lunedì 11 febbraio 2019

L'epopea dei cantastorie


Quando bastava una marca da bollo di 500 lire e le piazze siciliane erano palcoscenici dove celebrare i riti dell’ostensione raccontando mirabilia, fole e fanfaluche, trovatori girovaghi senza parte ma con molta arte, un cartellone simile a una pagina di fumetti e una chitarra a tracolla, disputavano chiani e chiuse ai pupari e ai canterini, i parenti più stretti del Barnum del folk. Raccontavano storie contate e cantate, interpretando “parti” e facendo le veci del cinema. Avevano imparato il trucco del feuilleton e centellinavano le vicende come in una serie Tv. Ogni giorno, alla stessa ora, tornavano allo stesso posto riprendendo dal giorno prima e quando la storia era proprio finita, trattandosi quasi sempre di casi giudiziari, promettevano che a processo concluso sarebbero tornati per raccontare il finale. I siciliani aspettavano sul serio. Talché Ciccio Busacca, uno dei più grandi, si fermava nel bel mezzo di una strofa e non riprendeva se prima i “foglietti” con le sue storie non erano venduti: “Avanti, altri cinque e poi ricomincia la vera storia della baronessa di Carini”. 
Ciccio Busacca
A quel tempo i foglietti fungevano da biglietti d’ingresso nel cosmorama all’aperto che la voce stentorea e argentina del cantastorie bastava a creare. Dopo i foglietti, stagione appresso stagione, sarebbero venuti i dischi, prima a 78 e poi a 45 giri, quindi le musicassette e infine i Cd e Internet. Un moderno contastorie come il barcellonese Fortunato Sidoti avrebbe così sostituito il cartellone con le diapositive che si vedono da lontano e sono più realistiche, mentre per tutti l’amplificatore avrebbe reso inservibile la cantoniera più alta. Di più. Un ricercatore della Sapienza di Roma, Mauro Geraci, palermitano, facendosi egli stesso cantastorie, avrebbe elevato di rango una categoria composta da un florilegio di autentici analfabeti anzichenò. Oggi i cantastorie sono in parte discendenti di quelli storici e in parte nuovi cantori che non montano più il cartellone dietro le spalle né salgono sulle loro auto per farsi vedere dal fondo della piazza, ma si sono assimilati ai cantanti di feste paesane e rinverdiscono la tradizione folclorica rifacendosi ai poeti dialettali. 
La televisione, l’indisponibilità delle piazze, l’intransigenza dei vigili urbani hanno via via ridimensionato il mercato a un ristretto giro di sagre e manifestazioni private. Agli inizi del secolo Leonardo Strano, figlio di quell’autorità indiscussa che fu Orazio Strano, ha perciò rinunciato a esibirsi all’aperto per via della trafila burocratica: “Bisogna fare la domanda al Comune, poi aspettare che si pronuncino l’ufficio tecnico e i vigili urbani, quindi occorre pagare e poi tornare a ritirare l’autorizzazione. Meglio rinunciare”.
Ma il cantastorie non è morto. Si è solo rigenerato. A Paternò, una delle roccheforti siciliane, è nato l’anno scorso un Festival annuale ed è stata riaperta la Casa-museo del cantastorie per iniziativa dell’ultima dei Busacca. Messo da parte il cartellone canonicamente dietro le spalle, il repertorio – già dalla fine degli anni Settanta – si è andato adeguando ai fatti di cronaca correnti: Turiddu Carnevale fa spazio a Carlo Alberto Dalla Chiesa, Marta Russo si sostituisce alla signorina Cunitura e John Kennedy avvicenda il bandito Giuliano. La nuova generazione di cantastorie che oggi calca la scena si riconosce nei nomi di Nonò Salamone di Sutera, Alfio Patti di San Gregorio di Catania, Alfonso Gagliardo di Porto Empedocle, Matilde Politi, palermitana, Ciccio Barbera di Nizza di Sicilia, Luciano Busacca di Vittoria. 
Paolo Garofalo
Con la morte a 102 anni di Paolo Garofalo, si è estinta la stirpe storica, fatta eccezione per il militellese Franco Trincale, chiamato “l’ultimo dei cantastorie” e autore di ballate di forte impegno politico: quello cui Ciccio Busacca dovette rinunciare e lasciare Paternò per la Lombardia dopo i “consigli” avuti da amici degli amici. Fino all’ultimo, contro le nuove mode che avevano tolto i cantastorie dalle piazze, rimase fedele al suo tempo un altro paternese, Vito Santangelo, che ogni tanto andava a Catania e sugli autobus urbani tornava a cantare vecchie parodie e vendere musicassette. Il suo pezzo forte era “La vera storia di Turiddu Giuliano”, scritta da Ignazio Buttitta, un tormentone di alcune ore del quale nel 1963, nella stagione d’oro, aveva inciso a Milano cinque dischi di un quarto d’ora ciascuno. 
Nel ’65 andò a cantare “Turi Giuliano” di Buttitta a Montelepre, mostrando molto coraggio perché il “Giuliano” di Buttitta non era quello di Turiddu Bella cantato da Orazio Strano. Il poeta di Bagheria si guardò bene infatti dal farne un Robin Hood mentre nella canzone di Strano il “re di Montelepre” assumeva i tratti del rivoluzionario buono e generoso. Strano riuscì a cantarla a Montelepre più di quindici anni prima di Santangelo, quando era ancora vivo Giuliano. Si rivolse a un cantastorie di Trabia, Giacomo Susa, il quale andò a parlare al padre del bandito fornendogli dal vivo un assaggio della canzone che voleva portare Strano. Il padre rimase entusiasta e concesse che Strano cantasse nella strada sotto casa usando la sua presa elettrica. I foglietti andarono letteralmente a ruba. 
Turiddu Bella e Orazio Strano
Strano era furbo e aveva una voce squillante come una tromba. A Riposto gestiva una sala da barbiere e cantava come un barbiere che si rispetti. Ma fu sfortunato. Quando l’artrite anchilosante gli impedì di stare in piedi, chiuse il salone da barba e a 24 anni con una chitarra, un mandolino, un asinello e un calesse, prese a girare la Sicilia. Che era già percorsa dai paternesi, i pionieri dei cantastorie: Tano Grasso e Paolo Garofalo. Grasso fu il primo. Una leggenda. Aveva due figli che portava con sé: uno suonava la fisarmonica e l’altro faceva il piccolo comico. Garofalo si unì al trio ma presto si mise in proprio raggiungendo uno strepitoso successo con ballate come “Il bandito dopo morto” e “Surdato col fantasma”. A Garofalo più tardi cominciò a fare da spalla Vito Santangelo, che come in una New Orleans dove i musicisti si servivano di ragazzi alle prime armi, si fece suo apprendista ma presto si mise in proprio anch’egli andando incontro a una lunga fortuna e a un nuovo canone. 
Vito Santangelo
Ai delitti d’onore e alle storie d’amore contrastate, frutto perlopiù della fantasia, Santangelo sostituisce un repertorio alimentato dai fatti di cronaca: dalla storia dei monaci di Mazzarino a quella rutilante e richiestissima di Giuliano. Ma mantiene i titoli classici come “La baronissa di Carini” che ha educato tutti i cantastorie all’esercizio della poesia musicata. Intanto nasce l’astro di Ciccio Busacca che quando canta “Il treno del sole” piange lacrime vere e fa piangere le piazze. Trascina la gente, la ipnotizza per ore. E’ un fenomeno naturale, nato sulle orme del successo di Garofalo. E’ in realtà un raccoglitore di ulive dotato di una bellissima voce quando, vedendo Garofalo guadagnare cantando, segue la sua strada e lo sorpassa. Lo nota anche Dario Fo che lo recluta in “Ci ragiono e canto” con Rosa Balistreri. Partecipa alla Comune di Milano e prende parte ad alcuni film fra cui “Fontamara”.
Presto Santangelo entra in competizione con Orazio Strano, l’altro gigante della storia cantata siciliana. Uno accusa l’altro di furto di motivi musicali e di testi. Spesse volte si ritrovano a contendenrsi la stessa piazza e allora scoccano scintille. La loro contrapposizione finisce per dividere i cantastorie in due schieramenti che diventano due scuole: i figli di Orazio, che sono Leonardo Vito e Salvatore, più la catanese Rosita Caliò e Nino Giuffrida da un alto; Nino Busacca, Vito Santangelo, Francesco Paparo (“Rinzinu”) da un altro. A parte ci sono i neutrali: tutti quelli della Sicilia occidentale più gli emergenti della orientale: Franco Trincale, Nonò Salamone, Fortunato Sidoti, Mauro Geraci. La spaccatura è resa evidente da un’altra divergenza storica: quella tra Ignazio Buttitta e Turiddu Bella, di Bagheria il primo, di Mascali il secondo. I due poeti vernacolari sono abilissimi verseggiatori e promuovono due modelli diversi di poesia popolare. Nel caso per esempio della storia di Giuliano, quella di Bella, intitolata “La storia del bandito Giuliano” è apologetica ed encomiastica: la canta Orazio Strano che vende oltre un milione di copie tra dischi e musicassette. Buttitta replica con “La vera storia di Turiddu Giuliano”, cantata da Santangelo e Busacca, il quale ultimo in un primo momento interpreta però una versione rimaneggiata di Bella. Buttitta compie un’opera sostanzialmente di denuncia, altamente poetica seppure di minore presa popoalre. Il suo ingresso nella storia cantata segna in effetti un salto in avanti: porta la vera poesie, quella impegnata e civile che i cantastorie cercavano senza tuttavia trovare.
Turiddu Bella, più di Buttitta, gode di uan facilità d’inventiva che è pari a quella di Strano e che ne fa un geniale poeta estemporaneo. Buttitta ha invece una cadenza più ragionata e piana, ma quando viene ucciso Turiddu Carnevale compone un “Lamentu” in pochissimi giorni. Il giorno in cui Bella conosce Strano nasce una formidabile macchina itinerante. Narrerà il figlio Leonardo che Bella e Strano diventano amici in circostanze fatte per essere leggendarie. Un giorno del 1930 a Carrabba, una frazioncina di Giarre, al “Club dei poeti”, Strano è sul cofano della sua Balilla a tre marce e canta. Bella lo sfida intonando una quartina di scherno, certo di non avere una risposta adeguata. Strano replica invece prontamente con una sferzante ottava inventata sul momento che decreta la sua vittoria. Al che Bella si arrende e riconosce la superiorità poetica di Strano. Il quale aguzza a questo punto l’ingegno e gli propone di inserire nel programma il siparietto come se fosse ogni volta vero. Nasce un sodalizio che diventerà epico. 
Rosita Caliò
Ma Strano opera sempre in funzione di un rinnovamento, cosicché scrittura una donna, Rosita Caliò, catanese, che incide per lui numerosi dischi di argomento popolare. La paga con quadri che lei poi rivende. La Caliò diventerà oggi un’affermata cantastorie con un repertorio personale fatto di cronaca: niente politica, né mafia, ma molto Strano. L’altra donna della storia cantata, di cui Fortunato Sindoni ha composto la storia della vita, è la licatese Rosa Balistreri, divenuta cantastorie raccontando il delitto della sorella uccisa dal cognato, che nel 1980 perdonerà andando a trovarlo nel manicomio giudiziario di Barcellona. Strano morì con la chitarra in mano. Ai suoi funerali non parteciparono che pochissime persone perché per due volte altri cantastorie avevano messo in giro, nelle piazze dove chiedevano di lui, la voce che fosse morto. A Riposto apparvero anche i manifesti funebri, ma si trattò della morte di un omonimo. Le condoglianze di tantissima gente il grande Orazio le ebbe quindi da vivo ricevendo in casa delegazioni da mezza Sicilia. Così come gli applausi. Sicché quando morì davvero se ne andò da solo. Come fanno i cantastorie.