lunedì 29 febbraio 2016

Sigonella, una presenza oltre lo specchio


Quando nell’85 i carabinieri furono circondati dai marines e, su ordine di Craxi, li circondarono a loro volta, i siciliani per la prima volta dopo trent’anni sentirono che Sigonella non era terra diventata completamente americana. Ma fu un sussulto momentaneo.
Nell’immaginario comune - e per quanto a chiunque è dato ancora oggi vedere lungo la 192 per Enna e la 417 per Gela - tutta la piana di Sigona di qua e di là del Simeto è far west, un’enorme prateria strappata alla malaria e delimitata dal Nas 1 e dal Nas 2, i due grandi agglomerati che compongono la Base Nato: un altro mondo più che una enclave. Avvicinarsi è come attraversare lo specchio o un confine. Lo fecero tracotanti i pacifisti, superando il ponte con le bandiere antimilitariste al vento e i pugni puntati agli euromissili destinati a Comiso e ai caccia diretti in Medioriente, vivendo tuttavia una breve stagione di orgogli esausti, talché oggi un singulto contro i droni armati in sorvolo sulla Libia non suonerebbe che pari al rigurgito di un reduce di storia infranta. 

Piuttosto, per i catanesi imparentati o amici del personale italiano della Base, Sigonella è stata soprattutto sinonimo di stecche di sigarette a buon prezzo e benzina a 40 centesimi, mentre per tutti gli altri una radio americana in onda tra il Dittaino e il Gornalunga; due fortezze Bastiani attorno alle quali i contadini di Cuccumella fanno come i pastori di Ilio, indifferenti alle sue sorti; un territorio espropriato che dalla Valsavoia al Biviere di Lentini fino agli Erei raduna soldati yankee e lucciole africane nelle cui fisiognomiche non rilucono di siciliano che il sole cocente e una luce abbacinante; infine un emisfero remoto che né un narratore né un artista hanno mai riportato nell’impossibilità di averne un ragguaglio.

I due sparvieri della Piana, minacciosi e solitari, irti ai limiti di due province diverse che si dividono una specie di deserto vuoto di centri abitati, distano meno di quindici chilometri e sono legati da una statale, la 417, che fino a pochi anni fa sembrava una road del Midwest, attraversata com’era soprattutto da mezzi targati “American forced in Italy”. Porta al Residence degli aranci che oggi è noto come il Cara di Mineo e che ospita stranieri di altre razze e provenienze. I soldati appena giunti alla Base vengono tutt’oggi sottoposti a un corso che, sotto il nome di “Indoc”, è inteso a istruirli sui costumi locali e soprattutto sul fatto che i siciliani non sanno guidare l’auto e fanno i molliconi con le donne. Niente viene detto loro sui misteri della 417 e sulla presenza, vicino Mineo, dei laghetti sulfurei degli dèi Palici al centro della grande valle sacra alle popolazioni pregreche dove Ducezio fu l’unico siciliano della storia e della leggenda, dopo Polifemo, che cercò di cacciare gli stranieri dall’isola. Un discorso che nessuno vuole fare e sentire, specialmente a Motta Sant’Anastasia, il paese che comincia appena attraversata la strada di ingresso al Nas 1 sulla 192. Fino alla metà degli anni Novanta la Base è stata l’Eldorado dei mottesi che lasciavano i campi per costruire e comprare case da affittare ad ufficiali e soldati. Poi la politica del Nassing ha privilegiato l’autosufficienza, così la Base Usa ha voltato le spalle a Motta rendendosi più autonoma e impenetrabile.

Ma la Policara, la strada che unisce il Nas 1 a Motta, è ancora la via degli americani che nel week end pagano tre dollari per liberarsi dell’uniforme dei marines e, tornati ragazzi come gli altri, riempiono i pub del paese dando un gran da fare ai carabinieri e alla Security per i boccali di birra che alzano e si scolano non meno che per gli incidenti stradali che provocano. Raramente si spingono fino a Catania, così come è del tutto occasionale che giovani di Motta o catanesi frequentino i pochi locali rimasti di fronte al Nas 1. 
Non c’è mai stata compartecipazione, anche perché nei week end gli americani amano andare per wilderness e wonderful stravedendo davanti a una strada che si perde dritta all’orizzonte, possibilmente al tramonto, e ricercando un pittoresco che per loro è più natura che cultura, più paesaggio country che ruderi e vetrine. Avendo della distanza una concezione tale da vedere nella Sicilia poco più di un buco, trovano più riposante infilare cento chilometri per gustare uno strapiombo che farne dieci e chiudersi in un museo. Questione di educazione storica al bello, si direbbe: non conoscono città con più di cinquecento anni ma solo interminati spazi. E perciò ricambiano il loro esorbitante sentimento di bellezza concedendo alle popolazioni indigene che soltanto il 4 luglio possano visitare i Nas per ammirarli nella grande potenza dei loro arsenali. 
Così, se vent’anni fa erano i giganteschi elicotteri Hc4 a impressionare i siciliani, il prossimo giorno dell’Indipendenza potrebbero essere i micidiali droni armati a suscitare la curiosità di noi visitatori: nella debita certezza che l’interesse delle famigliole Usa di fronte al palio medievale di Motta Sant’Anastasia sarà sempre e senz’altro maggiore, quasi quanto per un panorama rosso dell’Arizona.


Articolo pubblicato il 24 febbraio 2016 su la Repubblica di Palermo