venerdì 4 agosto 2006

Bonaviri, una favola in forma di parabola


Se tre anni fa Il vicolo blu aveva fatto pensare a un recupero della vena familiare - una delle tre tensioni in cui si declina la vocazione di Bonaviri, insieme con quella astrale e quella naturale - adesso L’incredibile storia di un cranio (Sellerio) rimanda prepotentemente alle sfere più agite della cosmogonia bonaviriana, a integrare una concezione di fantascienza mai frequentata da alcuno con gli stessi esiti: dove il fantasy performa la scienza in un geyser alimentato alla presa di carico dell’onirismo, della visionarietà e del visibilio.
Senonché in questa ultima prova (che pur riannodandosi all’originario protocollo dell’autore siciliano sembra adombrare un’intenzione sperimentale e innovativa) appaiono presenti elementi di tutt’e tre le polarità, giusto in ciò invalendo il fatto nuovo: nella combinazione (tenuta comunque entro quote olistiche, talché ogni parte conserva la sua genuinità) creata tra richiamo ai miti dell’infanzia, legame agli affetti parentali, fascinazione degli azzardi della scienza, attrazione verso le illecebre della natura, la «divina foresta» che in Bonaviri caletta fede e bellezza e che è all’origine del suo «dire celeste».
Entro questo quadro, a un repertorio di suggestioni che mantengono una loro immutabilità catafratta - i ricordi personali, l’ordine della natura - si contrappongono in una logica eleatica i mutamenti della ricerca scientifica nei modi di un nuovo «paradosso» che dispone da un lato il mondo fisso del pensiero e da un altro il mondo empirico transeunte e panico: dimodoché al Bonaviri che col cuore rinverdisce in un accanito sforzo di memoria il suo universo personale, al quale legare il ricordo del paesaggio naturale primigenio e immoto, fa da contrappunto il Bonaviri che con lo sguardo puntato sulle oltranze e le urgenze dell’oggi è tentato di rifare lo stesso mondo nella sostanza eraclitea di un continuo divenire che si costituisce in ricerca scientifica, innovazione, biochimismo.


Ma è davvero una ambivalenza la doppia marcia che Bonaviri osserva o non è piuttosto nel segno di una congiunzione tra ieri e oggi, pensiero e azione, ideale e reale, che lo scrittore si muove con passo che sentiamo incedere da decenni ma che solo ora ci appare vicino alla riuscita dell’esperimento di passaggio alchemico? Tant’è che proprio di «riti di passaggio» occorre parlare - come in effetti ha fatto la critica da Musarra in poi - se si vuole dare alla speciale ricerca in cui Bonaviri è da sempre impegnato nel chiuso delle sue escogitazioni di merlino naturae congruens, tra alambicchi di materia e distillati di spirito, il senso di una quête che pone come su un nastro di Mobius l’ossessione alla trasformazione e al divenire eracliteo contro la forza parmenidea alla cristallizzazione, all’incantamento e all’immortalità.
La reductio ad unum genus della visione tripartita bonaviriana raccoglie qui le insegne per ricomporre le conoscenze soggettive e collettive in una teoria della metamorfosi e dell’incantesimo che fa un pabulum indiviso di divenire e fissità, mettendo insieme Eraclito e Parmenide e compiendo l’ultimo rito di passaggio della lunga ricerca, dalla trilogia astrale formata da Notti sull’altura, L’isola amorosa e La divina foresta, fino alle ultime poesie di Giufà e Gesù
Non che in questa chiave L’incredibile storia di un cranio intenda rompere il prospetto di una costruzione consolidata, trattandosi ancora e viemmeglio di una apocatastasi che reitera modi, forme e contenuti già noti in Bonaviri, ma qui vediamo questi motivi rischierati in una prospettiva compiuta e sistematica, più felice e matura diremmo, perché sente dello spirito letterario più che della logica filosofica o del traitment scientifico. 
E se la ripresa del ciclo di trasformazioni cui Bonaviri ama inclinare con intenti fatti per elevare mitologemi (entro uno specchio di rimandi che risale fino ad Ovidio e al gioco olimpico delle incarnazioni) è anche qui rispettato, nella giustificazione di una selezione naturale - ove naturale è il disposto armonico di tutti gli esseri viventi, vegetali, umani e animali che siano - nuovo è invece il significato etico da darsi a questa parabola in favola, che involge il tema della clonazione e più in generale investe il dibattito sulla bioetica. Parabola abbiamo detto: perché simbolica è la fabula che Bonaviri monta con tocco lieve e grazia che riecheggia l’opera forse più vicina, La divina foresta, dove pure assistiamo a un processo palingenetico che combina vita e mondo, natura e cultura, scienza e coscienza: Fermenzo da personaggio-particella diventa pianta di borragine di nome Senapo per tramutarsi poi in un personaggio alato, un avvoltoio di nome Aponeo. 
Alla stessa maniera, in L’incredibile storia di un cranio (titolo allogeno nella tradizione bonaviriana per la presenza di un aggettivo posto in senso antifrastico e nei modi della letteratura stupefacente: di un avviso a non doversi credere una storia che vorrebbe disperdere le morgane) sei scienziati tentano di produrre nuovi cloni inseguendo chimere diverse: dall’innesto di vegetali e volatili dell’ornitologo israeliano Levis, che poi vagheggia uomini-alberi «combinando la linfa delle piante col sangue scorrente di esseri umani», alla creazione golemica di un unico essere che persegue il direttore del Biological Center di Harvard, Samuel Newton, il cui sogno è «un unico essere che vuole essere come la sintesi di tutte le cose esistenti, non più disperse o coagulate in oggetti o in alberi o in viventi». Con loro collaborano Porporina e Jehova, due giovani studiosi che ottengono di fondersi con la natura semplicemente amandosi.
«Non ti pare - dice lui a lei abbracciandola nel bosco - che ci stiamo trasformando in mandorli, in peri, in ciuffi d’erba pendula?» E Porporina (nome che richiama la polvere metallica necessaria a decorare piani e volumi, trasformandoli) sente che il suo corpo si espande finché, immersa nelle acque di Fiumecaldo (il corso d’acqua minenino caro al sistema «naturale» di Bonaviri e ora trasportato a Cambridge), come Aretusa nel fiume Alfeo si crede mutata e insemprata con Jehova in una nuova entità «che contenga la terra, il firmamento e l’alito di Dio». Ma è un’altra giovane, Iside, a sognare la trasformazione più vertiginosa: clonare il nucleo di una cellula di un capello di Toto (il nome dato a un cranio trovato nel deserto egiziano) con una propria cellula che diverrebbe la cellula contenitrice donde fare nascere una nuova vita: esperimento questo che entusiasma tutta l’équipe, decisa a creare una forma che sia umano-fauno-vegetale; esperimento altresì che evoca un’altra clonazione simile, quella cui diede luogo Iside rianimando il cadavere di Osiride il tempo necessario per concepire un figlio. 
Ma Jehova, lo scienziato cretese di Minoa (nel quale si identifica il mineota Bonaviri che soffre delle stesse ossessioni e degli stessi malesseri notturni), inventore della «transferasi antirigetto universale», principio base di ogni possibile clonazione, guadagna grande fama ma perde la ragione di fronte alla domanda se «ai fini del progresso umano fossero più importanti le scoperte e le realizzazioni biologiche oppure quel vorticare di sofferenze della gente comune» come nel caso delle stragi terroristiche che dilaniano il mondo. Alla fine Jehova non tornerà a Creta perdendosi nel mondo che si ribellerà morfologica mente all’ultima clonazione. È così che quel Coelho italiano che è Bonaviri, altrettanto spirituale, ma con l’aggiunta di una forte dose immanentistica di scienza, ripristina il mondo in un punto medio d’equilibrio tra etica ed estetica. Salvandolo.