lunedì 9 novembre 2015

Le donne passionali di Luigi Capuana


All’età di 37 anni Luigi Capuana si incapriccia per la domestica di casa, una ragazza analfabeta chiamata Beppa, con la quale intraprende una relazione clandestina che dura vent’anni e dalla quale ha diversi figli tutti ceduti a un orfanotrofio.
Vent’anni è suppergiù anche il tempo di stesura del Marchese di Roccaverdina, che ricalca nei dettagli la vita dell’autore di cui il 29 novembre ricorre il centenario della morte: tant’è che, come don Antonio Schirardi fa con Agrippina Solmo, anche don Luigi Capuana decide infine di dare in moglie la sua Giuseppina Sansone (l’assonanza non è casuale) ad un altro uomo, rispondendo così alla convenzione sociale, imposta dalla sua stessa classe borghese, che vieta la mesaillance
Il tormento personale covato per vent’anni è la cifra che Capuana (trasfondendola in una figura multiforme di donna che non vagheggia come lui l’anticonformismo ma lo realizza assecondando un impulso interiore alla trasgressione che si costituisce come ribellione al mondo) mutua nella sua opera letteraria già dalle prime novelle scritte dal 1872 in poi e confluite in Profili di donne del 1877. Solo dopo vent’anni, con i racconti di Coscienze del 1905, Capuana placa la sua febbre indomita di disubbidienza inconfessa donde la marchesina Cecilia Santacroce del racconto Parola di donna, contraltare del marchese di Roccaverdina da poco licenziato, si chiude sin dal giorno delle nozze in un mutismo definitivo quale unica protesta contro un matrimonio comandato: non più il gesto di rivolta e l’azione animano le sue donne, ma l’inedia e in definitiva la sottomissione all’uomo e alla società segna una resa che è una restaurazione di stato. 
E seppur, come l’amatissimo Flaubert, incarnazione di Madame Bovary, anche Capuana avrebbe potuto dire, nominando una sola delle sue tante donne di carta, “c’est moi”, quando mette fine alla sua “guerra dei vent’anni” a capo di un commando di donne ribelli, che incita contro il muro del perbenismo più corrivo, è egli stesso ad osservare che i suoi ultimi racconti, benché superiori, non suscitano più “appassionate discussioni”: come era stato nel 1879 per Giacinta, romanzo tacciato di immoralità. Agrippina Solmo è senz’altro una delle più riuscite figure femminili del Novecento, cosi pirandelliana nel conflitto interiore tra sensi e peccato, ma Giacinta è potentissima nel suo progetto di rovesciamento della morale corrente perseguito col rifiutare il promesso sposo che ama, andare in moglie a un vecchio nobile e farsi poi per amante l’uomo amato, creando in questo modo una miscela talmente esplosiva di sentimenti e consuetudini che, resa incandescente dallo stupro subito da bambina, alla fine la porteranno al suicidio. 
E’ proprio mischiando elementi psicopatologici fatti per determinare effetti che dalla scala personale si propagano alla sfera sociale che Capuana ha costruito la sua idea di verismo inteso come miccia in mano alla categoria più debole del suo tempo: la donna. Che gli appare in più forme. Un anno dopo la prima delle tre versioni di Giacinta, quando legge Vita dei campi di Verga, Capuana non scopre solo la dottrina dell’impersonalità e del discorso indiretto libero ma anche la Lupa e l’amante di Gramigna, due modelli di donna, pur rurali ma siciliane, che accoglie con entusiasmo nella sua genealogia presentandole alle altre. Ma nello stesso anno scrive sul Corriere della sera della Capinera verghiana e accerta che il dolore non può essere escluso dal canone cui lavora e che è ispirato al solo orgoglio. 
Passa solo un anno e Capuana è quindi alle prese con il mal di vivere del marchese di Roccaverdina, che finirà ebete al colmo dei contrasti intestini tra colpa e delitto. Ma intanto, nello stesso 1881, conosce I Malavoglia e le donne di Trezza che, sebbene così stagliate e vivide nel loro microcosmo, non assurgono che a sterili tentativi di rovesciare la realtà, né si fanno amazzoni per un ideale di emancipazione femminile che non c’è. Tutt’altro anzi. Manca loro la dote che egli ritiene indispensabile: la passione.
Ne ha tantissima Cecilia di Storia fosca, che esce nel 1879 e riprende atmosfere di Giacinta. La giovane moglie di un maturo aristocratico si invaghisce del figliastro e rompe la legge sociale della fedeltà ad ogni costo in nome di un desiderio carnale che ne fa una novella Fedra tutta ardore e spregiudicatezza. Ma nel 1884 scrive la novella Ribrezzo dove Giustina, moglie “esclusa” perché accusata ingiustamente di infedeltà, decide di rendersi fedifraga davvero senza però riuscire ad avere rapporti fisici con l’amante. La sua frigidità è il rovescio della lussuria di Cecilia. Tuttavia mancano gli effetti e non le cause della ribellione che è sempre passionale e dirompente.
Appassionate si intitola infatti una raccolta di novelle del 1893 dove ancora due donne, nei racconti Tortura e Anime in pena, vestono l’usbergo della disubbidienza. Teresa, moglie irreprensibile, viene violentata dal cognato e da quel momento è divisa tra il desiderio e il precetto di non trasgredire. Carmelina, “malmaritata”, alla fine rompe la convenzione e trova un giovane amante con il quale vive momenti di estasi la cui intensità è pari alla lascivia con la quale il vecchio e odioso marito la brama.
Poco tempo dopo verranno per Capuana le nuove donne inermi e rassegnate di Coscienze e, perché tornato a essere politically correct, il pubblico perde interesse. Lo scrittore non sa spiegarsi le ragioni e accusa i media dell’epoca. Ma le conosce bene le ragioni del regresso. Sono legate alla sua Beppa che ha ceduto per sempre per salvare le apparenze. Era Beppa che impersonava il tipo di donna dissidente e sovvertitrice servito allo scrittore per concepire un programma di cambiamento. Andata via lei Capuana si è conformato alla cultura dominante disarmando il suo gineceo in rivolta e sciogliendone le fila.

Articolo pubblicato il 6 novembre 2015 su la Repubblica di Palermo