mercoledì 5 luglio 2017

Come Siracusa fece morire Von Platen

Il monumento a Von Platen a Siracusa
Arrivò a Siracusa nel giorno dell’estate di San Martino, l’11 novembre 1835, e morì il 5 dicembre. Voleva trascorrere l’intero inverno nella città di Teocrito e sfuggire al pericolo del colera per il quale aveva lasciato Napoli dopo che s’era sparsa la voce che l’epidemia aveva toccato la Toscana e presto sarebbe giunta in Campania.
Fuggì verso il sud per scampare la morte ma nell’estremo sud, a Siracusa, proprio la morte trovò ad aspettarlo: atroce e feroce, umiliante e scandalosa. Ma oscura e tale rimasta fino ad oggi.
August Von Platen, poeta bavarese trentanovenne, celibe, devoto al classicismo e nemico del romanticismo, di nobile famiglia comitale, ipocondriaco e omosessuale non confesso (di un omoerotismo che non si accontentava del soddisfacimento dei sensi ma teso al raggiungimento dell’amore e a quella che varrebbe oggi un’unione civile: dunque ancora più vizioso e spregevole, inevitabile oggetto dello sberleffo di Heine e della riprovazione di mezza Europa), era deciso a svernare in Sicilia, da dove era da qualche mese tornato a Napoli, pur presagendo quasi la morte, immaginata per colera, nella consolazione confidata in una lettera a un amico di Lipsia che “in Sicilia almeno la morte sarà più poetica”. Non lo sarà per niente. Sarà invece squallida, solitaria, angosciante, terribile. 
A renderla tale non si sa se alla fine fu davvero il colera, ma certo determinanti si mostrarono i suoi anfitrioni, a cominciare dal cavaliere Mario Landolina Nava, figlio del più celebre e stimabile Saverio, e poi il genero Vincenzo Interlandi e un amico del Landolina, Salvatore Chindemi, un’autentica pasta di mistificatore e imbonitore. Sospettando che l’ospite tedesco avesse contratto il colera - o meglio lo avesse portato dal continente, dal momento che nessun caso si era ancora registrato a Siracusa, perché sarà solo l’anno successivo che il morbo esploderà in Sicilia - lo abbandonano letteralmente e inesorabilmente al suo destino lasciandolo da solo a morire nella stanza di una locanda a poco prezzo dove gli era stato consigliato di prendere alloggio, tenuto bene a distanza anche dai coniugi gestori dell’albergo. 
Von Platen era giunto con una lettera dell’archeologo di Dresda Heinrich Wilhelm Schulz da consegnare a Landolina perché gli agevolasse il soggiorno. Schulz era stato già ospite dei Landolina, famiglia che poneva in capo alle proprie ambizioni il riconoscimento da parte delle migliori case europee di essere la più ospitale verso i viaggiatori continentali di alto lignaggio, riconoscimento non da poco perché assicurava un’alta considerazione anche presso le sedi reali, come potrà constatare plurinovantenne lo stesso don Mario. Quando Landolina legge la raccomandatizia e vede Von Platen, piccolino, tutt’altro aspetto che quello di conte, gli abiti unti e sdruciti, lo ospita in casa il tempo di trovargli una sistemazione alberghiera per poi liquidarlo pressoché su due piedi. Non ha la più pallida idea di chi invece ha avuto davanti: un poeta celebre e stimato, il membro di una delle migliori famiglie della Baviera e un nome ben noto a corte. Tuttavia lo inviterà una sola volta a cena ed è dopo quella sera (senza alcun legame tra i due fatti, mai in realtà adombrato) che von Platen accusa fortissimi dolori di stomaco ed è costretto a mettersi a letto per non rialzarsi più. I dolori intestinali, così lancinanti, ripetuti e in aumento, accompagnati anche da vomito e diarrea, insospettiscono gli albergatori ma soprattutto Landolina che si guarda dall’accorrere in aiuto dell’ospite e dal mandargli pure un medico. Farlo significherebbe fare risapere in città che uno straniero ha portato probabilmente il colera. La rabbia della popolazione si rivolgerebbe innanzitutto contro lui stesso.
Dalla sera della cena, il 24 novembre (ma la data è riportata in maniera difforme nelle diverse testimonianze), al 5 dicembre Von Platen non fa che agonizzare andando incontro ad una morte orribile, senza che alcuno gli presti il minimo aiuto. Nessuno deve sapere e nessuno infatti saprà alcunché. Incerta è anche l’ora della morte: forse le ventitre di sera o le cinque del pomeriggio oppure le tre. Certa è invece la fine che fa la salma. Niente funerale, essendo Von Platen peraltro protestante, e niente veglia: il corpo viene seppellito di fretta nel parco del Landolina e murato nella calce. Nel silenzio totale della città.
Non è stato mai stabilito se il poeta tedesco morì davvero di colera o per le conseguenze di natura psicologica dello scandalo circa la scoperta della sua omosessualità, conseguenze somatizzate in una malattia intestinale. Ancora oggi sono aperte tutte le ipotesi, non escluso l’avvelenamento. Nessuno ha cercato di fare luce sul caso al di fuori di Pino Di Silvestro, autore di un libro ben documentato ma privo di conclusioni e anche di supposizioni.
La paura che il poeta fosse morto di colera svanì comunque alla constatazione che non si ebbe un solo contagio, neppure nella cerchia di persone che gli furono più vicine, come i locandieri. Passata la paura, Landolina pensò di trarre vantaggio dalla morte di Von Platen e una ventina di giorni dopo, con colpevole e studiato ritardo, scrisse alla madre, o meglio fece scrivere a Chindemi, penna facile alle menzogne ben montate, facendole conoscere una storia del tutto inventata. La contessa non dovette credere del tutto alla versione avuta dei fatti, perché si chiese, scrivendone a un amico, com’era stato possibile che la salma del figlio fosse stata portata in processione, accompagnata addirittura dal vescovo, giacché era protestante. Ma accordò interamente la sua stima a Landolina quando, a proprie spese, il cavaliere le chiese di spedirgli il blasone per inciderlo sul tronco di un monumento da dedicare al figlio. Fu una decisione presa dopo che il gentiluomo siracusano ebbe modo di apprendere chi era stato davvero il suo ospite, tutt’altro che un viaggiatore di infimo ordine in cerca di quartieri d’inverno dove riscaldarsi al sole del Mediterraneo, bensì un nome della più alta aristocrazia tedesca. Divenne perciò tale la sua abnegazione, pari alla infingardaggine, che diciassette anni dopo Massimiliano II di Baviera, in visita a Siracusa, volle rendergli visita ufficiale per conferirgli la Croce di San Michele, la più alta onorificenza bavarese. Che Landolina non poté però apporsi al petto perché il destino non volle che fosse premiato a tal punto e lo fece morire tre mesi dopo.
Landolina fu più che sfrontato e bugiardo. L’Europa seppe che Von Platen era stato ospitato nel migliore albergo, dotato anche di un camino, come aveva chiesto; che, appena infermo, era stato assistito permanentemente da una équipe di medici e da alcune fantesche dell’albergo; che era spirato (nel pomeriggio e non di notte, così da giustificare la massima presenza di persone) nel conforto di tutti gli amici raccolti attorno al suo capezzale, primo fra tutti Landolina, al quale il moribondo (che in verità sarebbe stato del tutto impossibilitato solo a tenere gli occhi aperti) avrebbe preso una mano tra le sue per raccomandargli il proprio corpo e ogni incombenza dopo la morte; che era stato onorato con un funerale solenne e molto partecipato e che era stato infine seppellito secondo il rito cattolico. L’intero continente rimase molto ammirato e la stessa contessa madre dovette concedere che tanta umanità non s’era mai vista nemmeno in Germania. Landolina fu elevato a maggiori onori e trovò che quello straniero era stato un vero affare.