lunedì 11 agosto 2025

Bufalino e il bluff di parole del suo epistolario


Il carteggio tra Gesualdo Bufalino e Marcello Venturoli (Edizioni Archilibri, 2022), curato da Giulia Cacciatore, Fra i miei occhiali e i tuoi occhi, più che fare maggiore luce sullo scrittore comisano getta su di lui ombre inattese. Rivela un Bufalino che già si conosceva, refrattario dopo aver raggiunto il successo a sostenere concretamente presso editori ormai a lui vicini altri scrittori, anche se amici e concittadini.
In una lettera dell’11 aprile 1991 il critico d’arte, poeta e narratore romano, di cinque anni più grande, gli chiede se può aggiungere qualche riga in più allo sbrigativo commento, peraltro privato, sul suo manoscritto Il segno della madre, dopo avergli praticamente confessato di essere disperato per i troppi dinieghi ricevuti dagli editori con “pretesti iniqui” e chiesto aiuto con parole inequivocabili: “Un romanzo inedito, nel cassetto, specie quando è riuscito, quando esprime davvero un quadro profondo della tua esistenza, non pensi che sia dovere pubblicarlo e nel migliore dei modi, perché sia letto?”.
Bufalino gli risponde qualche giorno dopo con tono tranchant e pilatesco: “Temo che dovrai perdonarmi, ma dirti del tuo libro più delle poche righe che ho scritto vorrebbe dire affrontarlo da saggista, ripercorrerne le pagine, i motivi, fare insomma quello che non tanto generoso affetto e tanta acutezza tu hai fatto più volte con me. Non ne sono capace”. Naturalmente non è vero, perché l’elzeviro è uno dei suoi punti di forza e ne sarà prova Cere perse; del resto subito dopo corregge il rifiuto adducendo altre motivazioni, praticamente ammettendosi saggista: “Io, oggi come oggi, non ho né le forze né il tempo ma soprattutto la serenità per un compito che richiede appunto forze e serenità”. Dunque non capacità.
Quanto alla preghiera di aiuto, non tanto implicita, a trovargli un editore, Bufalino lo scoraggia senza riserbo: “Riguardo a possibilità editoriali, sebbene tu per tua nobile discrezione non ne faccia cenno, devo dirti che coi Sellerio sono in rapporti di gelo totale, per averne subito torti e inadempienze varie. Con Bompiani, se non hai spedito nulla, prova. Io dirò volentieri una parola, anche se in tre occasioni precedenti la mia raccomandazione è servita solo ad accelerare di una o due settimane la risposta negativa”.
Eppure agli inizi del 1979, l’anno dopo la pubblicazione di Comiso ieri, album di foto d’epoca ritrovate in una villa e commentate per Sellerio, fu Bufalino, ancora oscurissimo insegnante di provincia, a mandarne copia al noto critico d’arte – così come ad altri - chiedendone un parere, rectius una recensione su “Paese sera”, ricevendone una gentilissima lettera di vive e sincere congratulazioni per il suo testo.
Marcello Venturoli
Comincia così, per iniziativa di Bufalino, un epistolario che si concluderà nel 1996 con la morte dello scrittore, costruito su un rapporto che parte da una posizione di forza di Venturoli e matura per mutarsi nel suo contrario. È Venturoli a sostituire il lei con il più familiare tu ed è sempre Venturoli ad autorizzare Bufalino a spedirgli i suoi manoscritti dei quali lo scrittore non ha appena mancato di parlargli: “Leggerò piano piano, uno alla volta, i tuoi inediti e vedrò di che si tratta, come lettore prima di tutto; tu sai che la mia autorità nel campo della letteratura è pressoché nulla. Ti ci vorrebbe ben altro amico per combinare qualche cosa. Ma non si sa mai. Quindi mandami il primo dei tuoi lavori che credi più espresso”.
E Bufalino (che gli ha scritto dei suoi “cadaveri nel cassetto” precisando di volerne essere il solo lettore e la cui pubblicazione ha sempre preferito che nascesse dalle occasioni, sentendosi “troppo vecchio per cercarla impetuosamente”, quando ha appena detto che, fra le altre cause che lo hanno fermato, figura “la difficoltà di accesso alle segrete macchine editoriali”), non gliene manda uno ma due: Diceria dell’untore e Il guazzabuglio, entrambi accompagnati addirittura da note editoriali che fungono da risvolti di copertina, secondo una prassi che andrà consolidando perché nulla di proprio debba delegare ad altri.
Dopo dunque essersi vantato di aver preteso da Sellerio che gli autori di Comiso ieri risultassero i fotografi autori delle istantanee (salvo nel 1992 ripubblicare il libro con il titolo Il tempo in posa e tanto di rivendicazione di paternità), proprio per mantenersi segreto, ignoto, appartato, Bufalino affida le proprie chances a Venturoli, che dal canto suo gli fa avere la sua silloge di poesie Il fiore buio.
Bufalino accoglie l’invito ad essere letto con pudore, dicendo di aver esitato a lungo a rispondere – solo venti giorni - “combattuto tra il desiderio” gli scrive “di dirti subito grazie per la tua liberale partecipazione a un destino straniero e un’ispida, immediata, quasi animalesca, sindrome di difesa”. Anzi si dice sollevato che abbia una “irrilevante forza d’intervento sul mercato editoriale”. Aggiungendo: “Mi chiedo se non mi convenga meglio obbedire ai calcoli della mia igiene privata, restando a covarmi in eterno la mia opera, per il niente che vale, piuttosto che preoccuparmi di divulgarla (un’operazione di bassa lussuria)”.
Lasciando di capire perché allora gli ha spedito Comiso ieri se non per lussuria (Venturoli essendo davvero uno straniero per lui, sia pure ammirato per i suoi scritti d’arte) e perché, vincendo in scioltezza ogni perplessità, gli recapita anche due manoscritti, uno dei quali peraltro ancora in stato embrionale, tale che non uscirà mai e servirà solo come materiale in altre opere fra cui Tommaso e il fotografo cieco, Bufalino incassa signorilmente la critica a Il guazzabuglio (il primo dei due inediti che Venturoli legge, perdendosi l’occasione di essere il lettore numero uno del prossimo Supercampiello) e si schermisce come al solito: “Arrivo a credere che la pubblicazione [cosa alla quale però Venturoli non ha fatto cenno alcuno, nda] e l’improbabilità di una risonanza turberebbero queste chimiche delicate, sicché non escludo che l’illeggibilità e la faticosa dattilografia e le male fotocopie ecc. non siano involontarie come paiono, ma rappresentino difese inconsce e uscite di sicurezza”. Il riserbo addotto addirittura come causa dell’inadeguatezza del testo.
Poi, leggendo la plaquette lirica di Venturoli, Bufalino si esibisce in un articolo di critica così raffinata e competente che l’autore di Ostia si rammarica di non averlo avuto al posto della prefazione di Giudici e gli chiede perciò se può pubblicarlo da qualche parte. La risposta tradisce lo scrittore ancora molto lontano dalle luci della ribalta: “Ma dove pubblicarlo? Io non ho entrature di sorta. Un periodico di qui su cui scrivevo di tanto in tanto è morto di recente, e del resto aveva fioca risonanza”.
In realtà Bufalino è fuori da ogni giro editoriale e lontano dai giornali. Dice la verità a Venturoli, al quale però poi parla, a dispetto di ogni discrezione inalberata come bandiera, di un suo altro libro, “Museo del personaggio”, sul quale il critico si permette, dal posto di maggiore autorità che detiene, di sciorinare consigli fornendo anche delle linee di sviluppo che Bufalino accoglie e per le quali ringrazia.
Venturoli comincia a leggere Diceria dell’untore solo agli inizi di giugno del 1980 e in volume, giacché è uscito da due mesi, e ne rimane colpito, rivelandosi profetico: “Credo che stavolta ci siamo, avrai successo”.
Ma quel che è successo lo rivela la curatrice, Giulia Cacciatore, pubblicando un passo della lettera spedita tra la fine del ’79 e l’inizio dell’80 a Elvira Sellerio accompagnando il manoscritto Diceria dell’untore, che dunque nello stesso periodo spedisce sia a Venturoli che alla signora siciliana dell’editoria: usando peraltro le stesse identiche parole, salve leggere variazioni di dettato, dal tono aulico, leggiadro, compiaciuto, nel solco della sua cifra più riconoscibile.
Il libro ha immediato successo in libreria e il 12 aprile Venturoli gli scrive: “Carissimo Dino, puoi immaginare la gioia che sto provando al boom di Gesualdo Bufalino! Ripercorrendo le date della nostra amicizia alla luce della sua oscurità! Tenerezza, orgoglio che uno di noi – pure restando quella persona umana di sempre – sia così nazionalmente conosciuto”. 
A settembre dello stesso 1981 Diceria dell’untore vince il secondo premio letterario più importante d’Italia e da quel momento la bilancia dei rapporti tra Bufalino e Venturoli comincia a pendere dal lato del primo, tanto che, commentando Libro di Giona di Venturoli, Bufalino sale in cattedra ed è lui stavolta a bocciare l’amico: “Ci sono dentro tre o quattro romanzi. È una ricchezza ed è un limite. Il folto degli ingorghi psicologici, il gioco degli incastri (lettere, diari, passaggio dall’informale senza punteggiatura al dialogato-mimetico), tutto ciò lascia ammirati ma frastorna un po’”. Venturoli ringrazia e chiosa: “Ogni tua osservazione, così schietta ed esperta, mi sarà utilissima”.
Poi arrivano anche gli screzi, quando Venturoli si lamenta del pittore siracusano Gaetano Tranchino con il quale Bufalino lo ha messo in contatto e del quale il critico si è occupato scrivendo degli articoli e alla fine presentandogli il conto. Trachino nemmeno gli risponde e Venturoli spedisce l’incartamento come prova dell’inadempimento a Bufalino, che una prima volta risponde di non aver nessuna intenzione di fare l’arbitro e la seconda è lui a lamentarsi: “Quando ti ho segnalato Tranchino non pensavo che dovesse instaurarsi fra voi una situazione arista-critico di tipo professionale, ma volevo solo indicarti una pittura interessante”. Venturoli si giustifica scrivendogli di avergli mandato il dossier per dare al silenzio un volto. “Gliel’ho dato e mi basta” scrive, ma già ha fatto notare che non si occupa di artisti per diletto: “Per fortuna mia e degli amici artisti, mi pagano tutti, diamine”.
L’episodio certamente increscioso dirada la corrispondenza, soprattutto da parte di Bufalino, che di lì in avanti scrive qualche lettera laconica e veloce al contrario di quelle più lunghe e frequenti del critico d’arte. Il quale alla fine del 1984, in vista della pubblicazione di un suo libro di poesie, chiede a Bufalino “tre quattro pagine di introduzione” e ne ha per risposta un elenco di impegni per i successivi tre mesi: “Mi chiedo: può entrarci, in una valigia così piena, il tempo che dovrei, vorrei dedicarti? Allora ti dico: se i tuoi tempi sono urgenti, no. Altrimenti sì, sempre che la tempesta passi e nessun’altra sopravvenga. Vedi tu, giudica tu”. E Venturoli dice che lo aspetterà. Capisce che l’attesa vale la firma di Bufalino su un suo libro.
Venturoli continua a scrivergli, ma Bufalino diventa sempre più elusivo e stringato, accampando impegni: solo una lettera nel 1986 e un’altra nel 1988. Risponde successivamente nel 1990 per ringraziare delle lunghe note critiche dell’amico ai suoi ultimi libri e per confessarsi deluso del suo stato di autore di successo in “una società letteraria che sempre più si modella a quella politica e in cui non contano quasi più le opere ma governa, gigantesco e sovrano, il Pettegolezzo”.
L’ultima lettera è senza data, ma sicuramente del 1995: “Sono stanco e sempre più disincantato. Ho cessato ogni militanza pubblica (ma continuo a scrivere, a futura memoria) e cerco nell’apartheid volontaria la noia di cui ho bisogno, come una medicina”.
L’epistolario raccolto dalla Cacciatore non ha suscitato i commenti e le reazioni che meritava. La stessa curatrice si mantiene arretrata rispetto ai temi che lo animano e non coglie le tante contraddizioni di cui Bufalino fa mostra. Appare chiaro che non risponde al vero la vulgata da lui affermata che non volesse pubblicare, perché non ha fatto che cercare la strada per riuscirci. A trattenerlo non è stato certo il timore di cadere nella bassa lussuria, bensì la sua ossessione per l’esattezza, non solo della parola ma dell’intero suo opus. La spinta incoercibile a riscrivere, correggere, limare, da alzarsi di notte per aggiungere una virgola, lo hanno costretto a un immobilismo fatto di insoddisfazione e di ricerca del miglioramento.
Emerge nello stesso tempo la figura di un uomo apparentemente umile e modesto ma essenzialmente preso da una grande considerazione per sé stesso. Un uomo che ha profondamente innovato la letteratura italiana dimostrando che la forma non viene dopo il contenuto: tutti i suoi libri sono infatti poveri quanto alla trama e ricchissimi per lo stile ornato, spumeggiante, ricercatissimo e sofisticato. Anche nell’epistolario con Venturoli la sua scrittura è sorvegliata, baroccheggiante fino al rococò, seducente e strabordante. Non solo Bufalino scriveva in questo lessico, ma lo parlava anche. Dentro quel fantastico affabulatore smaniava però, lo apprendiamo ora, un gesuitico campione della mistificazione, che deciso a dare di sé l’immagine di un autore segreto e riluttante a rendersi pubblico si convinse tanto che lo fosse da riuscire ad apparire in tale cotta.
Il prezioso lavoro della Cacciatore dà conto anche di una lettera a un imprecisato editore del Nord al quale vuole fare avere, proprio nel 1979, la sua Diceria firmandola solo con le iniziali così da vederla semmai pubblicata anonima in un rigurgito di riservatezza. La lettera di accompagnamento riporta passi contenuti in quella a Sellerio e nell’altra a Venturoli. Ma non è stata mai spedita, perché non ha mai pensato di essere davvero uno scrittore segreto.