giovedì 23 settembre 2010

Ilardo, l'eroe dei due mondi

Luigi Ilardo con Bernardo Provenzano a Mezzojuso

Luigi Ilardo è stato un infame per la mafia, a cui apparteneva pressoché dalla nascita, e un infiltrato per una parte dello Stato che lo chiamava “Oriente”.
Una parte dello Stato che si riduce praticamente a un ufficiale dei carabinieri e a un giudice che ha speso per lui parole di apprezzamento. Il suo nome è soprattutto legato alla mancata cattura di Provenzano, che incontra nell’ottobre del 1995 in un casolare di Mezzojuso e del quale gode la massima fiducia tanto da essere nominato vicerappresentante della provincia di Caltanissetta. Ilardo ha scritto alla Dia di De Gennaro dicendosi pronto a fare rivelazioni sugli attentati del ‘93 e il tenente colonnello Michele Riccio lo tira fuori dal carcere convincendolo a continuare a fare il mafioso per conto dello Stato. Riccio, che ha lavorato al fianco di Dalla Chiesa, è conosciuto come uno che pur di fare carriera è pronto a tutto: tant’è che sarà condannato a nove anni (pena ridotta in appello a quattro) per avere applicato metodi spregiudicati nella lotta al narcotraffico, trattenendo dai sequestri droga che destinava a finanziare le sue indagini. Un ufficiale che non bada alle formalità. 
Il suo rapporto con De Gennaro è di totale accordo. Ma quando Ilardo gli comunica che il 31 ottobre incontrerà Provenzano, Riccio non fa più parte della Dia essendo passato da qualche giorno al Ros: Il comandante Mario Mori dispone che Oriente debba preparare i presupposti per un secondo incontro e di raccogliere dati. La cattura è insomma inopinatamente rinviata. Senza un perché. Quando Mori e Riccio finiranno sotto processo, il primo accuserà l’altro di essere stato lui a non volere realmente il blitz temendo per la vita di Gino Ilardo. Che però non recede, continuando a fare l’infiltrato e informare Riccio. Finché, sette mesi dopo, non è pronto per diventare un collaboratore di giustizia. Per realizzare il suo sogno deve deporre davanti a un giudice e raccontare tutto. Anziché uno, di giudici ne arrivano due il giorno in cui, nella sede romana del Ros, Gino conosce anche Mori al quale dice in faccia: «Molti omicidi non li abbiamo commessi noi mafiosi ma voi dello Stato». I giudici sono Caselli e Tinebra. Gino sposta la sedia davanti al primo ignorando per tutto il tempo l’altro. Senonché Tinebra pretenderà di gestire personalmente il neopentito perché è nisseno e lui è procuratore a Caltanissetta. 
Due giorni prima di entrare nel programma di protezione, Riccio apprende che a Caltanissetta si è avuta una fuga di notizie: tutti sanno che Ilardo si è pentito. Il giorno precedente a quello che dovrebbe inaugurare la sua nuova vita, Oriente viene ucciso sotto casa a Catania. Riccio, disperato, si sente cantilenare dal suo superiore, il generale Subranni, «Ti hanno ammazzato il confidente, ti hanno ammazzato il confidente».
Nel loro libro Il patto (Chiarelettere) Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci scrivono: «Ilardo muore tradito da una talpa istituzionale il cui obiettivo era di evitare che l’infiltrato potesse mettere a verbale le rivelazioni fatte al tenente colonnello Riccio». Infatti la deposizione resa a Caselli, presente Tinebra, viene trascritta e poi cestinata. Ma quanto dichiara a Riccio, che negli ultimi giorni gli fa dire tutto a un registratore, è oggi disponibile in audio anche su Internet. Biondo e Ranucci hanno raccontato la storia di Ilardo sulla base non solo degli atti processuali ma anche e soprattutto della testimonianza diretta di Riccio (sul quale hanno preferito tacere circa i suoi precedenti penali e per il quale hanno hanno fatto il tifo nella sua guerra a Mori e al resto del Ros) sortendo di sposarne le ragioni e di fare nello stesso tempo di Ilardo un eroe dell’antimafia. Ma il loro libro pretesta Ilardo e rifà la storia della mafia entro lo schema dei rapporti con lo Stato che oggi sono classificati nella cosidetta “trattativa”. Lo pretesta perché Ilardo non c’entra niente con il “patto”. Lo dicono gli autori stessi: «Ilardo non sa nulla di patti e trattative». Sa invece – e di questo parla a Riccio – del coinvolgimento dei Servizi segreti in omicidi che vengono imputati alla mafia: quanto insomma dirà personalmente a Mori. Che è poi quanto disse già Gaspare Pisciotta: «Banditi, polizia e mafia sono un corpo solo». Il sottotitolo “La trattativa Stato e mafia nel racconto inedito di un infiltrato” è dunque una forzatura. 
Ilardo sa delle richieste di Provenzano allo Stato circa la dissociazione e la revisione dei processi, richieste che vengono poi ricondotte al cosiddetto “secondo papello”, per distinguerlo dal primo, quello di Riina; ma non può sapere di una trattativa condotta da don Binu che ha esautorato Ciancimino (già in contatto anche personale con Mori) e consegnato Riina allo Stato in cambio di un allentamento della pressione. «I contatti di Binu – dice a Riccio – sono con gli apparati dell’Arma e negli ambienti imprenditoriali». Non va più sopra né immagina una trattativa di natura politica. Di questa trattativa il solo a esserne, all’epoca dei fatti, a conoscenza è invece Borsellino. Che, secondo rivelazioni ben posteriori, di Brusca innanzitutto, viene ucciso perché dice no al “patto” di cui sarebbe stato informato in un incontro a Roma con il capo della polizia Parisi e il funzionario dei Servizi Contrada. Probabilmente sa anche dei rapporti del Ros con Ciancimino. Quel che Provenzano dice a Ilardo («Ci vorranno sei, sette anni per tornare alla normalità») viene letto come prova del patto concluso con lo Stato dopo l’ascesa di Forza Italia, ma Ilardo non parla a Riccio di patto, tant’è che non si spiega mai la mancata cattura di Provenzano alla luce di un accordo. Gli parla invece di Dell’Utri, anche se non ne fa il nome. 
Il teorema dei due autori è questo: ben prima del ‘94, quando Berlusconi teme sequestri e subisce attentati, Dell’Utri gli porta in casa un boss palermitano, Vittorio Mangano, che faccia da sentinella. Ma anche da mediatore con la mafia. Pentiti hanno dichiarato che Berlusconi ha riciclato nella Fininvest soldi di Cosa nostra, ma la magistratura, pur indagando a fondo, non ha mai trovato le prove. Certo è che nel 2005 viene trovato tra le carte di Ciancimino un foglio di cui rimane solo la parte inferiore. Figura il nome di Berlusconi che viene richiesto di mettere a disposizione le reti televisive. Un tentativo di ricatto insomma. 
Poi lo scenario cambia e Berlusconi da vittima della mafia assurge a ispiratore: vince le elezioni del ‘94 e Forza Italia diventa il partito nel quale vengono fatti confluire i voti della mafia. In base a un accordo artefice del quale sarebbe Dell’Utri? Non è certo. Un pentito di primo piano, Nino Giuffrè, chiarisce infatti che, di fronte alla nascita del nuovo partito, la mafia si fa furba e spontaneamente decide di scommettere sull’astro nascente della politica. Un’iniziativa unilaterale dunque, che trova conferma nel fatto che, alla vigilia delle elezioni, cessano tutte le azioni volte a costituire leghe autonomistiche meridionali intese a fondare partiti vicini alle organizzazioni criminali.
In realtà Biondo e Ranucci tendono a dare a Ilardo un’importanza maggiore sullo scacchiere dei rapporti tra Stato e mafia. L’importanza vera di Ilardo è piuttosto quella di avere provocato una frattura all’interno del Ros. Il processo in corso a Palermo contro Mori è infatti frutto della sua attività. Quel che capì fu il ruolo deviato di sistemi statali quali i Servizi segreti. E quel che professò fu il sospetto verso le istituzioni. La sua vicenda insegna che sono gli uomini e non gli apparati a meritare fiducia. Si legò al colonnello Riccio e solo a lui volle sempre parlare. Se patto ci fu, fu fra loro due.