Articolo uscito il 29 giugno 2017 su la Repubblica-Palermo
Il primo malinteso del sillabario di Francesco Merlo (declinato sulle parole correnti che come paradigmi definiscono una controstoria della nazione e senza volerlo riaggiornano il carattere degli italiani) è la Sicilia.
Quella del nonno Rodrigo, nobile popolano, che a Castiglione di Sicilia porta alla moglie sterile una trovatella da mostrare in paese come figlia, che tale è davvero per averla avuta in incognito; del padre reazionario che nel ’46 vota repubblicano e della madre progressista (Nennella, stesso nome della nonna biologica mai conosciuta e dedicataria in epigrafe del libro) che sceglie la monarchia; ma anche dell’amico regista che per il suo documentario sulla Sicilia vuole siciliani veri e li trova falsi in Francia. Un malinteso - alla fine un sbaglio o uno sfaglio - è poi la teoria del compagno d’infanzia Carlo Alberto, convinto che esistano pure i monarchici comunisti; e altro non è quanto la zia Mercedes chiede alle nuove cameriere perché facciano “pazziare” il marito Ciccino “che le seduceva più per vanità di rango che per libidine”. Fino al fraintendimento più comico: la scopertura a Macchia di Giarre della statua di Alfio Russo che, per una foto sbagliata recapitata allo scultore, appare nelle sembianze di Mario Missiroli, un altro direttore del Corriere della sera, anch’egli calvo.
La Sicilia degli equivoci, spia di instabilità, che Merlo associa alla sismicità del territorio, integra allora il contrasto del bianco e del nero di Catania, il gioco camaleontico degli epiteti che rovescia in ingiurie nomi e modi delle persone, l’insussistenza delle cinque categorie antropologiche di don Mariano Arena, masi ferma qui. Non arriva difatti a replicare la doppiezza degli italiani, vista come “malinteso che consente di disporre di identità supplementari”, perché la natura dei siciliani si riduce a uno stato unico, di “separatezza” e “particolarità”, nel quale il malinteso è l’ossessione generale circa una condizione di specialità della quale l’isola dovrebbe piuttosto liberarsi.
Merlo parla della Sicilia discorrendo d’Italia ma per dire anche di sé in Sillabario dei malintesi (Marsilio, pagg. 415, euro 20), un regesto del nostro tempo che in parte si costituisce come diario in pubblico dove Merlo prova a sciogliere il nodo che ha creato attorno alla sua idea di Sicilia, la terra delle contraddizioni che, tra illusione e disincanto, si offre come sciasciani “scoglio” e “mare aperto” per chi come lui appartiene alla diaspora e non sa tutt’oggi decidere tra l’ulisside Vittorini, affatturato dal Nord, e l’ettorico Bufalino, che designa “l’eccezione” di chi è rimasto.
Il postulato per il quale un siciliano può essere strappato dalla Sicilia ma mai la Sicilia può esserlo a un siciliano procura in Merlo una lacerazione profonda e irrisolta: quando si sfoga contro il sicilianismo e incolpa l’ipertrofia dell’io regionale, che fa i siciliani tutti uguali tra loro e tutti diversi dagli altri,cede poi al sentimento della sicilianità nel ricordo delle acque di Acitrezza dove vede ancora oggi “il principio e la fine di ogni cosa”; e quando addita lo statuto dell’autonomia come causa del male che strozza la Sicilia, da abolire “per bancarotta economica, politica e morale”, o si impegna a demolire gli stereotipi di una retorica alimentata dagli stessi siciliani a loro danno, ecco che gli rinviene la figura del maestro Vizzini, “il modello di terrone che ha formato la classe dirigente” nazionale, “uno dei tanti che esportava Meridione e importava Italia” e che come direttore del giornalino scolastico pubblicava “Abbiamo fatto l’Italia parlando male di Garibaldi”, in assoluto il primo articolo di Merlo, scritto a dieci anni.
Forse il giornalista che lascia la Sicilia per Milano - attratto dallo smog, da respirare contro l’accecamento di luce e sole che in Sicilia adducono“fastidio” - e per tutta la vita rimane sospeso tra nostalgia e rabbia, desiderio del ritorno e voglia di oblio, come Vittorini, come Consolo, stregati anch’essi da Milano, è il più vero quando in notti di tempi lontani si ritrova in mezzo allo Stretto di Messina, tra isola e continente, e fissa lì il suo punto di equilibrio geografico di siciliano emigrante per poi accorgersi che “dal grande buio uscivano le luci del porto di Messina e lontanissime quelle di Reggio. Nel cielo nero brillava, all’estremità della costellazione dell’Orsa minore, la piccola stella polare che indicava a noi siciliani il mitico Nord”.
In questo stato di gravità precaria, il brivido irresistibile per Milano fa da contrappunto all’emozione irrinunciabile per Catania, entro una doppia tensione che è forse la cifra più personale ed esplicita di un giornalista che ama così tanto la Sicilia da non poterci vivere perché, come Camilleri, innanzitutto si sente un italiano che è nato in Sicilia. Una Sicilia che pure chiama accorato “mia” e nella dimensione della quale è la Catania della pasta alla norma e della chiesa del Carmine, insieme con la piazza di Acicastello e la tipografia del giornale di cui il padre era direttore e dove egli è “cresciuto correndo tra le linotype e arrampicandosi sulla grande rotativa”, il luogo di composizione di una cosmologia sentimentale che molte volte suona come intermittenza del cuore e sempre come basso continuo.
Ma se dell’Italia dei malintesi Merlo rimarca il dramma, della Sicilia degli equivoci e degli ossimori è la commedia che rileva. Brancatiana e perciò catanese: del siciliano che a Parigi invita a casa solo conterranei e offre cannoli e baccalà sulle note di “Ciuri ciuri”; del barbiere catanese che a un barone dà, come egli pretende, una spuntatura di capelli mentre ancora dorme; e di Antonio Munafò, correttore di bozze nel giornale di Catania, chiamato da tutti ingegnere per sfottò: fino a quando il caporedattore non gli fa arrivare per scherzo un articolo con la notizia che l’ingegnere Antonio Munafò ha vinto il concorso per costruire il ponte sullo Stretto ma deve però rinunciare essendo un correttore di bozze. Munafò non fa una grinza, ma l’indomani appende sotto gli occhi di tutti la sua laurea in ingegneria, sicché non viene più canzonato. Perché non l’ha fatto prima? Forse per un malinteso.