mercoledì 21 giugno 2006

Così creiamo i nostri nemici


Per qualche ragione, mentre i morti palestinesi vengono in questi giorni calcolati all’ammasso, nell’ordine cioè delle centinaia e in uno spirito di tutto anonimato, la morte di un soldato israeliano guadagna nelle agenzie di stampa un lancio particolare, con tanto di nome accompagnato anche dal computo dei caduti.
Ciò non avviene perché, dall’inizio del conflitto, le vittime israeliane sono appena sette e quelle palestinesi oltre 630, ma perché Israele rappresenta l’Occidente mentre la Palestina richiama l’Oriente. Anche esprimendo i migliori sentimenti in favore del Terzo mondo e per il riconoscimento di uno Stato palestinese, noi non facciamo che parteggiare per Tel Aviv, sia pure inconsciamente. Allo stesso modo, nelle due guerre del Golfo le agenzie erano attentissime a tenere il conto dei caduti americani ed europei laddove i morti iracheni erano invece il prodotto di semplici addizioni aritmetiche. Ci si schiera sempre per i più vicini e per i simili. 
Avendo la stampa posto questo principio a proprio statuto, ne discende nella percezione comune che, in caso per esempio di terremoto, per eguagliare in rilievo – sia sui giornali che nella coscienza nazionale – dieci morti italiani ne occorrono diecimila europei e centomila extraeuropei. 
La morte non è dunque uguale per tutti. E ha una sacralità che dipende dai colori della bandiera come anche dai patti di alleanza e dagli schieramenti governativi. Invale la stessa logica per cui la chiesa ha benedetto per secoli le insegne di guerra, ammettendo che i soldati uccidessero in battaglia i suoi nemici ma condannando poi l’omicidio personale commesso in ragione di guerre private contro nemici individuali. Se anche per la chiesa storica è dunque lecito uccidere i nemici in forza di una causa che non è maggiore né capitale, ma necessaria per una parte che detenga il potere, e se uccidere i propri nemici per una causa vista personalmente come altrettanto necessaria diventa invece peccato perché non risponde a fini statali o supremi, appare evidente che il concetto di morte e di colpa si presta a legittimare la separazione e il contrasto tra una parte costituita in comunità omogenea e un’altra o tutte le altre parti ritenute rivali, cioè etimologicamente poste sulla riva opposta.
E’ nella nostra natura avere dei nemici e combatterli, disconoscendoli nello stesso momento come nostri simili. Ma non sono i nemici che noi cerchiamo o intendiamo creare. Cerchiamo invece gli amici, ma più ne troviamo più nemici creiamo. Essi nascono spontaneamente dal nostro istinto a costituirci in organizzazioni difensive, identificabili come unità indivisibili. Questa concezione accoglie la teoria di Nozick dell’«associazione protettiva dominante», in forza della quale le azioni intenzionali producono conseguenze inintenzionali. 
Il risultato ultimo è che si lascia quella che Rawls chiama «posizione originaria», dove tutti gli uomini sono uguali, e si raggiunge come in una gara la meta più alta o più avanzata attorno alla quale alzare steccati ed edificare un gruppo separato: può essere una famiglia, uno Stato, una razza, una fede, entità che si armano rispettivamente per combattere gli altri di strumenti quali la faida, la guerra, la segregazione, l’apostasia. Contro il male dell’associazionismo dominante tuonò inutilmente Kierkegaard invocando il primato del Singolo davanti a Dio. Senonché è stato proprio il dio biblico a creare per primo un gruppo eletto dividendo così l’umanità e gettando in essa la discordia. Sebbene il dio dei cristiani si immoli non per un popolo né per tutto il mondo ma per ogni singolo uomo, quella che oggi vediamo come una stortura del genere altro non è che un innato dato di natura.