domenica 20 dicembre 2015

Il segreto clericale di Solarino



Al cimitero di Floridia, a sinistra appena entrati dall’ingresso principale, sorge la tomba a terra di un sacerdote, don Vincenzo Raimondo, sepolto con la sorella Agata, il cui epitaffio maschera una storia terribile che a Solarino, dove don Vincenzo fu parroco, nessuno vuole che si risappia.
Il segreto è così ben custodito che basta farne cenno per beccarsi quantomeno una minaccia di querela. Lo storico locale più accreditato è Giovanni Sudano, solarinese e figlio di uno storico di più alta levatura. Lavora alla curia ed è categorico: “C’è un mio articolo nel giornale della curia su padre Raimondo. Quel che occorre sapere di lui è in quell’articolo. Non c’è altro da dire”.
C’è invece molto da dire. Del resto chi ha dettato le parole che campeggiano sulla tomba voleva proprio che si sapesse cosa aveva vissuto don Vincenzo. In quell’epitaffio c’è praticamente tutto, tranne i particolari. Questo il testo: “Apostolo infaticabile da parroco prima e da cappellano all’ospedale civile dopo. Bontà, dolcezza, conforto don Vincenzo Raimondo diede a quanti l’avvicinarono. Simile al crocifisso Gesù sopportò umiliazioni e dispiaceri col sorriso sulle labbra, sua propria virtù. Dopo lunga e penosa malattia, con lo sguardo al cielo santamente spirò”. 
Quali umiliazioni e dispiaceri, simili addirittura a quelli patiti da Gesù in croce, dovette sopportare don Vincenzo che per essere stato trasferito dalla titolarità di una parrocchia (quella di San Paolo di Solarino, la principale, sede del patrono) alle anonime e innocue funzioni di cappellano, dovette evidentemente essere accusato di una grave colpa e finire inviso al vescovo dal quale fu infine punito? Appare chiaro che si trattò di un provvedimento ingiusto dal momento che dopo la morte gli è stato riconosciuto il torto subito tanto da esserne lasciata prova, scolpita sulla tomba, a testimonianza della sua vita. Ma di quale torto si trattò?
È una storia vecchia di molti anni, quando a Solarino c’era una sola parrocchia e l’altra della Madonna delle lacrime doveva ancora nascere. Don Vincenzo ne era il parroco. La parrocchia era frequentata soprattutto dalle donne di chiesa che attendevano alle funzioni e alle liturgie del parroco. Nascono delle voci che riguardano il parroco e certe sue attenzioni nei confronti di qualche fedelissima. Si tratta di dicerie di untrici che montano finché arrivano alle orecchie del vescovo che ne vuole verificare il fondamento. L’indagine della curia si risolve a sfavore del parroco per via di testimonianze raccolte nei ristretti ambienti parrocchiali meno indulgenti e più corrivi con le malelingue per cui ne viene disposto l’allontanamento. Le accuse sono certamente umilianti, frutto di un contesto intransigente e mate in un paese così pettegolo. 
Don Vincenzo viene trasferito all’ospedale civile di Siracusa come cappellano: dirà messa ai malati. È una punizione, senz’altro fonte di cocenti dispiaceri, che il sacerdote accetta senza avere nemmeno la forza di difendersi e reagire, passando da accusato ad accusatore e additando la parrocchiana o le parrocchiane che per qualche ragione hanno voluto calunniarlo così pesantemente. Calunnie irripetibili che infatti Raimondo nemmeno cita per controbattere davanti al vescovo. Accetta il verdetto e da quel momento si ammala e comincia a morire. Sarà una malattia “lunga e penosa”, il progredire della quale col tempo comincia però a minare la coscienza di chi è stato artefice di tanta sofferenza e propalatore delle voci diffamatorie. 
Da questo punto in poi, nel silenzio di tutti i solarinesi - storici, sacerdoti, attuali donne di chiesa e persino abituali ciarloni di piazza - conviene affidarsi proprio alle voci. Anche queste però oggetto di smentite e reticenze. 
Nella vicenda entra un altro sacerdote, padre Antonio Barbagallo, quasi coetaneo di padre Raimondo, solarinese e missionario apostolico in Birmania dove è morto. Alla sua scomparsa il Comune pensa di ricordarne l’opera con una lapide che viene affissa nel luogo più appropriato, la chiesa di San Paolo, dove si trova a destra, entrando all’inizio della navata. 
Il giorno della cerimonia di affissione avviene un fatto del tutto inaspettato e sconvolgente: una donna - di cui Solarino tace il nome con assoluto ritegno, salvo qualche ammicco a una stretta parente - cade in ginocchio, piange e si dispera, confessando una grave colpa, quella di aver calunniato anni prima padre Raimondo, che non c’è più. La costernazione è totale e c’è chi dice che padre Barbagallo ha “vendicato” padre Raimondo, perché se non fosse stata allestita la sua lapide, i rimorsi non avrebbero dilaniato l’anima della colpevole né si sarebbero tradotti, davanti a tutti, in una inequivocabile e piena confessione.
La curia arcivescovile è la prima a battersi i pugni sul petto e a precipitarsi a rifare la verginità a padre Raimondo. L’articolo di Giovanni Sudano giunge tempo dopo a coronamento di questa azione di risarcimento, senza però un solo cenno alle vicende che l’hanno determinata. La parrocchiana colpevole, anziché il biasimo, ottiene dal paese conforto e benevolenza. Ha peccato, si è redenta, quindi deve godere dell’indulgenza plenaria di Solarino. E così in effetti è stato.
La donna è morta da qualche tempo, nella consolazione dei sacramenti e con un funerale degno di un paese che ha imparato da San Paolo a farsi una ragione del male che si trova quando si cerchi il bene e come il male possa tradursi in bene quando si è in grazia del Signore. Per Solarino tutta, la calunniatrice confessa del suo parroco lo era certamente, almeno al momento della rivelazione, che non può non essere stata ispirata dal cielo. 
Del caso non si sarebbe appreso mai niente se i parenti dei fratelli Raimondo non avessero pensato a un epitaffio tombale che avesse il senso di una testimonianza, di una sentenza e di un risarcimento spirituale. E che va letto interpretando ogni parola nella chiave dei fatti avvenuti. Quando scrive “Bontà, dolcezza, conforto don Vincenzo Raimondo diede a quanti l’avvicinarono”, il riferimento ai fedeli che vollero essergli vicini suona a detrimento di quanti invece gli furono lontani; così come la precisazione che è stato prima parroco e poi cappellano all’ospedale civile denota un passaggio che va inteso nel significato di una minorazione di carica e di apostolato. 
La contiguità poi tra le umiliazioni e i dispiaceri patiti e la lunga e penosa malattia che fu causa della morte è posta in un rapporto di consequenzialità entro il quale la sopportazione delle ingiustizie, pur se “con il sorriso sulle labbra”, porta il sacerdote a spirare “con lo sguardo al cielo” in un modo che appare rivelatore, cioè: “santamente”: per fare chiaramente intendere che don Vincenzo visse da martire e da apostolo per morire come un santo.