sabato 16 settembre 2006

In morte di Oriana Fallaci, la libertà come dovere



Sulla tomba del matematico Ludwing Boltzmann campeggia un epitaffio in forma di complessa equazione matematica: teorizza la cosiddetta «costante di proporzionalità», secondo la quale i dettagli microscopici del sistema sono in relazione con il suo stato macroscopico.
L’idea centrale della meccanica statistica e la visione entropica della vita - votata a un ineluttabile e progressivo degrado dentro però una logica di conativa conservazione - sono espressamente richiamate da Oriana Fallaci in Insciallah, dove nella prefazione il «professore» presenta il romanzo che ha cominciato - ambientato nella Beirut del 1983, in mezzo alle due stragi, tra i cani con cui prende le mosse - dicendo di volerlo scrivere «seguendo il filo conduttore di una equazione matematica, cioè dell’S = k in W di Boltzmann». Ma è in tutta la sua opera che la Fallaci tiene presente questa teoria. Che integra l’osservazione dello stato permanente del mondo (dove ogni fatto privato, sia pure minimo, è riconducibile alla grande genesi della storia) con il vagheggiamento di un ideale: la scoperta della formula della vita, proprio ciò che vuole ottenere Angelo, il protagonista di Insciallah, che è paragonato all’amletico scudiero di Ulisse.
La ricerca del senso della vita, infaticabile e testarda, ha costituito la missione privata cui la Fallaci ha dedicato la sua vita pubblica e la sua intera opera. Fino a dire: «Chi ama la vita è sempre con il fucile alla finestra per difenderla». Lei ha amato la vita come può fare solo chi riesce ad amare anche la morte e parlarne con la lucidità e la serenità delle quali tutto il mondo è stato costretto a prendere atto quando ha letto le pagine del suo ultimo testamentario libro: Intervista a sé stessa, titolo che rinnova il precedente Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci; il libro dove, senza disagio alcuno e con una forza d’animo che può venire solo da una incrollabile fiducia nella ragione, l’autrice aggiorna il mondo circa lo sviluppo del suo cancro ai polmoni, della malattia sull’altare della quale sa di dovere sacrificare la sua anima indomita ed eretica, vedendo se stessa nel sembiante di un Mozart che moribondo a letto detta il suo ultimo Requiem al suo più odioso nemico, Salieri; il libro in cui la sua avversione all’Islam raggiunge toni talmente accesi ed esasperati da farla cadere in stati di delirio e di confusione mentale, procurandole sviste del tipo di quella, passata in proverbio, secondo cui i musulmani crocifiggevano i cristiani maroniti dopo aver loro mozzato gli arti - lasciando però di spiegare come sia possibile crocifiggere un persona senza mani e piedi.
Un’avversione che è andata sempre più rinfocolando da quel giorno in cui, vedendo dalle sue finestre di Manhattan le lunghe volute di fumo levarsi dalle Twin Towers, prese atto che la democrazia più potente del mondo, nel seno della quale aveva deciso di vivere per sentirsi al centro della vita e della terra, alzava le mani di fronte al nemico più temibile e terribile. Avversione? Più esattamente rabbia e orgoglio, i due sentimenti che in endiadi sono diventati i vessilli della coscienza occidentale, alla quale il titolo di quel suo libro, giunto a rompere un silenzio che durava da dieci anni, fece da tromba tirtaica che chiamasse a una nuova crociata. Sicché sono destinate a rimanere celebri le parole con cui, pochi giorni dopo l’attacco terroristico, Oriana Fallaci raccoglieva l’invito del direttore del "Corriere della Sera" a pronunciarsi: «Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio».
L’ha fatto eccome: con effetti che solo un profeta può conseguire, con un prorompimento nella sensibilità delle masse di tutto l’emisfero occidentale rimasto ineguagliato. Esercitando un magistero che le veniva dalla professione giornalistica sì, ma anche dalla sua filosofia vitale e giansenista, dal rigore morale che non le faceva temere la ritorsione e la persecuzione, un magistero cui diede un nome preciso: ragione. E La forza della ragione fu il titolo di quello che doveva essere nel 2003 una semplice appendice a La rabbia e l’orgoglio, da intitolarsi "Due anni dopo", una specie di Post-scriptum che però nelle mani rabbiose e concitate dell’autrice si è gonfiato fino a diventare un nuovo pamphlet, ancora più violento del primo: «Stavolta non mi appello alla rabbia, all’orgoglio, alla passione. Mi appello alla ragione» scrisse in forma di annuncio. Quella ragione che le suggerì, dopo le minacce di morte seguite al precedente libro, di prendere a braccetto Mastro Cecco, arso vivo dall’Inquisizione per colpa di un libro di denuncia: novella Mastra Cecca che si sente destinata a salire sullo stesso patibolo sette secoli dopo e in fondo per le stesse ragioni di intolleranza e oscurantismo. E’ con questa carica di rabbia che la Fallaci alza l’indice accusatore contro la sua stessa civiltà, battezzando l’Europa «Eurabia», perché incapace, come gli stessi Stati Uniti, di fronteggiare l’emergenza costituita dall’insorgenza islamica.
Rimasta ferma in un silenzio di lunghi anni (nei quali di tanto in tanto trapelavano indiscrezioni circa il nuovo romanzo che la stava duramente impegnando e che poi è stato abbandonato) per assecondare - in una stagione improvvisa e dirompente - urgenze impreviste ed epifaniche, Oriana Fallaci si è ritrovata, di fronte alle Twin Towers sepolte sotto la polvere, a cambiare di colpo pelle e profondersi in un’iniziativa che ha assunto via via il senso di un credo: «Vi sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre».
Il nuovo comandamento al quale si è votata l’ha poi spinta a concludere la "Trilogia" con l’Intervista a sé stessa, dove il cancro che la divora è lo stesso che dilania l’Europa di oggi, vista nello specchio dell’Europa del ’38; e dove, in una vertiginosa partenogenesi di livore, veleno e rancore, compare un altro ampio Post scriptum, cento pagine intitolate "L’apocalissi" che, rifacendosi al testo biblico di Giovanni, danno la misura non solo della sua visione derelettiva del mondo, di un destino di tracollo e deriva, da alba di Armageddon, ma anche della sua insaziabile spinta a condurre da sola, cassandra pressoché inascoltata ma divinatoria, la sua guerra sacrosanta contro l’Islam. Una autointervista che può essere posta idealmente come ventisettesima nel libro Intervista con la storia, raccolta di colloqui con i potenti della terra degli anni Settanta che si conclude con Alekos Panagulis, il ribelle che è stato, anche dopo morto, il suo angelo e il suo demone.
C’è in realtà un legame che altri non vedono tra la ditirambica Fallaci che avvelena i rapporti Est-Ovest e la giornalista tentata dall’invenzione narrativa. La sua vocazione all’invettiva, quasi una chiamata messianica, non è infatti nuova, ma si colloca lungo una linea di coerenza sulla quale possono essere schierati libri come Niente e così sia e Penelope alla guerra, dove le ragioni dell’impegno civile uniscono le cime con la coazione a creare un mondo immaginario, a dire una verità che la realtà non può esprimere, a farsi insomma narrazione. Niente e così sia, resoconto del primo anno di guerra in Vietnam, a testimoniare fatti epocali quali l’offensiva del Tet e l’assedio di Saigon, diventa atto d’accusa di tutte le guerre, metafora rovesciata di un sentimento convulso e confuso che in un libro uscito appena un anno dopo, appunto Penelope alla guerra, vede una donna, chiamata Giò, rifiutare la condizione subordinata di essere umano impossibilitato a decidere la sua vita e prendere coscienza intestandosi una sua guerra personale contro il mondo. E proprio Giò, moglie anti-Penelope, è la stessa donna che dieci anni prima ha incarnato la madre di un bambino mai nato cui lei scrive una lettera per stabilire non solo la sua libertà di venire al mondo ma anche la propria libertà di averlo. Qui e là, a guidare la mano della Fallaci è una istanza sorgiva di verità, la stessa verità che lei stessa mette in capo al romanzo-vérité del ’79 che è Un uomo, libro dettato direttamente dal cuore per la perdita di Alekos, libro ideologico come pure idealistico, laddove chiara è l’intenzione di scrivere «sull’eroe che si batte da solo per la libertà e la verità, senza arrendersi mai, e per questo muore ucciso da tutti: dai padroni e dai servi, dai violenti e dagli indifferenti».
Sicché ecco il cuore della sua vicenda: la Fallaci è andata sempre alla ricerca proprio di eroi, correndo il mondo per scritturarli in una moderna tragedia greca: vedendoli in mogli ribelli, in madri anticonformiste, in guerriglieri liberali, in statisti illluminati, in generali ricchi di umanità, in uomini che hanno opposto le bandiere della pace a quelle della guerra, «la più bestiale idiozia della razza terrestre». Ma ha trovato i suoi eroi anche in uomini come gli astronauti ai quali ha dedicato nel ’65 Se il sole muore (struggente componimento nato da un periodo trascorso con i neoargonauti diretti nello spazio alla conquista di una luna ancora lontana, immaginati alla ricerca di un bene extraterrestre nel timore che il sole possa morire, suadente allegoria di un mondo sospeso e franto che nella tecnologia ripone la speranza di nuove risorse) e cinque anni dopo Quel giorno sulla luna, fedele reportage dell’allunaggio, gravido più di suggestioni che di notizie, vissuto con l’animo di chi si apre con ottimismo al futuro. Eroi sono dunque i personaggi dell’autrice che agli esordi scrive libri come I sette peccati di Hollywood, Il sesso inutile e Gli antipatici come tirocinio all’esercizio del disprezzo nei confronti dei divi, delle donne remissive e degli attori bons vivants. E’ un disprezzo verso l’umanità rinunciataria ed effimera, codarda ed epicurea, che le viene dalla lezione imparata dal padre, eroe antifascista che prima la utilizza, bimba appena decenne, come vedetta e poi la recluta come volontaria nel movimento clandestino di resistenza. Un’educazione alla vita che le farà dire: «Un essere umano che si adegua, che subisce, che si fa comandare, non è un essere umano». E soprattutto: «La libertà è un dovere prima che un diritto».
Solo un altro grande italiano, giornalista anche lui, fiorentino, cosmopolita, anche lui sacerdote e guerrigliero della libertà, le può essere accostato come fratello d’intenti: Tiziano Terzani. Col quale chissà che non sia adesso insieme.