mercoledì 15 settembre 2010

Senza scrittori o senza cultura?



Insensibile alle controspinte che vorrebbero riportarla sul piano della realtà e della concretezza, quindi dell’utilità, la letteratura come bene ineffabile e forma della vanitas vanitatum rischia di finire nel cono d’onta del postmoderno a farne da tappo finale.
Prevalendo il bello a scapito del buono e del vero, e l’estetica facendo premio sull’etica, l’onda lunghissima del postmoderno minaccia di risucchiare, prima o poi, anche la letteratura nel vortice del kitsch rendendola, proprio perché mass cult, un fenomeno a perdere. Tutto il contrario di quanto la letteratura soprattutto novecentesca auspicasse: di distinguersi appunto per la sua insignificanza, ciò che avrebbe dovuto costituire la sua fortuna e il suo valsente. 
Ma anziché contare sulla propria innata e metafisica anomalia, quella cioè di raccontare storie false, la letteratura deve ringraziare il mercato di cui è anch’essa suddita se è riuscita a scampare alla deriva postmodernista, ciò che le consente – rispondendo agli stessi criteri di ammissione e profitto che alimentano altri campi del sapere e sostengono l’attuale industria editoriale – di continuare a essere un bene materiale di consumo. Senonché, a stare ad opinioni invalenti, il danno alla letteratura deriverebbe proprio da un cordone mortale con il mercato che occorrerebbe recidere, così come per molti versi è avvenuto già da tempo per la poesia. Perché non è la poesia a dovere prosasticizzarsi ma è la prosa che deve diventare poesia. Un programma che però nessun mercato potrebbe mai favorire, tant’è che nessun editore lo persegue con calore.
In Senza scrittori, un documentario finanziato da Rai Cinema (cioè da uno scrittore di romanzi finzional-realistici, Franco Scaglia, che ne è il presidente), Andrea Cortellessa, nemico giurato del mercato e fervente discepolo della poesia, si è impegnato a sostenere la vanità della letteratura e la necessità di tornare a un landolfiano principio di realtà nel momento stesso però in cui prova a dimostrare come il male della letteratura non sia tanto la sua vocazione a eludere il mondo quanto i guasti della filiera produttiva: dalla “fabbrica delle vanità” al “mercato delle vanità” fino alla “fiera delle vanità”, come dire editori, librerie e scrittori, partendo dal “falò della vanità” che è soprattutto il Premio Strega dove ogni rito e ogni programma si consumano in una liturgia che convoca la società letteraria, secondo Valentino Zeichen «frolla e decadente», a reiterare gli stessi guasti. 
Scomodando Arbasino e il suo catalogo di qualità di cui il Paese è privo, Cortellessa intitola il suo film Senza scrittori: a indicare un vuoto che è però antifrastico, perché non sono gli scrittori che mancano quanto editori che non considerino il mondo dei libri (e soprattutto la letteratura: senza la quale l’editoria non avrebbe futuro alcuno) una linea di produzione o un ramo d’azienda. Forse Cortellessa avrebbe voluto intitolare il film “Senza cultura” cogliendo un maggiore senso, ma ha preferito fermarsi a un’induzione, testimoniata in apertura del film da un estintore che viene trascinato via a simboleggiare una letteratura non più capace di appiccare incendi e dare argomento all’ideale novecentesco. 
Cos’è da intendersi allora, se sentiamo nel film Tiziano Scarpa dichiarare che la letteratura è oggi l’ultima realtà democratica rimasta in vita e Marco Belpoliti precisare invece che è aristocratica e dunque antidemocratica? La letteratura è piuttosto quella che Antonio Franchini, responsabile della narrativa italiana Mondadori, sintetizza nella logica così chiamata del “gancio”, per cui un libro ha successo se è possibile agganciarlo non al suo fine epistemologico, quindi alla portata del suo contenuto, ma a un mezzo di affermazione e di novità, che sia una copertina o anche un titolo oppure una trama surrettizia: a dimostrazione della legge della contemporaneità, teorizzata già da Heidegger, per cui l’uso che si fa della tecnica è finalizzato al miglioramento della tecnica stessa e non al progresso scientifico. 
Così il libro di narrativa: un prodotto non mentale ma artificiale, frutto più dell’editor che dell’autore. Il quale – diversamente da quanto sentiamo dire a Stefano Mauri del Gms – non è affatto arbitro del contenuto del suo romanzo. Basti ricordare Paolo Giordano il cui romanzo Strega è stato più opera degli editor che farina del proprio sacco vuoto. 
Se i best seller nascono nei concitati open space delle majors editoriali anziché nelle mute mansarde dei nostri solitari scrittori per poi passare rumorosamente nelle catene di librerie delle stesse majors, prodotti concepiti come industriali e non dell’ingegno umano, è chiaro che in termini di giudizio di letterarietà un esigente Marco Belpoliti debba definire «analfabeta» una pretenziosissima Margaret Mazzantini mentre un perplesso Cortellessa debba aggirarsi con la mano al mento dietro la tenda dove l’autrice del celebratissimo Non ti muovere declama le sue righe ed esalta il suo ego. 
La realtà che emerge dal film di Cortellessa mostra un numero ristretto di grandi gruppi editoriali decisi – anche mercé la spietata politica degli sconti che distrugge le librerie indipendenti a favore dei megastore – a monopolizzare e spartirsi il mercato acquisendo la proprietà di grandi distributori e aprendo proprie librerie o rilevandone di vecchie, ma non mostra l’aspetto nuovo e dirompente della strategia dell’intenzione costituito dall’avvicendamento dell’editor al posto dell’autore perché il suo romanzo sia quanto più facilmente commerciabile; ciò che non può invece accadere nella saggistica e nella poesia se non in dosi irrilevanti. Essendo la letterarietà un talento e l’editorialità un mestiere, l’intervento sempre più esautorativo dell’editor non punta a un dippiù di insignificanza, cioè di vanità, ma tende a locupletare il testo di realtà, di addendi, “ganci”, che rilevino un elemento di moda, rendendolo smerciabile. Se Cortellessa gira l’Italia alla ricerca della nuova realtà non potrebbe non esserne soddisfatto, ma la sua mission è un’altra: la difesa, generosa e strenua, dei librai indipendenti e dei piccoli editori. 
Il suo film, ancorché del 2009, fotografa lucidamente il momento di transizione che la letteratura sta attraversando: di consolidamento a tappe forzate del sistema oligarchico in un mondo dove sopravvivono come agognati paradisi perduti realtà quale Topolò, un paesino dell’Udinese di 28 abitanti sul quale il film si chiude dando conto di una letteratura che rivive nelle forme di un parnaso dove vanità fa ancora rima con qualità.