giovedì 24 dicembre 2015

La mafia vista da Palermo e da Catania


I magistrati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita
Perché un magistrato ad un certo punto sente di dover comunicare con la gente e di scrivere un libro non memoriale ma testimoniale? Lo fece Giovanni Falcone. Lo ha fatto Piergiorgio Morosini. Anche Pietro Grasso da superprocuratore ha firmato un libro-intervista. E quest’anno hanno pubblicato due volumi molto contigui, anche se rivolti ad ambiti di riflessione e di ricostruzione storica diversi, il palermitano Nino Di Matteo e il catanese Sebastiano Ardita. 

Scrivono quei giudici e magistrati, ma più questi che quelli, che sono impegnati sul fronte mafioso e si addicono perlopiù a farlo quando sentono che il cerchio di isolamento si stringe o la loro condizione di stress, di solitudine e di impotenza si fa insopportabile. Nel caso di Di Matteo e Ardita, entrambi dell’ufficio del pubblico ministero, una lunga esperienza alla Dia e una conoscenza profonda di Cosa nostra palermitana e catanese, a spingerli ad esternare è stata un’esigenza di chiarificazione e di riflessione che, esperita in prima persona, non ha escluso nel suo svolgimento anche un giudizio critico sulla stessa magistratura che, negli anni Settanta e Ottanta, entrambi non esitano a condannare come sostanzialmente collusa.
Colpisce come unitario sia lo sguardo dei due magistrati, sia pure distanti e appartenenti a due mondi territorialmente e anche culturalmente differenti. Concordano nel ritenere che dopo gli anni delle stragi la coscienza siciliana non meno di quella nazionale, insieme con la reazione dello Stato e dei suoi apparati giudiziari e di polizia, fu ferma e determinata nell’affrontare l’insorgenza mafiosa, passando, come dice Di Matteo, dalla difesa all’attacco. Ma si trattò di una breve primavera, perché tempo dopo questa spinta emotiva e civile ha esaurito la sua carica consentendo una forma di restaurazione della mafia che si è riproposta sotto vesti e strategie nuove. 
Nel suo libro intitolato Collusi, Di Matteo osserva che si sono avuti due fenomeni dopo gli anni 92-93: prima una campagna di stampa nazionale concertata contro alcune indagini eccellenti e contro il perpetuarsi del pentitismo visto non più come efficace strumento di lotta ma come arma che alcuni giudici hanno brandito esagerando e incorrendo in gravi errori giudiziari; poi la riforma della normativa sul pentitismo che è stata sterilizzata riducendo la differenza di pena tra irriducibili e collaboratori. Ma è anche da precisare che il fenomeno del pentitismo, altrimenti noto in ambito giuridico come “legislazione premiale”, è esso stesso una forma di trattativa condotta tra lo Stato e il singolo mafioso, un patto di scambio che in realtà può mascherare ogni intento, non ultimo, come osserva lo stesso Di Matteo, quello che spinge il mafioso a collaborare per avere più informazioni sul conto dell’apparato giudiziario e seguirne da vicino le mosse.
Di Matteo annette molta importanza, sul piano dei risultati nella lotta alla mafia, al pentitismo e alle intercettazioni, che ritiene gli strumenti di maggiore successo, preferibili ai mezzi di indagine bancaria cari a Falcone e Borsellino. Eppure è sempre a quegli anni, che sono gli anni della Trattativa Stato-mafia, che Di Matteo torna, pur entro una cortina di diffidenza e ostilità, da lui denunciata, che cerca di minare l’utilità di un’indagine giudicata del tutto passatista e che Berlusconi stigmatizzò da premier definendola “uno sperpero di risorse pubbliche”. Proprio perché accusato di tenere lo sguardo all’indietro, Di Matteo sembra aver scritto questo libro, contravvenendo alla sua ferma propensione a tenere il più severo riserbo sulla sua attività, per spiegare le ragioni di una necessità non diretta a fare luce su remote pagine di storia ma valida a capire gli attuali equilibri e gli oscuri rapporti sorti tra Cosa nostra, pezzi dello Stato e sfere della società imprenditrice. Non a caso Di Matteo ritiene centrale - e vi fa continuo ricorso - l’insieme di colloqui che Riina nell’estate di due anni fa ebbe con un altro detenuto nel carcere di Opera. Se il capo dei capi considera necessario tornare a quegli anni e parlarne magari per essere intercettato e ascoltato, così da introdurre nuovi elementi sullo scacchiere Stato-mafia, perché la società, la politica e le istituzioni debbono invece ritenere chiusa quella stagione?
Anche Ardita, studiando la mafia etnea, torna nel suo libro, Catania bene, a rivangare vicende e fenomeni oggi storicizzati. E lo fa nel presupposto che Cosa nostra è nel nostro tempo il portato di quella di ieri, ma soprattutto per neutralizzare gli sforzi compiuti in più ambiti perché non si guardi più a fatti remoti e insignificanti neanche sul piano storico. Questo atteggiamento indurrebbe a fare dimenticare e impedire soprattutto che si torni a indagare su casi la cui importanza e la cui mancata soluzione appaiono evidenti a pochi. 
Questi due libri giungono perciò, curiosamente insieme, nel momento in cui il processo di rimozione della memoria e di archiviazione di fatti scaduti ha ripreso, mostrando fastidio, a farsi vivo. Eppure Ardita non parla di ieri quando stabilisce che “la mafia catanese è più subdola e trasversale di quella palermitana perché meno frontale e quindi più insidiosa, più disposta a rinunciare all’ossequio formale pur di raggiungere l’obiettivo” che è unicamente quello di fare affari, diversamente da quello palermitano che è di natura anche ideologica e politica. Né Di Matteo intende meramente colmare vuoti storici quando osserva che “la strategia delle bombe serviva a porre le basi per un nuovo accordo di potere, con scenari politici diversi e più accattivanti”. Il nuovo accordo di potere è oggi quello per cui la mafia, secondo le rivelazioni di Antonino Giuffré, non tratta più direttamente con lo Stato come negli anni Novanta ma si serve di figure insospettabili, intermediari che operano come “l’amico buono” nei tentativi di estorsione. Il “patto del tavolino” che unisce mafiosi, imprenditori, politici e professionisti entro uno schema ben più largo del mero “patto di scambio” un tempo attivo tra mafia e imprenditoria, designa una situazione nuova nella quale è l’imprenditore a cercare la mafia e non più il contrario, ben disposto anche ad avere il boss come socio perché gli garantisce liquidità e sicurezza. È quella che Di Matteo chiama “voglia di mafia”, un fenomeno nuovo che corona il secolare progetto di Cosa nostra di rendersi presentabile e legale sotto false spoglie nelle quali, da Provenzano in poi e soprattutto a Catania, tenere uno stato di inabissamento e i mitra a riposo è condizione di prosperità e di signoreggiamento. 
Nascono entro questa nuova logica boss riconosciuti come Salvatore Aragona, Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli, Michele Aiello, tutti medici, stimati professionisti e capaci di parlare in dialetto ricordando vecchi omicidi nello stesso tempo in cui pianificano operazioni economiche nell’italiano più esemplare. “Erano - scrive Di Matteo - il compendio della volontà di legalizzazione della mafia che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni, ma incarnavano anche l’orgoglio di una tradizione mai ripudiata”. 
È proprio su questo asse che rimanda dal passato al presente che Ardita interpreta la particolarità della mafia etnea rispetto a quella palermitana, alla quale ha sempre teso ad amalgamarsi ma contro la quale ha opposto un modello divenuto dominante: un modello maturato oggi ma nato ieri, già negli anni Venti, nella prefigurazione che una sola dovesse essere la “famiglia” mafiosa e uno solo il capo; che il mafioso debba blandire la società civile, vivere la città, avvicinare le figure istituzionali, garantire l’ordine pubblico e la pace sociale, assistere la chiesa, diventando solo nei rapporti interni tra le cosche lo spietato assassino di fronte al quale anche il peggiore killer palermitano impallidisca. 
Se è vero, come intendono dimostrare Di Matteo e Ardita, che la mafia di oggi è figlia di quella di ieri, assumono un preciso significato le parole amare di Di Matteo: “Da quando Cosa nostra ha abbandonato la strategia delle bombe - e in particolare in questi ultimi anni - si è tornati a respirare in ambiti minoritari della magistratura una certa indifferenza nei confronti dell’azione antimafia, dei processi di mafia, dei magistrati più in vista, delle loro scorte e delle misure di sicurezza attorno agli uffici giudiziari. Si è ipotizzato che eccezionali misure pro magistrati inquirenti potrebbero isolare quelli giudicanti”. Palazzo di giustizia di Palermo sembra così tornato al clima di corvi e veleni degli anni Novanta, quel clima che fu letale a Falcone e Borsellino.