giovedì 27 luglio 2023

Mark Twain, il genio delle conferenze e delle interviste

 

Articolo apparso già su Doppiozero

Mark Twain (interlocutore brillante e non solo scintillante, secondo una sua sottile distinzione) rilasciò 258 interviste, raccolte in un volume del 2006 uscito negli Usa. Insieme con la Autobiografia, cominciata nel 1870 e terminata nel 1910, l’anno della morte, per cui l’autore del Missouri scrisse che la dettava dalla tomba, le interviste costituiscono il nerbo di un’opera che però recede di fronte alla grandezza di uno scrittore spiccato nell’orale quanto nello scritto, certamente disomogeneo e discontinuo nel valore complessivo. Twain, al secolo Samuel Langhorne Clemens, nacque infatti come oratore, quando ancora giovane rivelò una vena di loquacità ed eloquenza che ne fecero un conferenziere richiestissimo e strapagato, tale da mutare il genere delle “lectures” di moda nella prima metà dell’Ottocento come seriosi readings in forme di intrattenimento improntate all’umorismo e all’arguzia.
Twain eccelse nel dare più spettacolo che prove di letteratura. Dopotutto il celebrato critico del suo tempo, da lui molto ammirato, William Dean Howells, disse che era lo scrittore americano meno letterato che conoscesse, contraddetto tuttavia da Ernest Hemingway che lo riteneva invece “il precursore della letteratura americana contemporanea”.
Di essere un illetterato ne era ben cosciente egli stesso, se di Rudyard Kipling, andato da giovanissimo a intervistarlo, disse: “Io e lui insieme conosciamo tutto lo scibile; lui sa tutto ciò che si può sapere, io so il resto”. Ma sapeva di poter dare ragione a Hemingway, al punto da recriminare sul fatto che le università Usa elargissero lauree ad honorem a studiosi destinati a essere presto dimenticati mentre ignoravano lui che si era consegnato alla posterità. In realtà ebbe quattro lauree, ma pretendeva di avere diritto a molte altre, mai pago di successo come anche e soprattutto di denaro. Epperò si faceva pagare le conferenze ma non le interviste, alle quali si concedeva con degnazione mista alla stessa verve che il pubblico di America, Europa e Asia ben gli riconosceva. Un pubblico che, ammirando il polemista, lo ascoltava sui temi del momento, dal copyright all’Europa ancora feudale, dalla pochezza di Roosevelt ai vizi degli americani, per poi chiedergli però sempre di Tom Sawyer e Huckleberry Finn, i due personaggi che nel 1876 il primo e otto anni dopo il secondo decretarono la sua fama di scrittore, rimasta legata principalmente a quei due romanzi di avventura, l’argomento preferito sia nelle “lectures” che nelle interviste.
Ora, per l’editrice Lorenzo de’ Medici Press di Firenze, il classicista Aldo Setaioli, per l’occasione rimbalzato nella letteratura nordamericana, ha tradotto tredici interviste dell’edizione inglese, attenendosi a un criterio di relazione proprio con le due opere, che però è valido per dodici di esse, perché l’ultima, posta in Appendice, suona come variazione dissonante benché molto gustosa per il contenuto. Il titolo del libro, Parla Mark Twain (euro 14, pp. 110), mantiene quanto promette, perché Sawyer e Huckleberry non sono i soli temi di interesse delle interviste, molto più variegate e nello stesso tempo estranee alla vita dell’uomo privato perché relative alla sola attività pubblica: coprono infatti un periodo, compreso tra il 1885 e il 1906, che coincide con il progressivo mutamento del carattere dell’autore, partito da un umorismo ricco di spirito e via via proclive a un pessimismo umbratile e malmostoso che accompagna una produzione letteraria sempre meno riconoscibile nella sua cifra originaria.
Nel 1885 il meglio Twain lo ha dato già con i due romanzi maggiori, ma anche con Il principe e il povero nel 1881 e Vita sul Mississippi del 1883. Ma ci sono stati altri libri di successo come Gli innocenti all’estero del 1869, Vita dura del 1872 e Una passeggiata in Europa del 1880, che (dice Twain in un’intervista proprio del 1885) hanno venduto rispettivamente 170 mila, 150 mila e 90 mila copie. Numeri da best seller. Ma quel che seguirà non accrescerà il suo nome, che curiosamente continuerà fino alla fine a tenere nondimeno una quotazione altissima per via della sua veste di conferenziere come pure della qualità delle sue interviste. Dalle quali nulla infatti trapela delle tragedie che funestarono la sua vita, come se Twain riuscisse pubblicamente a sdoppiarsi in un Clemens privato di altra cotta.
Passa un anno e già nel 1886, in una lettera a Howells, confida di aver scoperto che l’amata moglie Livy ha indotto le figlie a tenersi alla larga da lui, perché preda di improvvisi scatti di collera e divenuto imprevedibile nei suoi cambiamenti istantanei di umore. Eppure in pubblico appare amabile, sapido, divertente, sagace, appunto brillante. Né è da meno nelle interviste, nelle quali ama il tall tale, la vanteria, dire cose che non pensa o apparire diverso. Nel 1890 va a trovarlo Kipling, appena ventiquattrenne, e gli chiede se scriverà una autobiografia, cosa che ha già cominciato invero a fare da vent’anni. “Sì – risponde Twain – e sarà come quella scritta da altri, col più sincero desiderio di presentarmi come un uomo migliore in ogni piccola faccenda a mio discredito e, come gli altri, non riuscirò a far sì che il lettore creda ad altro che alla verità”. Probabilmente pensa alle tre figlie e alla moglie solo alle quali vuole apparire un uomo migliore, perché al pubblico dei suoi lettori intende mostrarsi per quello che è creduto: un grande umorista, un eccellente conversatore e un impareggiabile scrittore. Ma col tempo diventa altro. Nel 1904, a Firenze, alla moglie morente scrive un melenso biglietto che dimostra come ha perso del tutto la sua vena umoristica: “Io credo nell’immortalità dell’anima più di quanto non ci creda”.
Cinque anni dopo, rimasto solo, gli morirà la figlia Jean, una perdita più dolorosa di quella di Susy, morta nel 1896 a ventiquattro anni. Gli resterà Carla, che però vive in Europa, sicché vivrà gli ultimi anni in una immensa casa di cui si chiederà perché l’ha costruita, sprofondato nel pessimismo più cupo, mascherato tuttavia dietro una vita pubblica che godrà di onorificenze, celebrazioni, feste e viaggi cui si presterà al pari di un clown che ride mentre piange non visto. E riverserà nella sua autobiografia l’agro di un umorismo ormai ridotto a lepida amenità: spiegherà che veste sempre di bianco per apparire pulito irridendo a quanti vestono di scuro indossando abiti che “sono più beni immobili che proprietà personali; portano tanta terra da poterla seminare e ricavarne un raccolto”. Dirà della sua folta capigliatura che la lava ogni giorno a differenza di tutti: “In tutti i miei settantadue anni non ho mai incontrato un somaro può somaro della razza umana”, che si mette a tavola lavandosi prima le mani e tenendo i capelli sporchi, perché “lo sanno tutti” che troppo acqua ne guasta la radice. L’umorismo è diventato ormai acredine, ma non è mai stato in lui, a differenza dell’opinione prevalente, un modo per suscitare il riso.
Quando in un’intervista gli chiedono una definizione, spiega che il riso nasce dal contrasto (il “sentimento del contrario” di Pirandello) e che è un funerale a suscitarlo maggiormente. “La fonte segreta dello humour non è la gioia, ma il dolore” scriverà nella Autobiografia dove si trova la sua teoria secondo cui “l’umorismo è soltanto un aroma, un ornamento” e ha una durata di trent’anni, dopo i quali “la materia dei suoi ammonimenti può cessare di essere nuova e divenire banale, allora la predica non interessa più nessuno. Io ho sempre predicato. Questo è il motivo per cui sono durato trent’anni. Se l’umorismo è venuto spontaneamente e senza invito gli ho fatto posto nella mia predica, ma non scrivevo la predica per amore dell’umorismo. La predica l’avrei scritta lo stesso, bussasse o no alla porta l’umorismo”.
Il “grande umorista”, come in coro gli intervistatori lo nominano perché tale fama si era fatto, si sentiva più che altro un predicatore laico chiamato ad ammaestrare e ammonire. Questo tono moralistico cambia la prospettiva nella quale Twain è stato riguardato, ma appare evidente che il predicatore è quello degli anni successivi ai grandi romanzi fino al 1885, perché proprio Tom Sawyer e Huckleberry Finn sono la prova della sua prorompente vena umoristica, schietta e sorgiva. Fino alla fine ha voluto giocare con la natura dei suoi capi d’opera tenendo vivo l’equivoco se fossero libri per ragazzi o per adulti, probabilmente per non dargli un target preciso, quindi per avere maggiori profitti. 
Già nella premessa alle Avventure di Tom Sawyer scrive: “Sebbene il mio libro si proponga soprattutto di divertire ragazzi e ragazze, spero che non sarà evitato per questo dagli uomini e dalle donne, perché in parte la mia intenzione è stata di tentar di ricordare piacevolmente agli adulti com’era un tempo essi stessi”. La stessa intenzione permane circa i fini delle Avventure di Huckleberry Finn, romanzo che negli anni, come rivela Twain nel 1905 nella Autobiografia, viene cacciato da molte biblioteche pubbliche contrarie a fornire modelli di ragazzi bugiardi e malandrini.
Nel 1905 gli scrive un dirigente della biblioteca di Brooklyn che lo informa della decisione della signorina direttrice di cacciare Finn dagli scaffali dei ragazzi per riporlo in quello degli adulti. A sua detta era nata una discussione perché “Huck era un ragazzo bugiardo che diceva ‘sudore’ quando avrebbe dovuto dire ‘traspirazione’”, dacché per poter riportare il romanzo dove era destinato gli chiede su Huck “qualche parola a riprova della bontà del suo animo”. Twain gli risponde dicendosi turbato: “Scrissi Tom Sawyer e Huckleberry Finn per adulti soltanto e provo fastidio ogni volta che sento che ne viene permessa la lettura ai ragazzi. L’animo contaminato in gioventù non potrà mai essere reso di nuovo puro; è un’esperienza che ho fatta io stesso e ancora non si placa il rancore che nutro verso gli infidi custodi della mia gioventù che non solo mi permisero ma mi obbligarono alla lettura dell’intera Bibbia, non espurgata, prima che avessi quindici ani. A nessuno è dato di fare questa esperienza e continuare a respirare aria pura da questa parte della tomba; chiedetelo a quella signorina e vi dirà così. Onestamente vorrei poter dire qualche parola buona a difesa dell’animo di Huck, com’è vosto desdierio, ma in realtà secondo me esso non è migliore di quello di salomone, davide, Satana e di tutti gli altri della sacra confraternita. Nel caso che ci sia una Bibbia non espurgata nel reparto Ragazzi, vorreste aiutare la signorina ad allontanare Huck e Tom da così discutibile compagnia?”.
Alcuni mesi dopo la casa di Twain viene assediata dai giornalisti, venuti a sapere di una sua lettera alla biblioteca di Brooklyn di cui chiedono copia. Lo rassicura il fatto che il contenuto non è stato reso noto dal bibliotecario, consapevole del gran rumore che susciterebbe. Senonché è egli stesso nella Autobiografia a rendere noto l’episodio pubblicando le lettere e pure il nome del bibliotecario, che gli aveva raccomandato assoluta riservatezza, ma sa che il libro uscirà postumo e quel che gli preme è di mantenere per sempre la doppia veste dei suoi due romanzi. Che però diventeranno e rimarranno fino ad oggi libri per ragazzi.