mercoledì 23 agosto 2006

"Crypto" di Brown, techno thriller di una chanson de geste


Da dove Dan Brown poteva mai cominciare il suo viaggio di scoperta del mondo (che lo ha portato a due romanzi scientifici, Crypto e La verità del ghiaccio, e a due umanistico-esoterici, Angeli e demoni e Il codice da Vinci) se non dall’elemento base, cioè l’anello, che ha ispirato la cultura norrena come quella mediterranea, facendo incrociare il mito classico con la materia bretone?
L’anello di cui si impossessa Sigfrido nel Cantare dei Nibelunghi per accrescere le proprie forze è lo stesso che, per rendersi invisibile, Bradamante strappa al saraceno Brunello nell’Orlando Furioso; e sempre un anello, che dà insieme poteri e invisibilità, è il motivo che muove le fantastiche avventure tolkiniane di Frodo. Cosa fa Brown? Recupera questo oggetto e ne fa il must di quello che è il suo romanzo d’esordio, seppure arrivato per ultimo in Italia. Anche in Crypto infatti la caccia all’anello sottende la conquista di un potere che di magico, rispetto alla concezione eddica e rinascimentale, ha oggi conservato il significato di dominio, mentre la forza non si esercita più con l’imposizione o l’ostentazione ma si esperisce con l’applicazione che dell’anello si faccia in un sistema informatico.
Ora dunque sappiamo che sin dai primi passi Brown ha chiaro il modello narrativo: è quello che gli deriva dalla tradizione epica, dai cicli della quête e del mistero di tipo arturiano e celtico, il pabulum dove sono nati il Graal, Excalibur, la chanson de geste e prima ancora gli argonauti e i poemi omerici.


Rifacendosi alla più duratura e consolidata mitografia, aggiornandola con qualche spunto moderno, Brown entifica un gusto che si precisa oggi nel «romanzo di variazione», il cui wit è di combinare invenzione e documentazione, storia e leggenda, credenza e finzione in un disposto che porta a stadi avanzati il processo di sviluppo del romanzo come genere capace di accogliere ogni trattamento e digressione. Se il successo letterario è arriso a Brown solo con l’ultimo di una serie ripetuta di tentativi della stessa portata, appena corretti, è perché Il codice da Vinci, rispetto ai primi tre, è il romanzo che meglio e più a fondo mutua la materia epica protendendosi fino a raggiungere il cuore della matrice esoterica. Ma i precedenti titoli più che dei conati sperimentali vanno visti alla stregua di stazioni di avvicinamento e di guadagno, poste di verifica e collaudo di un prototipo in fase di rodaggio e definizione. Non è infatti un mero esercizio di rifacimento l’esito che ognuno dei tre romanzi successivi a Crypto sortisce nel ripetere una sempre identica fabula, servendosi di figure che diventano maschere per la loro immutabilità e reiterando logiche, giri narrativi, scene e svolgimenti che ubbidiscono a uno scioglimento invariato.
Più che come rifacimento ogni romanzo si è piuttosto andato costituendo come versione migliorata dello stesso modello fino al raggiungimento del massimo risultato. Sicché in Crypto si possono individuare temi e motivi che ritroviamo nel Codice da Vinci con la facilità con cui è possibile rintracciare nell’aspetto di una persona adulta i segni della sua fanciullezza. A metà degli anni Novanta, quando il computer si erge a grande seduttore dell’umanità nelle vesti di novello Merlino, il trentenne Brown crede che sia il groviglio dei suoi chip a rappresentare il fatto nuovo capace di destare non solo interesse ma anche e soprattutto meraviglia, quella stessa meraviglia che per secoli ha fatto, e continua a fare, la fortuna della narrativa d’avventura ed epico-allegorica. E pensa che il gusto del pubblico vada soddisfatto spicciolando in un techno thriller il vecchio cantare popolare.
Crypto nasce dunque da questa sfera di intenzioni che però deflagra in un golem narrativo nel quale la presenza dell’apparato tecnico, non avendo la stessa forza di quello spiritualistico, lascia da solo il thriller a profondere suspence, non facendo alla fine che riprodurre tirate già viste proprio e soprattutto in America, oggi soprattutto con Deaver e Grisham. In Crypto lo spettro orwelliano del Grande Fratello non integra tanto un mistero quanto un ancipite incubo moderno: da un lato il timore di svuotare di senso il credo della privacy e da un altro l’incognita che la perdita di banche dati comporterebbe circa la sicurezza nazionale. Un hacker intende violare il sistema informatico superprotetto della Nsa (l’agenzia di spionaggio di cui poco e niente ancora oggi si sa) in nome di una libertà individuale che negli States è tanto sacra quanto lo è, dopo soprattutto l’11 Settembre, il bisogno di uno scudo antiterroristico. Brown ci racconta questo conflitto (che nel ’98 non è ancora compreso nel significato attuale di alternativa drammatica tra licenza e divieto di intercettare telefonate, Sms ed email) e non può non rifarsi a quello che allora è visto come un mistero impenetrabile: l’esistenza di «Echelon», il più grande sistema clandestino di intercettazioni messo in essere da Washington a livello mondiale e controllato dall’ancora più clandestina National Security Agency, proprio della quale Brown ci svela logiche e programmi.
Oggi sappiamo, grazie al recentissimo Intercettare il mondo (Einaudi) di Patrick Radden Keefe, che Brown vide benissimo quanto fosse insaziabile la voracità della Nsa di conoscere tutto di tutti e quanto questa aspirazione fosse ritenuta importante ai fini della sicurezza nazionale. In dieci anni, con il miglioramento e la diffusione dei mezzi tecnologici, il contrasto tra le due opposte dottrine, privacy e security, si è esasperato sicché Crypto giunge nel momento in cui il dibattito, anche in Italia, è diventato vivissimo. Il romanzo sembra dare ragione al primato della sicurezza se alla fine il sistema informatico si salva e i dati segreti non finiscono nel web, ma Brown non nasconde simpatie per le ragioni opposte: e forse perché la sua posizione più sincera è a metà delle due teorie non riesce a distinguere con precisione il bene e il male, per cui una crittologa come Susan Fletcher, che non meno del fidanzato David Becker (copia, anzi modello del futuro Robert Langdon, dove Susan anticipa sia Sophie Neveu che Vittoria Vetra) sembra una convinta sostenitrice della causa della privacy, si ritrova a promuovere accanitamente le ragioni della difesa militare insieme con tutto lo staff della Nsa, mentre solo, a reiterare fino al sacrificio della vita la nobile istanza del rispetto della personalità individuale, viene lasciato un immigrato giapponese reso deforme dagli effetti di Hiroshima, animato da propositi vendicativi contro il progresso della scienza e dunque posto sotto una luce negativa. E, per soprammercato, ad aspirare al possesso dell’anello che custodisce il potere difeso dalla Nsa senza scrupoli e con molta spregiudicatezza è un «cattivo» che non è americano ma anch’egli giapponese. Un trattamento, quello di Brown, come si vede molto americano. Come di tipo americano è il plot: ancora una volta improbabile e agito sull’escalation dei colpi di scena: un’escalation troppo vertiginosa e forsennata.
I colpi di scena producono un bell’effetto quando non sono frutto del caso: ma se troviamo che David Becker, messo alla caccia del fantomatico anello (nella Siviglia che Brown conosce bene perché ci ha studiato da giovane storia dell’arte), incontra la ragazza punk che cerca disperatamente nei bagni dell’aeroporto, per giunta sbagliando perché finisce guarda caso in quelli femminili, allora il romanzo non è più un thriller ma una commedia.