venerdì 22 febbraio 2019

La storia dell'Etna che è anche un mito


Se l’Etna offre un aspetto legato al variare del punto di osservazione; se appare in fogge diverse secondo le stagioni e le condizioni del tempo; se il suo genere, femminile o maschile, dipende da chi veda la montagna o il vulcano; se ancora la sua morfologia cambia col sovrapporsi e il moltiplicarsi delle eruzioni; se addirittura a volte si sottrae alla vista mentre altre si avvicina in un miraggio: se insomma l’Etna non si lascia irretire in un’immagine fissa, una iconografia permanente, è perché non ha storia. O meglio: è intollerante ai metodi della storia. Occorre piuttosto essere visionari per darne conto, affidandosi alle evocazioni che suscita e alle sue morgane, perché il vulcano è sempre diverso. Non c’è stato incisore, gouachista, acquarellista o disegnatore che lo abbia visto con gli stessi occhi di un altro, ciascuno preda di una speciale eidetica che è il solo spirito con il quale si possa riguardare l’Etna, la dottrina cioè del visibilio, la teoria della percezione allotropica.
Nessuno, neppure nel pieno della stagione romantica e del più severo realismo, è riuscito a infrangere il sortilegio di un mondo fenomenico deducibile solo mentalmente perché refrattario ad assumere una forma definitiva. 
Se l’Etna non si può cogliere in uno sguardo unico, non se ne può nemmeno scrivere valendosi delle sole fonti storiche, quelle letterarie essendo di gran lunga prevalenti, tanto da assorbire le prime e ridurle da notizie a leggende, da tesi a ipotesi, da fatti a racconti, da storia dunque a miti. Cosicché l’Etna può essere soltanto «immaginato»: ad accreditare l’accezione storica di «imago mundi» che nella cultura classica suggerisce una visione del mondo dove terra e cielo costituiscono un ecumene unico e atomistico, primordiale e perciò del tutto immaginifico e irreale.
Neppure uno storico rigoroso come Giuseppe Giarrizzo, in un libro di molti anni fa sul vulcano, resisteva alle illecebre dei rimandi e delle risonanze, cosicché coglieva nella sfera del vulcano alcuni significativi archetipi che si oppongono al determinismo storicistico: si pensi alla ricorrente presa di visione dell’Etna dal mare, al timore dei Ciclopi più delle acque che non del monte, al ruolo di centralità dell’Alcantara rispetto al Simeto, al reticolo che sciare e strade disegnano nei secoli. Segni di un atteggiamento acronico, di una consapevole propensione verso l’elemento epifanico, di una determinazione causale e puntuale a rintracciare il filo antistorico che annoda i tempi e ricostruisce il canone interno della plurisecolare vicenda dell’Etna, li ritroviamo – più che nella storia – appunto nell’etopea e nella mitografia.
Oltre che Tucidide e Diodoro Siculo, concorrono alla definizione del vulcano geografi qual è Strabone, filosofi come Seneca e Posidonio, narratori impuri della stregua di Plutarco, poeti quali Pindaro, Eschilo e Lucrezio, viaggiatori del tipo di Hoüel. E dove Posidonio si augura di frantumare la pietra lavica per riscoprire il substrato originario, Ermogene di Tarso si interroga sul mistero di una Catania sorta ai piedi di un vulcano distruttivo anziché nella grande Piana del Simeto. Temi al cui svolgimento la storia è più che indifferente mentre sono la eikasía (l’immaginazione) e la pistís (la credenza) a formare congiuntamente il grado platonico della conoscenza.
E’ infatti nelle pieghe della storia uno dei segreti più suggestivi dell’Etna: la «concordanza» tra le eruzioni e gli eventi storici di grande momento, interferenza prodigiosa che non solo involge res gestae quali la battaglia tra Imilcone e Dionisio I, la guerra civile tra Cesare e Pompeo, il martirio di Sant’Agata, ma che è anche presente in riferimento alla fondazione della Katane calcidese e poi della Aitne di Ierone. Di più: Virgilio e Servio, osservando l’attività eruttiva, vaticinano presagi funesti (notando per esempio come Cesare venga ucciso in concomitanza proprio con una eruzione) mentre concorre ad asseverare questa rappresentazione la figura più mirabolante e ineffabile di Catania, l’Eliodoro dalle mille magie posto ad arcagete della «città del vulcano»: la città delle caverne sotterranee, dei fiumi carsici, dei laghi scomparsi, delle lave rapprese per miracolo di veli e di reliquie, la città che come l’Etna vanta una storia underground pari a quella en plein air, la città infine nata nel punto esatto dove Tifeo e Encelado, schiacciati da Zeus sotto la Sicilia, tengono la testa e respirano soffiando dalle froge dei crateri. Talché l’histoire événementielle del vulcano si lega al destino della città in un’armonica di miti e trame che fondano una tettonica di forze complementari e condivise.
Ma è nel Medioevo che la liaison tra la città e il vulcano si fa strettissima. Nonché nerissima com’è il loro basalto. L’Etna, dove Efesto e i suoi Ciclopi battono il ferro, dove finiscono le figlie di Acheloo, compagne di Persefone rapita da Plutone, dove Empedocle trova la sua tomba, diventa presto il regno dell’Aldilà e, con la venuta dei Normanni, adombra anche la mitica Avalon in cui smania l’immortale Artù, condotto ferito dalla sorella Morgana entro un castello che sorge nei suoi recessi. Di qui la più grande ucronia immaginabile dell’incrocio tra la civiltà norrena con la mitologia mediterranea e a seguire il florilegio di cunti (fra cui la leggenda del cavallo del vescovo di Catania che si perde nel castello di Artù, il mito dell’offerta della spada Excalibur da parte di Riccardo Cuor di Leone a Tancredi re di Sicilia, il romanzo francese Floriant e Florete dove fa da teatro l’Etna…) che, associati a una vasta letteratura, convogliano sul vulcano nei secoli dal VII al XII il pleroma dei «viaggi nell’Aldilà» ai quali, in una incalzante teosofia di anime separate dal corpo e peregrinanti nell’oltretomba, va ricondotto il cespite di una sensibilità che indica proprio nell’Etna la porta dell’inferno. Le tradizioni riprese da Gregorio Magno, nei cui Dialogi una nave carica di morti trasporta nottetempo anime alle falde del vulcano, si aggiungono alle visioni di Tnugdal e Thurcill che designando l’Irlanda a meta ultraterrena descrivono un’alta montagna e un enorme forno, fucina di un fabbro chiamato Vulcano, con ciò evocando chiaramente l’Etna.
Sull’identificazione di Avalon con l’Etna e sul mito del vulcano quale paradigma del mondo medievale ha insistito per ultima Maria Corti, seguendo il senso obbligato del mito a misura della storia. Per questa via la Corti arriva a vedere nell’Etna la metafora della vita: «Non c’è nessuna differenza tra l’Etna e la vita, della quale forse il monte è formidabile simbolo, giacché sembra averne tutto il talento combinatorio nell’alternare nascita e morte, bene e male, spropositata fioritura primaverile di borraccina azzurra, lupino, astrogalo, asfodelo e micidiale colata lavica, eroi bretoni e diavoli della controriforma».
Questo décalage di elementi di natura, buono e cattivo in una soluzione, costituisce l’altro aspetto dell’Etna proteiforme e gianetico, integrando un principio ordinatore che regola il complesso della cultura siciliana: la vista del massiccio etneo che appare ai primi argonauti in arrivo da oriente (la provenienza di tutti i viaggi nell’era classica), appena doppiato Capo Spartivento. Uno spettacolo ominoso, com’è per gli ulissidi la vista di Polifemo. Uno spettacolo però capace di apparire irenico davanti alla visione, oltre Scilla e Cariddi, che si schiude ai piedi dell’Etna agli stessi naufraghi omerici: «In faccia la feconda ci apparve isola amena ove il gregge del Sol pasce e l’armento».