laurenziano e il Palatino: la tradizione manoscritta), ci è oggi del tutto sconosciuta, fatti salvi pochissimi componimenti. 
Di cosa dunque parliamo quando diciamo «poeti della scuola siciliana»? Di un complesso di autori appartenenti a una «scuola» (ma la definizione è ottocentesca) chiamata «siciliana» perché riferita all’imperatore Federico, nemmeno lui però siciliano; un complesso di testi che ci arriva attraverso la disposizione cronologica stabilita dal codice Vaticano, al quale anche l’edizione Mondadori ha ritenuto adesso di conformarsi, così come del resto ha fatto nel ’62 il più insigne degli ordinatori, Bruno Panvini. Sotto questa prospettiva non ci sono stati, come si vede, grandi avanzamenti tant’è che il Vaticano, può annotare Antonelli, viene assunto come «la sede materiale e ideale del volgare illustre». Ecco di cosa parliamo in realtà riferendoci ai poeti siciliani: non delle loro poesie in dialetto, ma del loro volgare chiamato «illustre». Si tratta di una definizione che venendo da Dante nessuno ha osato mai contestare. Dante è il primo a dividere nel De vulgari eloquentia i siciliani tra quanti sono «degni di ogni lode» (Giacomo da Lentini, Rinaldo d’Aquino, Guido delle Colonne) perché si sono espressi in un volgare illustre, nella cosiddetta «suprema constructio», da quelli che come Ciullo d’Alcamo, avendo usato il volgare siciliano come «suona in bocca ai nativi dell’isola di estrazione media, non meritano assolutamente l’onore di essere preferiti agli altri». 
Ma Dante può esprimersi in questi termini perché ha conosciuto i codici toscanizzati, ovvero la tradizione che «raduna le membra sparse della reggia e raccoglie il profumo della pantera che si sente ovunque ma che non risiede in nessun luogo». E parla degli «illustres heroes», Federico e il figlio Manfredi, stabilendo che «poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo e che i nostri posteri non potranno mutare». Al Notaro Dante attribuirà nella Divina Commedia il titolo di predecessore dello «stile nuovo» e quindi di padre della letteratura italiana, ma «Rosa fresca aulentissima», la celeberrima canzone di Ciullo rimane anch’essa un monumento delle nostre patrie lettere e ancor di più della scuola siciliana. Purtuttavia, sotto l’egida dantesca, la rima siciliana diviene il metro della futura versificazione fino a Petrarca e oltre, ma nemmeno essa è davvero siciliana, perché l’opera di trascrizione dei copisti deforma i connotati linguistici originali e, adattando la rima al volgare toscano, la rende imperfetta. In verità la «rima siciliana» non esiste se non come risultato del processo di toscanizzazione. Una rima siciliana perfetta è invece esistita nella koiné plurilinguistica che nella Magna Curia federiciana sintetizza la compresenza di greco, arabo, gallo italico e volgare autoctono. La fisionomia della poesia siciliana ne resta talmente influenzata da renderne impossibile ai copisti la trascrizione letterale, essendo la sua varietà incompatibile con un registro che tende non solo a toscanizzare il testo, levando dialettalismi e aggiungendo latinismi e provenzialismi, ma a renderlo più raffinato e colto: sicché comprendiamo perché Dante non può amare canzonieri dati in maniera sorgiva e soprattutto in una soluzione mistilingue. 
Eppure il modello lirico siciliano è quanto di meno mimetico e popolare possa circolare nel Duecento prestilnovistico perché legato all’esperienza trobadorica e quindi erede di quella visione ispirata alla «fin’amor», la teoria provenzale dell’amore cortese e perfetto, che richiede un perentorio distacco dall’elemeno quotidiano e realistico: ancor di più se si pensa che la poesia siciliana rifugge i toni morali e politici, è sempre d’amore, manca degli eventi sicché della storia d’amore e dei suoi tormentati artefici non sappiamo nulla in ossequio al principio del «celar»; e soprattutto perché i rimatori siciliani sono funzionari dell’impero (gravitanti perlopiù intorno all’area messinese: a stare alla ricca occorrenza della toponomastica dello Stretto), che non poetano perseguendo intenti etici, politici e fideistici come sarà dopo la toscanizzazione che nella fin’amor vedrà un idolo da combattere, ma verseggiano secondando un sottile disegno di sublimazione dello spirito trobadorico che attraverso l’esperienza amorosa ha offerto la condizione umana a un progetto dirompente: Antonelli è chiaro e lucidissimo quando pone il tema dell’amore sullo stesso piano di quello della morte per sollevare la questione dell’uguaglianza del genere umano di fronte a essi: «Attraverso la poesia trobadorcia l’Europa aveva conosciuto una rivoluzionaria educazione sui sentimenti che era stata in pari tempo anche affrancamento e autonomia dal monopolio ecclesiastico della cultura». 
Allora la scuola siciliana è «la geniale riproposizione, nei termini propri al progetto politico federiciano, di un’autonomia culturale per così dire statale, basata anche sul senso e sul prestigio europeo della poesia trobadorica». Di Girolamo può quindi concludere che essa ha radici europee e che a un certo punto i rimatori di corte sottraggono la lirica ai professinisti, cioè i giullari (che infatti sono banditi dalla Magna Curia) per adottarla come «nobile otium». 
Ma perché Federico incoraggia il siciliano ed egli stesso verseggia in volgare? Perché egli non è il fondatore della scuola ma colui che riconosce una tradizione preesistente a cui dà un impulso decisivo, un pubblico competente e mezzi adeguati. Se è così, l’avvio della scuola va retrodatato di una decina d’anni e ricondotto agli anni Venti. In questo senso i curatori dei tre Meridiani si dicono d’accordo nel valorizzare le ultime scoperte, due testi ravennati e un frammento piacentino risalenti ad anni ben antecedenti al canonico 1232 dato come terminus a quo, e convengono anche sull’ipotesi che la scuola non chiude con la morte di Federico nel 1250 ma continua per tutto il secolo fino ad arrivare a ridosso del Dolce stil novo. Coluccia può perciò parlare di due generazioni all’interno della vicenda sveva: la prima, legata a Federico e più radicata in Sicilia, la seconda sviluppata intorno a Manfredi e con ramificazioni verso la Toscana. La scuola siciliana ha dunque vita ben più lunga di quella che le acquisizioni consolidate hanno finora ridotto al solo ventennio ’30-’50. 
I Meridiani (un viaggio a piedi nella terra di Federico, finalmente visitabile palmo a palmo e non a volo d’uccello come è stato fino a oggi) hanno perciò accolto un arco di poeti che ai rimatori della corte sveva, a partire dal principale di loro, Giacomo da Lentini, affianca anche quelli chiamati da Dante «municipali», contrapposti a quelli «imperiali», ovvero i poeti siculo-toscani che formano l’altra grande compagine della poesia duecentesca prestilnovistica e che si distinguono per la ripresa dei temi politici, per un ricorso maggiore alle metafore naturalistiche, per una più sentita contaminazione della retorica cortese con quella sacra. Senonché nel loro ambito occorre dividere quelli legati al modello laico-cortese dei siciliani, come Guido Guinizzelli e Bonagiunta Orbicciani, e quelli ritenuti innovatori, chiamati moralisti, come Guittone d’Arezzo.
Una forte curiosità aleggiava alla vigilia dell’uscita dei Meridiani: se fosse o meno caduta l’ipoteca continiana che riguarda proprio Guittone. Comprenderlo nella scuola siciliana come ha fatto Contini che lo annovera tra i poeti «cosiddetti siculo-toscani» (lo stesso Contini secondo cui la tradizione manoscritta è sorretta da un unico archetipo toscano e la cui opinione, dice Coluccia, vale coma vulgata ed è perciò passata in giudicato) avrebbe significato snaturare di contenuto la distinzione tra siculo-toscani e toscano-siculi, schiera quest’ultima solo alla quale Guittone può appartene di diritto. I curatori per fortuna evitano di seguire Contini e, rompendo coraggiosamente la regola posta anche dalla Enciclopedia dantesca e dallo stesso codice Vaticano che allinea in bella evidenza Guittone con tutti gli altri, tengono fuori l’aretino. Che è non solo l’avversario dichiarato di Giacomo ma anche l’innovatore bocciato da Dante, il quale dalla nuova maniera di poetare che va invalendo esclude l’impegno civile, il tono morale e la connaturazione di sonetto e canzone (le forme dualistiche della lirica laica) in senso cristiano propri del gusto guittoniano e restituisce valore salvifico e assoluto alla parola poetica che loda la donna. 
Guittone è l’anello di rottura e di interpuzione tra i siciliani e i poeti dello Stil nuovo, una presenza eversiva e dissonante. Nella sua visione la donna è corpo, debitrice di un guidardone, mentre nello spirito di Guinizzelli che rimanda a Giacomo, l’amante nessuna merzede ha da chiedere all’amata se non di poterla contemplare e rivolgerle la «parola», una parola che sia poetica, che angelichi la donna anziché beatificarla. Antonelli vede nel nesso che lega Guinizzelli a Giacomo una concezione non solo laica ma anche tragica e tristanizzata dell’amore, stabilendo così la connessione tra amore e morte che designa più di altro stemma la lirica cortese e la stessa scuola siciliana. L’amore, come lo intende il Notaro, è un fatto interiore che ignora il contingente e che si nutre del proprio vagheggiamento. E’ lo stesso che Dante porta per Beatrice in sua lode. Sicché escludendo dal repertorio Guittone, i curatori dei Meridiani danno finalmente ai poeti siciliani un’identità che non è solo culturale ma anche nazionale.