sabato 20 febbraio 2016

La chiameremo "strada degli scrittori"


Essendo stati i giudici Saetta e Livatino trucidati su due viadotti, ci si aspettava che la statale 640 Caltanissetta-Porto Empedocle potesse essere intitolata “la strada dei martiri” e invece in estate l’ex scorrevole veloce, che sarà presto una mezza autostrada, verrà battezzata (su proposta iniziale del giornalista racalmutese Felice Cavallaro) “la strada degli scrittori”. Giusto così, se al vaticinio di Borsellino di una Sicilia un giorno bellissima può essere dato un significato anche letterario. Gli scrittori of the road sono almeno cinque: Pirandello, Sciascia, Camilleri, Russello e Rosso di San Secondo, ma ci sono anche - tra vivi e minori - Emanuele Navarro della Miraglia, Enzo Lauretta e Matteo Collura di Agrigento, Gaetano Savatteri di Racalmuto, Stefano Vilardo di Delia. Nessuna altra strada siciliana può vantare un blasone così letterario e tante diramazioni illustri, per modo che, su iniziativa dell’Anas, gli svincoli non più a raso avranno il nome di ciascuno dei primi cinque scrittori a indicare la via che conduce ai loro mondi di carta e alle rispettive città natali di Agrigento, Racalmuto, Porto Empedocle, Favara e Caltanissetta. Segnali di mete virtuali che come in una caccia al tesoro aiuteranno a immaginare, percorrendo la nuova superstrada, il punto in cui, tra Vigàta e Montelusa - nonché tra La gita a Tindari e L’odore della notte - sorgeva l’ulivo saraceno rifugio del Montalbano in cerca di raccoglimento o quello nel quale il commissario assistette a un conflitto a fuoco nel Gioco degli specchi, oppure a credere di vederlo sorpassare sulla sua utilitaria diretta alla questura di Montelusa, che è anche il toponimo pirandelliano di Agrigento. E di Pirandello cercare quel che nei Vecchi e i giovani è indicato come “il tratto incassato nel taglio perpendicolare del lungo ciglione su cui sorgono aerei e maestosi gli avanzi degli antichi Tempii akragantini”, rintracciare il bivio verso la mitica Colimbetra o occhieggiare il podere dove Liolà faceva il bellimbusto con Tuzza e Mita; poi, perché no, trovare il chiarchiaro di Gràmoli che nel Giorno della civetta Sciascia stende come un cretto mortifero non lontano dallo stradale che è la statale e con il chiarchiaro intravedere le grotte ereticali di fra Diego La Matina; e di Antonio Russello scrutare la valle di Casagrande dove, a sedici chilometri dal mare africano, il piccolo Verdone da figlio di bandito diventa figliastro di sbirro; e infine, allo svincolo di Caltanissetta, sorprendere i minatori imbestiati e spiare le marionette umane di Piermaria Rosso di San Secondo. 
All’altro capo, superati Porto Empedocle e la Scala dei Turchi, la 640 confluisce come un affluente nella statale 115 e poi nella 624 fino a raggiungere Santa Margherita Belice dove il gioco mentale può avere fine davanti al grande palazzo estivo di Tomasi di Lampedusa, dei suoi ricordi d’infanzia e ai cascami del principe di Salina.
Ma la 640 è essenzialmente la strada di Nenè, Ninì e Nanà i vezzeggiativi con i quali nei loro paesi, di qua e di là dei templi, sono conosciuti Camilleri, Pirandello e Sciascia, a formare la triade che ha legato Vigàta, il Caos e la Noce in un asse risospinto a risalire l’entroterra lungo una strada in leggera salita che li ha sostanzialmente accomunati anche nel destino di Nenè, erede legittimo di entrambi: strada maremonti che termina nella “piccola Atene” di Caltanissetta, dove si è fatto trovare Vitaliano Brancati, per un giorno agrigentino anch’egli, colpito che fu dalla “patria di Pirandello” così bella, sghemba e fuori sesto, ma più ancora cittadino di Nissa nel sogno di un convivio intellettuale stabilito per suggestioni con il giovane studente Sciascia preso nella sua ammirazione.
A metà di questa strada c’è, fuori di metafora, la Noce, il centro di gravità culturale dove per oltre trenta estati Sciascia ha esercitato nel silenzio delle sue vigne e nell’assenza delle lucciole il “tenace concetto” della ragione, diviso dagli antipodi di Caltanissetta e Agrigento e come Camilleri per trequarti girgentano e per uno nisseno. Dispensò dalla collinetta della Noce saperi e investiture, incurante degli ultimi echi che gli giungevano dall’antica Accademia del Parnaso di Canicattì, il paese allo svincolo appresso, dove un giro di arcadi e buontemponi invece del buon senso celebravano il buon gusto amando declamare liriche non meno che allestire i propri funerali e parteciparvi ancora vivi. In loro omaggio il più divertito Pirandello aveva scelto il Teatro sociale proprio di Canicattì per rappresentare, unica tappa siciliana, i suoi Sei personaggi in cerca d’autore: con tale scialo che Marta Abba gli aveva chiesto quella sera del primo dicembre 1927 se non fosse nato a Canicattì anziché al Caos.
La 640 ricorda perciò anche i letterati tiratardi di Canicattì, reggitori della corda pazza che annoda entro una screziatura agrigentina la sottile ironia di Sciascia, il sentimento del comico di Pirandello e la vena gogoliana di Camilleri, fratelli d’inchiostro di una terra la cui storia, se ha offerto ben poche occasioni di ridere della vita, qualcuna l’ha data per farlo della morte: come fu nel caso delle ceneri di Pirandello, per portare le quali a Girgenti e poi disperderle un ruolo lo ebbe anche Camilleri quando si incaricò di trovare la cassa da morto per il funerale, pur a bara priva di salma, e gli capitò di essere testimone della vendetta del cuginastro Pirandello: non avendo voluto esequie alcuna, don Ninì divinò che il dippiù delle ceneri avanzate dal cilindro murato nella pietra fossero fatte finire dal vento in bocca al funzionario comunale convenuto per liberarle nell’aria dalla rocca del Caos, così pensando di adempierne in parte le intenzioni. Quella mattina al Pino di Ninì, valso a chiudere I giganti della montagna, Nenè strizzò sicuramente un occhio e l’altro lanciò, d’intesa e in combutta sotto lo stesso cielo agrigentino, alla Noce di Nanà: ponendo senza saperlo la prima pietra della strada degli scrittori.

Articolo pubblicato il 17 febbraio 2016 su la Repubblica di Palermo