Nascere è l’ultimo libro di Severino, un titolo che sembra rinfocolare la polemica che lo vide protagonista al tempo della legge sulla fecondazione. Una provocazione? Spiega Emanuele Severino: «La riflessione sul senso del nascere è emersa come conseguenza di un discorso teoreticamente più impegnativo che avevo fatto nel mio libro uscito da Adelphi, Fondamento della contraddizione. Da lì vengono una serie di effetti - fra cui la contraddittorietà del concetto di potenza - che hanno attinenza appunto con il nascere».
Lei in effetti ha ingaggiato con la chiesa una polemica fondata forse un malinteso, perché la sua teoria dell’«eterno dell’essente» ne fa il teorico meno relativista che la chiesa potesse augurarsi.
Nel significato di andare nella direzione opposta al relativismo è vero, però cerchiamo di intenderci. Per relativismo la chiesa designa la negazione di ogni fondamento assoluto della realtà, di ogni realtà immutabile che si ponga al di sopra del divenire, lo controlli e lo domini, come appunto si assume con il Dio che è ordinamento immutabile e che contiene e dà senso al divenire. Il relativismo per la chiesa è quell’insieme di filosofie del nostro tempo (e potremmo arrivare indietro fino a due secoli fa) che si contrappongono alla tradizione filosofica. Ora, il mio discorso filosofico non è una riproposizione della tradizione occidentale alla quale il relativismo si contrappone.
La differenza qual è?
Gli «immutabili», gli «eterni» della tradizione occidentale hanno sotto di loro il «divenire» come il padrone ha sotto di sé il servo. C’è l’immutabile perché si riconosce il divenire. Mentre nei miei scritti si indica l’impossibilità di una gerarchia di questo genere dove c’è il Dio eterno che si tiene per sé l’eternità non lasciando che appartenga alle cose del mondo. E’ vero che i miei scritti non hanno nulla a che vedere con il relativismo ma non hanno a che vedere neanche con la tradizione metafisica, sistemica, ontologica, epistemica e teologica, perché questa tradizione è caratterizzata da un’eternità dove il padrone eterno domina il divenire che sottostà.
Però lei ha detto che l’esistenza del divenire implica l’inesistenza necessaria di ogni Dio eterno.
Attenzione. Chi afferma il «divenir altro» come annullamento è l’Occidente. E’ la storia necessaria della Follia. La Follia per essere coerente deve arrivare alla negazione di ogni eterno e congiungersi con l’emancipazione della tecnica. Certo, il mio discorso dà una mano alla filosofia contemporanea perché questa cancellazione del passato avvenga in modo radicale, ma poi l’essenza del mio discorso filosofico è la negazione di tutto questo processo che riguarda e l’affermazione di Dio propria della tradizione e la negazione di Dio propria della filosofia, dell’arte, della politica, della scienza...
Ha nominato la tecnica, il nostro dieu fétiche. Le grandi sfere che sono la civiltà borghese e la civiltà cristiana sono sottoposte a quella che lei chiama la «gabbia d’acciaio» che è la tecnica.
Infatti. Se la filosofia degli ultimi due secoli mostra l’impossibilità di ogni Dio, di ogni ordinamento eterno, di ogni verità definitiva, di ogni centro del mondo, allora che cosa rimane in campo? Non rimangono le verità ma le forze che in passato credevano di avere o di essere la verità: fra queste il cristianesimo, il comunismo, il capitalismo, la democrazia, l’Islam e via dicendo. Nello scontro tra queste forze, che spesso sono inconsapevoli della distruzione del fondamento soprattutto filosofico, si scatena una lotta (che è già in atto: basti pensare alla disputa cristianesimo-Islam o capitalismo-socialismo) dove lo strumento usato è la tecnica, guidata dalla scienza.
Però lei dice che non ci si serve più della tecnica per produrre profitto o mantenere l’assetto democratico, bensì si produce profitto e si reggono le democrazie per incrementare la tecnica.
Certo, perché contrariamente alle loro illusioni, le forze della tradizione occidentale, servendosi dell’apparato scientifico-tecnologico e dovendo fare in modo di non ostacolare il funzionamento di tale apparato, finiscono per far sì che l’apparato che avrebbe dovuto funzionare come mezzo divenga lo scopo: andiamo quindi verso un tempo dove non è il capitalismo a servirsi della tecnica ma è la tecnica a servirsi del capitalismo.
Sicché le forze che diceva lei diventano a loro volta dei mezzi.
Infatti. Diventano mezzi perché la tecnica consegua il suo risultato.
E allora, la risposta all’«incubo del dolore e della morte» può venire dalla tecnica?
La tecnica è destinata al dominio. Ma chiediamoci cosa si prefigge. Le varie forze che se ne servono mirano a scopi che escludono altri scopi di altre forze, mentre la tecnica si propone uno scopo opposto che non è quello di escludere nessuno scopo altrui.
Cioè incrementare se stessa.
Per la precisione l’aumento indefinito della potenza di realizzare scopi. Una potenza che nella teologia cristiana è posseduta dal Dio, mentre nella tecnica è una potenza che si sviluppa all’infinito: siamo al culmine della storia della Follia - se restiamo nell’ambito della storia dell’Occidente che è preceduta da una preistoria in cui permane la fede in un «divenir altro». Questa fede (che possiamo indicare nella stessa volontà di Adamo di divenire altro) ha il proprio culmine in quella civiltà occidentale che a sua volta culmina in quella suprema forma di volontà di potenza che è la tecnica.
Lei vede un terreno comune tra fede e tecnica o solo una delle due può creare felicità?
La fede guarda con sospetto alla tecnica e l’interpretazione scientifica della tecnica guarda con diffidenza alla tecnica. Ma cosa dice Gesù? «La fede muove le montagne». Assume quindi come criterio di valore la potenza. Che sia la fede a muovere le montagne o il matematicismo della tecnica si determina comunque sì una differenza, che però è una differenza sottesa da una profonda solidarietà. Addirittura direi che la fede cristiana si fa ancora di più «tecnica» perché presume che adottando un particolare stile di vita si raggiunga la vita eterna, ciò che ancora la tecnica non si propone di fare.
Tra tecnica e fede non c’è anche una terza via che è quella della bellezza? La poesia per esempio, come diceva anche Heidegger.
La poesia non è una alternativa alla fede e alla tecnica, anche perché la stessa poesia è tecnica. Poesia significa «produzione», ripensando a Platone. La concezione tardoromantica di Heidegger che vede nella poesia un rifugio rispetto alla tecnica non è accettabile perché egli non si rende conto che la poesia è produttività. In realtà i termini poesia, fede e tecnica hanno la stessa anima.
Lei a proposito convoca Leopardi ma soltanto nella veste di filosofo.
Pensi alla ginestra che contempla Pompei distrutta e che resiste ancora un po’. La ginestra è per Leopardi la poesia, ma la poesia unita alla filosofia, perché non ci può essere una poesia separata dalla conoscenza, dal divenire delle cose, cioè dal loro radicale «divenir altro». Pompei rappresenta la civiltà distrutta. Il sottotitolo di un mio libro su Leopardi è questo: "Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi". Leopardi propone la bellezza, la potenza della poesia, come alternativa ultima alla tecnica: ecco la sua straordinaria scommessa. E la forza con cui si esprime la nullità delle cose è ciò che Leopardi chiama bellezza.
Dunque la bellezza seguirà alla civiltà della tecnica? Distrutta Pompei rimane la ginestra.
Solo per un po’, come dicevamo. Io lascerei aperto il problema perché la tecnica intesa come trascendimento di ogni stato raggiunto dall’uomo include tutte le istanze: religiose, spirituali e anche poetiche.