Giorgio Bocca rinfocola la sua polemica antimeridionalista con un libro, Napoli siamo noi (Mondadori, pp. 132, euro 14), che svolge una inesorabile inchiesta sul capoluogo partenopeo dopo i servizi usciti su "L’Espresso", che hanno spinto alcuni scrittori a contestarlo. Stilos ha intervistato Bocca partendo proprio da questo scontro.
Perché hanno reagito soprattutto gli intellettuali?
Secondo me perché ci sono soldi di mezzo, detto molto volgarmente. Perché a Napoli e in Campania si è stabilito un regime poltico che sovvenziona gli intellettuali, i quali sono diventati tutti persone che incassano soldi attraverso associazioni culturali o impieghi di tipo culturale. Sono tutti nel libro-paga della Regione. Certo, loro negano recisamente, ma è chiaro che a Napoli sono sostenuti dall’ente pubblico.
Anche Rea e La Capria che hanno preso posizione contro?
La Capria non lo so, ma gli altri hanno tutti impieghi e sovvenzioni con la Regione. Che stanzia molti quattrini. Mi ha molto stupito la reazione soprattutto di Rea che essendo stato mio collega al "Giorno" e conoscendo benissimo la mia biografia, pur di far piacere a Bassolino e alla sua amministrazione scrive che io sono una vecchia scarpa littoria, che è qualcosa di falso e di esagerato. La mia biografia è abbastanza pubblica e dunque come fa a dire che sono razzista e «vecchia scarpa littoria» quando ho fatto giornalismo democratico per sessant’anni?
Ha ricevuto proteste da altri ambienti?
I giornali napoletani, è chiaro.
A Napoli quindi non le daranno mai la cittadinanza onoraria.
Sì figuri, se è per questo non me l’hanno data neppure a Cuneo che è la mia città.
Comunque, giustifica le reazioni a difesa?
Capiamoci: non sono un moralista. Non è che non capisca che in una regione in cui l’economia è dipendente dall’ente pubblico e dalla criminalità gli intellettuali vivono promuovendo iniziative che hanno anche del ridicolo, come per esempio questa mostra della pittura moderna: in una città dove l’immondizia occupa le strade per mesi questi fanno un museo, spendendo centinaia di milioni i lire, di pittura astratta. È una idea che può venire in testa solo a gente che vive n una situazione anomala come quella napoletana.
Nel resto d’Italia non è forse la stessa cosa?
Non esattamente. A Milano, a Torino, eccetera il potere politico sovvenziona sì la cultura ma non in modo così diretto.
Lei mostra una speciale ammirazione per l’ex procuratore Cordova, caduto in disgrazia: a tal punto da dire di essere rimasto sedotto. Perché?
Per una ragione non obiettiva ma esemplare,diciamo: quest’uomo, che probabilmente aveva dei limiti in politica, un’incapacità ad affrontare situazioni estreme, è un esempio di ciò che a Napoli è intollerabile: un procuratore che vuole fare eseguire la legge è un fatto dirompente, impossibile da accettare. Un po’ donchisciottesco Cordova lo è stato: personaggio complicato, caratteriale, ma è stato uno che credeva di potere da solo sconfiggere la massoneria, il clero retrogrado. E si è scelto per nemici tutti i poteri di Napoli. Soprattutto si è scelto come nemica la sua corporazione che voleva che funzionasse bene. Aveva torto perché quella magistratura non poteva funzionare bene.
Ma in qualche modo non ritiene di assomigliargli?
Sì, ma io faccio il giornalista e non il procuratore di una città come Napoli. Il mio rapporto con la politica è stato sempre esterno e distaccato, proprio perché mi rendevo conto che non sono un politico.
Lei di Amato Lamberti, che è stato anche assessore, dice però che «parlare di Napoli con uno che ha fatto le scuole in Val di Susa è tornare alla chiarezza».
Io con questo signore che è da vent’anni a Napoli riesco a parlare come con un funzionario Fiat, come parlo con una persona che ha una cultura che non è quella della napoletanità. È una persona che mi piace perché mi racconta delle cose credibili.
Ma anche i suoi colleghi napoletani di "Repubblica" che l’hanno aiutata nell’inchiesta sono napoletani e sono stati chiarissimi.
È vero. Difatti questo libro è nato soprattutto grazie alla redazione di Napoli del giornale. Anche se mi sono reso conto di una cosa: la libertà che è concessa alla "Repubblica" e alla sua cronaca è di tipo speciale. Può occuparsi apertamente della cronaca nera senza però poi trarne le conseguenze. Cioè sui delitti e sulle violazioni di legge "Repubblica" è chiarissima e coraggiosa, dopodiché non fa niente.
Vuole che faccia i processi sul giornale?
Non è questo. È che a un certo punto il giornale deve tenere buoni rapporti con l’opposizione di sinistra e siccome la sinistra a Napoli è diventata governativa è difficile muoversi.
Lei scrive che «la sinistra di lotta, diventata sinistra di governo, si è fatta irretire dalla quotidianità dell’amministrazione, dell’occupazione delle posizione, alias delle poltrone» nello spirito insomma di quella che chiama «normalità dell’illegale».
Voglio dire una cosa. Per molti anni un giornalista come me ha fatto capo al Partito comunista e alle federazioni del partito per sapere come andavano le cose realmente nel paese. E quindi se c’era uno sciopero, una lotta, andavo alla sede del Pci e mi raccontavano tutto. Da quando il partito è diventato di governo e cerca l’inciucio con Berlusconi, andare alla federazione non è più possibile, è un esercizio inutile perché sono al governo anche loro.
Quindi stavolta Berlusconi non c’entra con i mali di Napoli.
Oh, la colpa di Berlusconi è una colpa totale, sovrastante a tutte. Lui è l’interprete della peggiore modernità, il più grande corruttore che ci sia stato nella storia italiana.
Però con Napoli non c’entra, visto che ad amministrare è il Centrosinistra. Anzi fu proprio a Napoli che ricevette l’avviso...
Lasci perdere i particolari. Il berlusconismo a Napoli è naturale e normale.
E quindi oggi lo interpreta Bassolino?
Bassolino si è adattato ad accoglierne alcuni aspetti.
Lei pensa che se Napoli in questi anni fosse stata governata da giunte di centrodestra la situazione sarebbe stata peggiore?
Sarebbe stata la stessa. Secondo me le amministrazioni di centrodestra sono peggiori solo perché l’opposizione di sinistra ha avuto più incentivi ad andare al potere, quindi a governare, mentre quegli altri che fanno le commemorazioni di Lauro è gente fuori dal mondo.
Quella volta che in un ristorante chiese al cameriere che allontanasse uno che si era messo a suonare la chitarra davanti al suo tavolo, e tutti si sorpresero del suo atteggiamento, le giovò per capire cos’è la napoletanità?
Quando chiesi di allontanarmi questo rompiscatole sapevo benissimo che avrei violato dei tabù locali, perché questa retorica del «pur’isso adda mangià» è una retorica consolatrice e giustificatrice generale. Perché è finta solidarietà verso i poveracci ed è semmai una giustificazione dei propri furti.
Oltre alla bellezza paesaggistica cosa salva di Napoli?
Niente. È come chiedermi cosa salvo dell’antica Babilonia. Una città ingovernabile.
C’è dunque di peggio rispetto alla Sicilia.
La Sicilia è più tetra ma anche più disciplinata. Almeno si sa che comanda la mafia e si sa cosa vuole. A Napoli c’è anche la confusione della criminalità.
Si sente di più la presenza della mafia o quella della camorra?
Della mafia, perché la camorra convive con la gente ed è più napoletana di quanto la mafia sia siciliana.
Il cuore di questa identificazione è Scampia?
Già. Ci sono tornato dodici anni dopo avere scritto L’inferno: pensavo che fosse se non migliorata quantomeno cambiata. E invece è come prima, non c’è via di scampo.
È dunque d’accordo con quella turista inglese, da lei citata, secondo la quale «Napoli è un posto assurdo»?
Di posti assurdi nel mondo ce ne sono parecchi. Siamo noi che fingiamo che ci siano isole razionali, ma credo che i quartieri negri di New York siano assurdi quanto Scampia.
Pensando a una cura lei indica i giovani. Pensa dunque non ad oggi ma a domani.
L’idea della sopravvivenza della città mi è venuta solo dai giovani, perché intanto sono diventati molto più belli fisicamente di qualche anno fa, sono ben vestiti...
Ma sono gli stessi giovani che lei ha visto fare branco e fare paura a tutti.
Sono vitalissimi. Del resto l’unica speranza può venire da loro, non certo da Cirino Pomicino.
Ma nemmeno da Bassolino o Jervolino, a quanto pare.
Bisogna stare attenti. Loro sono forse il male minore. Per amministrare, amministrano con un certo limite di onestà in confronto alla disonestà totale. Sono stato molto colpito dall’inchiesta giudiziaria sulla prima linea della metropolitana: risulta che tutta la società napoletana interessata all’opera ha collaborato con la camorra. La quale si serviva persino della carta intestata della Regione e dei documenti dell’ente: statistiche, calcoli... Aveva in pratica tutto il sistema amministrativo al suo servizio.
Lei scrive che a Napoli non c’è mai il denaro necessario per ultimare i lavori pubblici. Eppure questo è un periodo in cui ci sono molti fondi che provengono dall’Ue. Ma non bastano.
Certo che non bastano quando c’è una metastasi che di ogni cosa sana fa un male.
Come per esempio le commissioni istituite da Bassolino che lei deplora?
Anche Bassolino è dominato dall’idea che senza soldi non si fa niente.
Il titolo del libro, Napoli siamo noi, fa pensare che l’Italia si è napoletanizzata.
Vede, una volta - anche se era un’illusione - io che sono piemontese andavo nel Meridione e avevo la sensazione precisa di trovarmi inn posti dove l’amministrazione pubblica funzionava male. Adesso invece non ho più questa certezza. Penso a Fiorani e alla Banca popolare di Lodi e allora vedo che anche al Nord lo sfacelo totale è compiuto. Ci ho messo molti anni a capire una cosa: che il governo della delinquenza è possibile. Ero convinto che uno stato normale, civile, potesse sussistere con delle leggi da osservare, ma se adesso guardo alla Russia, agli Usa, vedo il dominio della malavita. Putin è un camorrista che ha organizzato pure le polizie segrete. Ero convinto che non si potesse vivere e invece si vive e si governa nel marciume senza più alcuna differenza.
E si è magari reso conto anche del fatto che non c’è tutta questa differenza tra Nord e Sud d’Italia.
Un momento. C’è ancora una differenza eccome: le istituzioni nate al Nord hanno margini di sussistere nel rispetto delle regole. Ma è il concetto che la politica coincida con l’onestà che ormai è finito.