venerdì 23 giugno 2006

Giuseppe Bonaviri: la Sicilia? Asprura e dolciura


Bonaviri, le capita di sognare la Sicilia?
Certi vaghi ricordi nei sogni mi spuntano spesso. Ma - è strano – mi appaiono perlopiù strade piene di paglia, di terriccio, e zone di paese in cui vivono solo degli idioti, cattivi e malvagi: capisco nel sogno che sono in quelle strade e sono assalito dall’angoscia, dunque fuggo via. Non ho sogni di una Sicilia solare, di gioia e di aria aperta, né sogno una Sicilia nel senso di una linearietà onirica legata al passare degli anni, questo no: sono le piccole cose che restano, come fondi di caffè. Presumo che durante la mia infanzia mi si siano connaturati elementi di paura. Guardi la mia foto a due mesi: ho i pugni chiusi sui fianchi in una posizione di difesa.
Se i sogni sono pochi i ricordi però sono tanti.
E' vero, tale è stata la paura. Sono vissuto in una fase storica diversa da quella attuale, paragonabile all’Ottocento: non c’era luce elettrica, non c’era acqua per lavarsi, le case erano piccole e anguste, si moriva bambini. Mia nonna ebbe 24 figli e ne perse 17. Una tragedia enorme. Era un mondo che non esiste più. Ricordi sì, tanti e brutti: così profondi e così contrastanti con questo mondo alquanto piatto, anche se ricco di tanti altri aspetti, nel quale oggi viviamo.
Una delle sue paure innate era il vento dell’altipiano?
Anzi, il vento era un deità che portava una voce di conforto. A farmi paura erano semmai i venti tempestosi che soffiavano d’inverno contro le nostre casette con le tegole che cadevano facilmente in un frastuono. Ma il vento come elemento naturale non mi faceva paura: è dopotutto uno dei motivi fondamentali che segnano la mia memoria di ragazzo di paese montano.
Si può dividere il suo rapporto con la Sicilia, che poi significa Mineo, tra due temi contrapposti: asprura e dolciura? Si tratta di definizioni ossimoriche da lei usate in poesia.
Sotto certi aspetti direi di sì. Sono termini molto belli, arcaici, dugenteschi. A Mineo si dice ancora albura. Più che la miseria in cui eravamo sprofondati, l’asprura era la separazione, la perdita, la morte delle persone care. Si viveva poco e a dieci anni potevi non avere più un fratello. La dolciura era il bello della natura, della circostanza. 
Quando oggi torna in Sicilia trova ancora l’asprura di un tempo?
Non ho bisogno di andare in Sicilia per vedere come la realtà di oggi sia ben diversa. In passato c’erano aspetti positivi ma anche fortemente negativi. Oggi è il contrario: abbiamo l’alimentazione che vogliamo, una certa ricchezza, ci laviamo ogni giorno, usiamo il bagno. Il bagno: allora avevamo fossi nei catoi profondi tre, quattro metri e c’era sopra una pietra con un anellino che si scoperchiava. Siamo vissuti in una età che confrontata ad oggi appare quasi preistorica. Però in questa preistoricità trovo elementi di una carnalità profonda che oggi la gente non conosce. Il senso dello sporco e del fetore non fa più parte del mondo: le persone rifiutano chi puzza o è sporco. Non ci convivevamo.
Dunque si stava peggio ieri. Ma lei sembra preferire come scrittore quella a questa Sicilia.
Vede, ogni artista pesca nel mare della propria esistenza gli spunti per fare un quadro, una scultura, scrivere un libro. L’atteggiamento che si ha verso il mondo dipende spesso dal temperamento, se pessimista o meno. E il temperamento può nascere da un fatto cromosomico ereditario, da ragioni ambientali, da un fatto di autoamministrazione. Si tratta di un intreccio di cause: è difficile risalire alla fonte della propria ispirazione.
Ma c’è un vecchio suo libro, Dolcissimo, dove Mineo che diventa Zebulonia è visto come un paese da rifare: arriva un medico che indaga sulle inclinazioni errate della popolazione, sulla mentalità sbagliata. Già allora lei non accettava quella Sicilia se la voleva cambiare.
Vedevo un paese che si disgregava: la gente emigrava e le case erano vuote, invase dai fiori di maggio e dal rovo. Era una specie di inchiesta su quanto era successo. C’era anche la ricerca dei morti e si andava al cimitero dove si vedevano le ombre dei trapassati. In quel libro scavavo la Sicilia delle macerie mentre Dolcissimo andava alla ricerca degli odori e dei profumi che ricordava di un tempo felice.
Dolcissimo vuole fare di più: riportare Zebulonia e dunque la Sicilia ai riti magici della natura.
Dolcissimo non è un legislatore o uno statista. E’ uno dal nome bellissimo che vagheggia l’idea di un ripristino naturale, che cerca il verdeggiare delle erbe che stanno scomparendo tutt’intorno.
Questa visione di Dolcissimo è anche la sua in fondo, mosso com’è dal desiderio di cristallizzare la Sicilia alla sua età incantata.
Non so se è così. Non siamo sempre uguali, né fisicamente né nello sviluppo del pensiero. Io ho sempre avuto due finestre: da una guardo il mondo passato, dall’altra quello attuale e futuro.
Notti sull’altura, che lei ha sempre ritenuto il suo libro maggiore, è in questo senso rivelatore di una Sicilia sospesa tra passato e futuro.
Un’angoscia continua. Muore il padre e il suo pensiero accumulato in settant’anni si proietta all’infuori sotto influssi elettromagnetici. I parenti vanno alla ricerca del pensiero e innestano un bambino in un carrubo dando quindi a una nuova forma di vita: l’albero si muove, ha una sensibilità, diventa antropomorfico, ma avvizzisce: senonché è la madre che decide di farsi innestare per rinvigorirlo. Ci si può vedere già vent’anni un’anticipazione del futuro spaventoso che aspettava l’uomo. Siamo dunque lontanissimi da una visione puramente agreste ed elegiaca della Sicilia. Siamo nel futuro, nel campo delle conoscenze cosmologiche e scientifiche. Del resto, mi pare che nessun autore abbia colto lo sgomento e la meraviglia dell’uomo quando mette piede sulla luna. Nemmeno Pirandello ha questa angoscia, perché non vive fino al ‘69, non c’è quando arriva la televisione, e poi l’elettronica, la telematica. Veda la differenza: Pirandello è legato essenzialmente al gioco a tre: lui, lei e un’altra persona. Io faccio lo stesso gioco, ma al posto di una persona metto la luna. Lui non poteva farlo, vivendo in un’epoca in cui tante percezioni non si hanno.
La sua attenzione verso gli elementi primordiali e avveniristici di tipo favolistico l’hanno però tenuta lontana dai temi stringenti siciliani, a cominciare dalla mafia.
Senta, diciamolo chiaro una volta per tutte: la mafia è soltanto un fenomeno delinquenziale comune a tutto il mondo. La mafia non è mai stata la Sicilia, che è fatta di contadini che lavorano dalla mattina alla sera, di madri che lavorano la notte lavando e cantando nenie, di asini. Gli asini sono la grande realtà della Sicilia: osservi gli occhi e senta come ragliano.
Beh, Greco “il papa” disse al presidente del tribunale la famosa frase: “Mafioso io? Ho chiesto al mio asino se conosceva il significato della parola”. 
La storia profonda della Sicilia l’ha fatta il suo asino non lui né quelli come lui. La mafia è una storia di superficie.
Ma i morti sono stati in Sicilia. E tanti. E di pagine nere ne sono state scritte tantissime.
Morti? Prenda lo sviluppo automobilistico. Due, tre mila morti l’anno. Per fare mille morti la mafia impegna cento anni. C’è stato un lungo periodo in cui si è parlato di mafia e solo di mafia: giornali, televisione, cinema… E’ stato come se per strada a un certo punto tutti gridano perché hanno visto un palloncino che vola. Tu vai a guardare e credi che la realtà sia quella. Ma la profonda realtà della Sicilia è la sapienza filosofica, la saggezza, la sopportazione.
Diciamo allora che lei non ha scritto di mafia perché non l’ha mai vista.
A Mineo e a Catania questa mafia non esisteva. C’erano ammazzatine, ma la mafia come organizzazione non me la ricordo. E comunque si ricordi sempre di Tangentopoli. Questi per rubare erano costretti ad ammazzare, quelli senza ammazzare rubavano. Non era quella la peggiore mafia? Quanto alle cose che scrivo, non sono d’accordo con la voga di valutare un autore secondo il suo impegno civile. Cosa ci ha lasciato Pasolini? L’inquietudine di un particolare momento di contestazione, una visione tardocomunista che poi è scomparsa.
Il fatto che vive da moltissimi anni fuori dalla Sicilia l’ha estraniata?
Indubbiamente mi ha cambiato. I miei figli sono nati a Frosinone e sono ciociari, non siciliani.
Secondo lei è giusto dire che si può strappare un siciliano dalla Sicilia ma non la Sicilia da un siciliano?
Sono tutti moduli di pensiero, slogan mentali che si ripetono eternamente: il siciliano è malinconico, ha paura della morte, è generoso, è ospitale. Non ci rendiamo conto che in tutto il mondo la gente è così. Diciamo che rimane dentro di noi la radice di fondo e la formazione educativa, ma tutto il mondo è Sicilia.
Non le manca dunque.
Mi manca la ricotta salata. Mi manca il carrettiere che vende acqua nelle brocche.
Ci pensa a Fiumecaldo, a Camuti, alla Stradalunga?
Ci penso solo quando scrivo.