venerdì 1 febbraio 2019

Bufalino a Sciascia: sei come me, più cuore che ragione



L’intera opera di Leonardo Sciascia può farsi rientrare in una insistita operazione della ragione condotta sul crinale della ricerca della verità e della cartesiana clarté dentro un quadro di aderenza al dato storico, al “certo storico” dunque, nel quale non possono trovare spazio i temi romantico-decadenti che designano il coté letterario opposto: quello del cuore, dove i simboli prevalgono sui segni, il passato sul presente, la memoria sulla sua cancellazione, il vissuto sulla vita, la verosimiglianza sulla verità, la visione sulla vista, il paradiso artificiale sulla peripezia umana.
Epperò anche in Sciascia ricorrono riferimenti a modelli propri della letteratura di crisi e dell’assenza, quella dei sentimenti e del malanimo, con l’uso, più che altro giocato però a un’altezza esornativa e formale, che egli fa di parole come sogno (“Un sogno fatto in Sicilia” è il sottotitolo di Candido), favola (Le favole della dittatura), morte (Il cavaliere e la morte), cuore (La Sicilia, il suo cuore), memoria (Il teatro della memoria, A futura memoria).
Questa identità mascherata di uno Sciascia in qualche modo 
è stata vista come prioritaria da Bufalino, che può dirsi l’autore siciliano al suo afelio, appartenendo alla sfera letteraria dei sentimenti e delle passioni, antipodica a quella della ragione e della verità. Bufalino ha una concezione della realtà di tipo astratto, Sciascia la concepisce invece in senso diderotiano e, pur concedendo tutt’al più valenze manzoniane alle ragioni del cuore e alle introiezioni della Provvidenza, pone sotto la tutela illuministica dettami della “nuova scuola” qual è la memoria, elemento cardine del novecentismo, che se un valsente ha è quello di essere necessaria secondo Pascal a “tutte le operazioni della ragione”.
Ma Bufalino non si rassegna a vedere in Sciascia un puro illuminista votato alla sola ricerca del vero e, volendo trovare in lui i segni della propria educazione romantica, lo dota innanzitutto proprio del requisito della memoria, “intesa in Sciascia – scrive in una illuminante nota del 1992 che appare una chiamata in co-religio – non come serbatoio d’incantesimi e vaso lacrimatorio, ma come attestazione e sigillo d’identità storica”.
E’ quindi e comunque alla storia che Bufalino non può fare a meno di ricondurre le urgenze memoriali di Sciascia, sennonché la storia è quella vista come “selva di errori, più spesso ancora di colpe, un cruciverba che egli investiga non tanto con la fiducia di poterlo risolvere quanto per capirne e dimostrarne le ambiguità nascoste e le nascoste virtualità”.
Lo stesso epitaffio dettato per sé da Sciascia, “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”, vale per Bufalino come esercizio “d’una insopprimibile volontà di memoria, comprovando altresì “un sentimento di distacco ironico e dolente insieme”. Bufalino sorprende nell’illuminismo sciasciano “un amore accanito del vero” sì, ma sottomesso alla “consapevolezza della complessa, evasiva natura dello stesso vero” e gli può così rilasciare un salvacondotto che lo conduce nel regno del cuore, opposto a quello della mente. Alla fine Bufalino corregge Pascal nel senso che la memoria è necessaria per tutte le operazioni del cuore e nello stesso tempo rovescia, come egli stesso rivela di aver detto personalmente a Sciascia, la proposizione ancora di Pascal secondo cui il cuore ha ragioni che la ragione non può comprendere, modellandola sul canone sciasciano: “La ragione ha le sue passioni che il cuore non può comprendere” – una citazione di Eugenio d’Ors che a Sciascia piacque molto.
Ethos e pathos sono allora le coordinate entro le quali si muove lo Sciascia visto da Bufalino, uno Sciascia che, “lontano dal tapparsi a doppia mandata nel castello di cristallo della pura ragione, volentieri consente a sporgersi sul popolo d’ombre gementi che alle soglie di quel castello s’accalcano”.
Ed è forse questo lo Sciascia che resta meglio da conoscere: quella parte “decadente”, simbolista, d’uno scrittore per il quale pascalianamente ancora “l’io è increscioso” al punto da preferire non solo il plurale maiestatico (a differenza di Bufalino che narra sempre in una persona omodiegetica) ma anche osservare i mali dell’uomo e quindi anche di se stesso, attraverso i mali della società, quella che Bufalino chiama “la vicenda del nostro vivere”. Senonché quando Sciascia – dice Bufalino – sembra quasi volersi congedare dall’immaginario a favore del “nudo verbale d’indagine”, la malattia e il sentimento della morte incombente “lo riconducono con prepotenza al modulo antico della parabola fantastica, quale si declina nelle due opere supreme: Il cavaliere e la morte e Una storia semplice”. Opere supreme che si riconnettono alle prime prove poetiche di La Sicilia, il suo cuore dove larvatamente si ritrovano, in un cupo e persistente senso di morte, luoghi e personaggi futuri e dove invale un primordiale lessico antirealistico fino ad apparire addirittura ermetico, vale a dire nel segno del più puro simbolismo decadentista.