giovedì 30 ottobre 2025

"Lo stivale di Garibaldi" che Camilleri scagliò contro l'Italia unita


Per il numero di febbraio 2010 di Stilos, la rivista nazionale di cultura da me fondata e diretta, Andrea Camilleri mi fece dono di un racconto lungo, o romanzo breve, del tutto inedito intitolato Lo stivale di Garibaldi, che nel 2016 sarebbe apparso nella raccolta di racconti Sellerio La cappella di famiglia e che nel 2021 La repubblica avrebbe pubblicato per una serie di dieci racconti allegati al giornale.
Le due versioni differiscono da quella uscita su Stilos per due errori che io chiesi a Camilleri di poter correggere, cosa che Sellerio e Repubblica invece non fecero, lasciando le sviste – a riprova della scarsa cura portata alla sua opera sia dagli editori come anche dai suoi collaboratori più vicini: la prima svista fu quella di immaginare le ferrovie in Sicilia attive già nel 1862, la seconda quella di far arrivare lo stesso anno a Palermo il prefetto Falconcini diretto ad Agrigento parlando però di due anni dopo lo sbarco di Garibaldi. Qui riporto la mia prefazione al racconto, seguita dall’intervista allo scrittore sulla sua genesi.


«“Mi vuol lasciare intendere che le ‘ose non stanno come appaiono?” “Eccellenza, capita spesso dalle nostre parti”». La risposta del viceprefetto di Lo stivale di Garibaldi interpreta felicemente uno dei crismi della cosmogonia di Camilleri – che sul tema dello «scangio» ha fissato sin dalle sue prime prove il cuore della propria ricerca – e coglie uno dei significati fondativi della società siciliana e della sua indeterminazione. Il teorema della sovrapposizione di verità e travisamento in dato di natura, che diventa anche dato di cultura, lo ritroviamo anche alla base di questo romanzo breve, dove non soltanto invenzione letteraria e ricerca storica si incrociano la strada ma anche la realtà empirica è sollecita a trasfigurarsi nelle sue parvenze, che non sono – perché tali – meno vere e meno credibili.
Siamo nel campo gnoseologico di Pirandello, entro il quale le maschere intrudono le persone e la moltiplicazione dell’io si locupleta di sembianti ineffabili e inidentificabili. Ma siamo anche nel campo epistemologico di Sciascia alla cui logica della demistificazione storica Camilleri ha attinto, non meno che da Pirandello, i dati della conoscenza. Vediamo qualche esempio tratto dal romanzo.
Quando i due capifamiglia in guerra, Matrona e Ferrauto, sono convocati dal prefetto perché, per il bene comune, facciano pace, si stringono la mano e si abbracciano solo dopo che il sindaco di Montelusa (la Girgenti camilleriana e soprattutto pirandelliana) dice loro, in disparte, di fingere sul momento di rappacificarsi, perché nessuno li vede e nessuno verrà a saperlo, salvo riprendere a odiarsi dopo, ripristinando lo status quo. I due nemici giurati gabbano perciò il prefetto smentendolo nella sua presunzione di conoscere bene i siciliani e di poter quindi dirigere la loro iniziativa, vanificano il suo tentativo di cambiare lo stato delle cose e impongono il peso dell’ordine costituito contro l’elemento esogeno destabilizzante.
Matrona e Ferrauto rivolgono al prefetto lo stesso trattamento che, in Il gioco della mosca, la mafia – racconta Camilleri – riserva all’oratrice comunista forestiera che, vigorosamente applaudita in piazza, crede in un largo consenso non sospettando invece una tragediatura collettiva a suo scherno. Un gioco insomma, il cui opposto, per dirla con Freud, non è ciò che è serio, ma appunto ciò che è reale.
L’inganno della percezione che può colpire chi non è siciliano e fargli credere, come avviene a Falconcini, di reputare vero ciò che vede, si ripete in occasione di un altro errore che commette il prefetto fiorentino: ritenendo che le guardie carcerarie non abbiano bisogno di parlare con i detenuti perché non occorre loro che li capiscano, le sostituisce in blocco con secondini settentrionali, sortendo così di facilitare la preparazione dell’evasione; l’errore è in ciò, che ignora che i siciliani non hanno alcun motivo di parlarsi per comunicare, bastando loro guardarsi negli occhi. L’ingegnere Lemonnier di Un filo di fumo, torinese, capisce che per i siciliani importante è il sottinteso e non il detto. Ma già ne Il corso delle cose Camilleri segnalava come i siciliani abbiano fama di non parlare ma in realtà parlano eccome, a mezza voce, cifrati. E ne La bolla di componenda troviamo l’aneddoto del soldato che ritiene inutile interrogare due detenuti siciliani dal momento che si sono guardati, cioè si sono «parlati». Questa etica, che sta fra omertà e ammicco, è quella che stende un velo di Maya davanti al dato sensibile e crea un fossato tra siciliani e «continentali» generando equivoci, scontri e rovesci.
È quanto succede nel 1862 ad Agrigento, dove in estate arriva in qualità di prefetto il cavaliere Enrico Falconcini, dotato di un’alta considerazione di sé, di un nobile senso dello Stato e soprattutto di un bagaglio di inestirpabili pregiudizi. Il generale Medici lo ha avvertito, alla partenza, del traviamento morale dei siciliani e della necessità di «agire di conseguenza», talché Falconcini gli chiede se non debba indossare il casco coloniale. È una domanda che gli viene instillata dall’opinione comune invalente la quale tiene in assoluto disprezzo la Sicilia, sicché Falconcini non può non rimanerne preda. Camilleri ricorda due interventi di autentico odio: quello del luogotenente Cordero di Montezemolo che trancia affermazioni del tipo «i beduini di quest’isola sono assai più feroci di quelli delle Cabilie» e quello del generale Govone secondo il quale «la Sicilia non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà».
Sono giudizi che Camilleri trae dagli atti della Commissione d’inchiesta del 1875, quando la deprecatio temporum diffusa soprattutto nel Mezzogiorno della nuova Italia, dove si parla di «italietta» e si nutre un forte sentimento di delusione, si coniuga con l’insorgenza dell’acrimonia sicula che rende la Sicilia ribelle e arrabbiata e getta il seme per un’istanza di separatismo che crescerà prepotente nei decenni successivi.
Sono giudizi di aperta ostilità, al limite dell’intolleranza razzista, che Camilleri aggiunge a quelli già resi noti. Uno fra tutti quello riportato in La bolla di componenda per bocca del generale Boglione che, sentito dalla stessa Commissione parlamentare, dice dei siciliani, riflettendo il convincimento di Govone, che «non nascono dallo stesso ceppo degli altri popoli ma da uno separato che li rende disonesti e delinquenti».
Due anni dopo la liberazione della Sicilia e tredici anni prima la costituzione della Commissione d’inchiesta, Falconcini crede di aver capito tutto non solo degli agrigentini ma anche dei siciliani in genere. Nel suo memoriale d’accusa (che nel 1863 stampa in volume per sostenere le proprie ragioni contro la destituzione disposta dal ministro dell’Interno) ne attribuisce «l’impetuosità» «al caldo clima» oltre che ovviamente «alla patita servitù» sotto il dominio borbonico. Cosicché Camilleri si diverte a ricondurre a due fenomeni naturali, una tempesta per mare e un terremoto, gli avvertimenti iniziali che dovrebbero indurre Falconcini a rimettersi su un vapore e tornarsene in Toscana.
Ma Falconcini arriva ad Agrigento determinato a dare applicazione a un preciso programma repressivo governativo, quello di usare la forza delle armi senza indulgere a parlare né a ragionare con i siciliani. Di suo (al fine di guadagnare meriti agli occhi del re, che ha contemplato rapito in un ritratto visto sulla nave in viaggio) Falconcini mette una risolutezza nell’esercizio del suo incarico che gli inimica, uno dopo l’altro, tutti i ceti sociali dell’Agrigentino: a seguito di provvedimenti, decreti e iniziative fatti per suscitare la reazione rabbiosa della popolazione, il risultato è che dura in carica appena cinque mesi e viene destituito dal governo per manifesta incapacità.
Falconcini respinge l’accusa e si addice a scrivere una lunga arringa, corredata di un centinaio di documenti, con la quale intende appellarsi al giudizio del Paese perché sia esso, anziché il governo, a stabilire il fondamento e la legittimità dell’atto di rimozione. Un proposito velleitario, presuntuoso e disperato di un uomo che ha dimostrato anzichenò «di non sapere vivere» (come scrive Camilleri nella prefazione al libro di Falconcini riedito a Sellerio nel 2002, Cinque anni di prefettura in Sicilia), presumendo di poter portare con sé in Sicilia non solo il suo rigore ma anche il valore dei suoi modelli sociali.
Cionondimeno il libro-arringa che pubblica comprende anche una testimonianza dal vivo della Sicilia post-garibaldina, spaccata tra una sorgiva coscienza nazionale condivisa e un altrettanto condiviso sentimento garibaldino: di fronte all’alt imposto da Torino a Garibaldi, risospinto verso Roma e fermato in Aspromonte, i siciliani – pur contando centinaia di «picciotti» al seguito del generalissimo, tutti esposti al fuoco dei cannoni napoletani – si schierano con la foga delle camicie rosse, nell’impulso a sbaragliare il Borbone e prendere il Vaticano in un impeto insurrezionale che costa loro il freno imposto con la forza dalla appena sopraggiunta dirigenza piemontese. Per un paradossale rivolgimento di giochi politici, i siciliani si schierano quindi con Garibaldi anelando a un’Italia unita sotto le insegne di Vittorio Emanuele per poi, nel giro di qualche mese, ritrovarsi vittime della repressione degli apparati dello stesso re, che ordina lo stato d’assedio, persegue i garibaldini e si serve di funzionari colmi di zelo come Falconcini, lasciati liberi di decidere, di sbagliare e quindi esposti al rischio di essere esautorati.
Nel suo romanzo Camilleri coglie questa condizione di precarietà e di confusione integrando il personaggio dell’ispettore generale Ermanno Bova che per due volte si precipita a Montelusa non tanto per dire al prefetto cosa deve fare (se autorizzare la manifestazione garibaldina) ma cosa non deve fare (arrestare il luogotenente di Garibaldi Ricci-Gramitto). Accusato di non sapere prendere le decisioni più appropriate e opportune, l’ispettore generale scrive al ministro chiedendo la destituzione del prefetto, che rimane quindi il solo a pagare errori e guasti imputabili piuttosto al neonato e agitato Stato italiano.
Camilleri però immagina scaturigini diverse circa la rimozione di Falconcini: che si sia cioè creata un’area di congiura trasversale, che comprende apparati dello Stato, notabilato locale, sfere politiche e parti sociali, capace di ordire una evasione di massa dal carcere, sufficiente da sola a mettere il prefetto sotto accusa e renderne inevitabile il trasferimento dopo che si «è fatto nimici a tutti, calibardini e anticalibardini, parrini, nobbili, borgisi e genti minuta». Con la risibile accusa di aver violentato una prostituta, un esperto geometra viene perciò recluso in carcere allo scopo di dirigere gli scavi dei tunnel necessari alla grande fuga.
I documenti storici naturalmente non adombrano un’ipotesi del genere né la ventila lo stesso Falconcini, ma in base al surrogato di realtà di cui la letteratura è formata Camilleri può proporre una spiegazione fondata su una forma primigenia di «ragione di Stato» che non deve essere molto lontana dall’essersi riprodotta nel caso Falconcini e che, all’alba della nuova Italia, segna l’abbrivio di un costume politico che farà molta strada.
Grazie alla stessa forza insita nel manzoniano criterio di fare letteratura con un «misto di storia e invenzione», che è un principio attivo riconosciuto nell’iniziativa di Camilleri, altri avvenimenti di pura fantasia possono apparire di tutta verosimiglianza. Tale è la manifestazione promossa in omaggio allo stivale forato di Garibaldi, del tutto fantastica epperò di tutta plausibilità dal momento che lo stivale dell’eroe di Marsala viene raccolto dal suo luogotenente Rocco Ricci-Gramitto, che lo porta a Girgenti. Oggi è esposto al museo del Vittoriano a Roma con altri cimeli garibaldini, fra cui la pallottola che colpì Garibaldi, ma nulla esclude che qualche sia pur circoscritta celebrazione, magari nel chiuso di Palazzo Ricci-Gramitto, sia potuta avvenire: lo stesso palazzo dove probabilmente la sorella di Rocco Ricci-Gramitto conosce un fervente garibaldino, Stefano Pirandello, che sposerà e al quale darà un figlio destinato a una grande fortuna letteraria. Camilleri immagina che i genitori di Luigi si conoscano durante la manifestazione e attribuisce a Falconcini questo unico merito: di avere indirettamente favorito il loro incontro. In questo caso la commistione tra storia e letteratura diventa strettissima e frutto di un vertiginoso gioco borgesiano: perché l’incontro reale tra i due si ha a prescindere sia dalla manifestazione che dalla presenza di Falconcini – e chissà in quali ben diverse circostanze – senonché la suggestione letteraria che Camilleri evoca permette di inverare l’incontro in un clima coerente al quadro storico, in un bozzetto edificante di storia locale risorgimentale, cosicché, sul filo delle evanescenze e dei giochi di rimando, Pirandello viene in qualche modo fatto risalire a Garibaldi. E al suo stivale.
E qui Camilleri allestisce un altro vorticoso campo di tensioni letterarie. Immagina che il gesto, storicamente documentato, di Garibaldi che per rabbia getta in aria lo stivale insanguinato, sottendendo una figura metaforica, si traduca in una specie di lancio missilistico a distanza sicché lo stivale comincia a viaggiare nello spazio, supera lo Stretto di Messina, arriva a Montelusa e finisce in testa al prefetto proprio nel momento in cui Ricci-Gramitto gli comunica l’intenzione di volere promuovere una «manifestazione in onore alla sacra reliquia». Il più strenuo esecutore delle leggi varate contro i rigurgiti garibaldini, il più ligio assertore delle ragioni cavouriane e del primato dell’interesse nazionale, tanto sensibile al problema dell’ordine pubblico da ordinare il disarmo generale, convinto com’è che il girgentano sia un «popolo facile ad essere spinto alle escandescenze politiche», si ritrova bersaglio della furia garibaldina, punito dal generalissimo in persona.
Nella realtà dell’invenzione letteraria (se ci è permessa questa contraddizione nei termini) è proprio lo scontro sulla manifestazione che determina la rovina del prefetto, richiamato a un governo più politicamente corretto della provincia da parte dell’ispettore generale e dallo stesso ispettore generale poi deferito al ministero.
Fatti i conti, sarebbero dunque due le ragioni per cui Falconcini cade in disgrazia: l’evasione dal carcere e la manifestazione. La prima è storicamente documentata, la seconda lo è letterariamente. Camilleri attribuisce alla manifestazione e dunque allo stivale di Garibaldi il ruolo di causa efficiente e si diverte a inscenare una «processione» in un tripudio di fazzoletti rossi e bandiere al vento. Ma nella prefazione al libro di Falconcini, in un registro strettamente saggistico, senza concessione alcuna allo spirito di invenzione letteraria, lo stesso Camilleri propone spiegazioni alternative, più aderenti al fatto storico e al memoriale Falconcini: accredita una richiesta di manifestazione in onore al reduce Ricci-Gramitto, manifestazione cui lo stesso Falconcini fa cenno nel quadro di una sobillazione generale, e aggiunge poi il particolare dello stivale come oggetto doppio di omaggio popolare. Quanto all’evasione accoglie come verosimile l’ipotesi che sia stata fomentata dalle guardie carcerarie sostituite.
Il passaggio dal saggio al racconto involge in Camilleri una «voglia di sgorbio» (la spinta cioè a derazzare tipica dell’autore siciliano) che lo porta in terreni sui quali le ipotesi sul caso Falconcini si prendono la licenza di farsi congetture che si legittimano nel canone dell’iridescenza. Al punto che l’unico vero errore commesso da Falconcini è stato per Camilleri quello di non aver portato con sé un corno rosso; e se un torto ha avuto è stato quello di essere perseguitato da una «jella implacabile».
Più che sfortuna, a segnare la destituzione del prefetto è stato l’eccesso messo da parte sua nell’espletamento della carica e la perentorietà dell’azione. Avere considerato l’ordine pubblico il padre di tutti i mali e averlo quindi affrontato per primo e a muso duro – disponendo la consegna delle armi, ordinando arresti a raffica, stabilendo una forma di coprifuoco in una situazione già gravata dal decreto di stato d’assedio imposto in tutta la Sicilia, mobilitando le famigerate milizie a cavallo a vantaggio della guardia nazionale, ostentando la presenza in piazza dei carabinieri – ha significato strozzare una provincia già provata da avversità connaturate quali la miseria e la mancanza di infrastrutture cui si aggiungeva il malcontento per il cambio forzato della moneta che deprezzava il commercio e soprattutto una tenace coscienza antinomistica pronta a farsi valere alla prima occasione.
È pur vero che Falconcini usa i mezzi forti perché poi, nei suoi intendimenti, si possa scendere dallo stato d’assedio all’applicazione dello Statuto, ma la sua visione del governo locale rimane legata alla possibilità di disporre di una buona polizia investigativa, la cui mancanza mette in capo peraltro alle cause circa l’evasione di massa, una polizia investigativa che non può essere molto diversa dalla polizia segreta borbonica che i siciliani hanno ben conosciuto fino a due anni prima. Non è che abbia tutti i torti ad auspicare leggi eccezionali capaci di «dare ai siciliani una buona calmata» come intende antifrasticamente Camilleri, visto che in ottobre dello stesso anno Palermo diventa teatro di una carneficina perpetrata da misteriosi pugnalatori-giustizieri che sfuggono alla polizia e che agitano le giornate del prudente magistrato piemontese Guido Giacosa, sulle cui carte Sciascia distillerà la logica della sua vocazione investigatrice. Non ha nemmeno torto quando vede nella stabilità del governo il mezzo per rassicurare gli agrigentini circa il timore del ritorno di un governo dispotico, né quando sostiene che «se non durano gli stessi nomi al potere, permangano almeno a guida di lui gli stessi principi». Ma la sua teoria è viziata dal rancore nei confronti del ministro che lo ha esautorato rispetto a quello precedente che lo aveva nominato, un avvicendamento nel quale vede la fonte della propria disgrazia. Con originale e certamente indebita facoltà Falconcini accusa il governo dello stato di derelizione della provincia e non ha remore a dichiarare: «La provincia agrigentina geme tuttora immersa nello sfacelo sociale in cui il governo del re la trovò ma può sempre rimediare al mal fatto». E si erge alla qualità di governante quando suggerisce cosa il governo deve fare: «curare la sicurezza pubblica, eseguire i pubblici lavori, promuovere la educazione popolare». Si tratta di enunciati validi per ogni provincia della Sicilia e del Mezzogiorno, che rimarranno per lunghissimo tempo, e in gran parte fino ad oggi, lettera morta.
Ma dopo aver visto pressoché sterilizzate tutte le azioni esperite per il bene comune, a Falconcini diventano chiari i limiti della propria iniziativa sicché alla fine dice di essersi dovuto convincere che «solo dopo lungo e fermo uso del potere e dopo moltiplicate gite per la provincia, potrà un prefetto riuscire a tanto». Questa ammissione di inefficienza non gli risparmia da parte di Camilleri il marchio di minorità. Camilleri tratta Falconcini con compassione, gli riconosce l’onestà di uomo probo e diligente, la statura di funzionario statale, ma lo giudica incapace non solo di vivere ma anche di amministrare una provincia che in fondo non è più difficile di tante altre. Lo immagina davanti al fotografo con una valigia da viaggio anziché con un libro e un braccio poggiato su una colonnina, come detta l’iconografia del momento: improbabile, fuori scala, fuori tempo, calco della genia di tutti quei funzionari savoiardi che nella sua opera ha duramente stigmatizzato non vedendo in loro e nella loro opera che la causa del vizio congenito con cui è nata l’Italia.
Soltanto su uno di essi, il piemontese Alessandro Avogadro di Casanova, generale comandante militare in Sicilia, conosciuto sulle carte della Commissione parlamentare e riportato per vero in La bolla di componenda e per finta in Il birraio di Preston, si esprime in termini encomiastici, assumendolo in antipode rispetto a Falconcini. Per il resto il suo giudizio è drastico e generalizzato: la figura del «piemontese falso e cortese», e del settentrionale tout court, non è vista nei panni del compìto gentiluomo che porta nella casa siciliana aria del continente in foggia di illuminato conquistatore e salvatore, tutto regole e sacramenti, ma in quelli dimessi e a volta ridanciani di ingenuo misirizzi, rifacimento in cotta estranea di un Giufà di frizzi e discredito.
La visione di Camilleri contrasta fortemente con quella di Lampedusa che in Chevalley vede il fatto nuovo, capace di fare cadere di mano alla figlia del principe il romanzo edificante che sta leggendo e che propone un Salina intento solo a guardare verso l’alto. In La bolla di componenda lo accusa duramente: «Se avesse calato gli occhi e scoperto un paese fitto di topi, ragni, serpi e scorpioni avrebbe sottoscritto le opinioni di Boglione e mai si sarebbe più azzardato a dire “noi siciliani”».
Lo stivale di Garibaldi si iscrive nel filone della polemica antiunitaria che vede Camilleri reiterare ancora oggi l’acrimonia sicula e alimenta di nuovo, a distanza di anni, una vena che sembrava essersi esaurita. Il suo maggior pregio è forse di disvelare un Camilleri coerente con la sua matrice originaria: ironico, caustico, versicolare, divertito quando ricombina sit-com e siparietti, determinato e a volte spietato nel puntare il suo indice accusatore.

Il pastello di Piero Guccione realizzato per il libro



Questa l’intervista a Camilleri che chiude il libro.


Lei ha avuto il libro di Falconcini come ebbe quello di Marullo per La strage dimenticata. Ma in quel caso fece un saggio, stavolta ne ha ricavato un racconto. Come dire che forse non ci ha voluto ragionare sopra, magari perché c’erano i morti e qui solo detenuti evasi.

Può darsi che sia stato per questo, ma diciamo che la storia di Falconcini permetteva di usare una certa libertà di invenzione fantastica cui sinceramente non mi sono sentito di rinunciare. E poi nel libro di Marullo si parlava di 114 morti, mica si scherza.

In effetti il racconto funziona meglio del ragionamento storico, perché nel fatto reale dell’evasione lei ha immaginato la figura del geometra Azzaro, la manifestazione garibaldina e soprattutto lo stivale che colpisce metaforicamente il prefetto.

Potevo infatti mettermi a fantasticare di più.

Ma fino ad un certo punto, perché molti dati storici e molte figure sono presi dal vero, come il sindaco di Agrigento, le famiglie rivali dei Matrona e dei Ferrato… Però la gran parte è inventata.

Del tutto. Prenda per esempio la storia della processione per lo stivale: non credo proprio che sia mai avvenuta. E non credo nemmeno che sia passato a nessuno dall’anticamera del cervello di fare una processione con uno stivale insanguinato. Almeno non risulta storicamente.

Questa processione immaginaria mi ricorda quella reale di cui lei parla in La strage dimenticata quando Sarzana viene portato ammanettato in processione davanti alla folla: una “tragediatura” lei la chiamò. E mi pare che anche in questa processione spira aria di tragediatura collettiva ai danni del prefetto. Si è ricordato di Sarzana?

Veramente no. Nel momento in cui scrivevo questo racconto lungo mi ero dimenticato completamente di Sarzana. Può darsi che sia un topos ricorrente nella mia immaginazione, ma la processione dello stivale è indipendente rispetto a quella di Sarzana.

Anche se il luogo è lo stesso, Borgata Molo con Vigata?

Sì, indipendente del tutto. Peraltro è pura invenzione.

Ma non è pura invenzione lo stivale forato che viene portato ad Agrigento. Questo è un fatto vero.

Autentico.

Però Falconcini non ne parla nel suo libro Cinque anni di prefettura in Sicilia.

Falconcini nemmeno sapeva, probabilmente, dell’esistenza di questo stivale. Lo stivale di Garibaldi viene da me adoperato come metafora, un oggetto venerabile che viaggia nello spazio.

Lei scrive che se un merito ebbe Falconcini fu, autorizzando la manifestazione, di porre le basi perché la sorella di Ricci-Gramitto conoscesse Stefano Pirandello, i futuri genitori di Luigi. Ma abbiamo appena detto che la manifestazione è una sua invenzione.

Il fatto che la sorella di Ricci-Gramitto e il padre di Luigi Pirandello si fossero conosciuti nell’ambito dei rivolgimenti garibaldini è documentato dalla biografia stessa di Pirandello. Certo: che l’occasione di conoscersi sia stata data dalla supposta manifestazione per lo stivale non è affatto vero. Ma è vero che, nel caso di Ricci-Gramitto e di Stefano Pirandello, si trattava di due garibaldini: quindi sarà stato più che naturale che Ricci-Gramitto abbia invitato a casa sua il Pirandello dove conosce la sorella.

In effetti, se la manifestazione è falsa non può essere poi vero l’incontro dei due durante il suo svolgimento.

Inventato di sana pianta.

Un bel gioco dell’imbroglio.

Però resta la circostanza vera che i due si conoscono in un’occasione come posso dire patriottarda.

Saggio o racconto che questo libro sia, uguale è il gusto sciasciano per la microstoria, meglio se agrigentina.

Si tratta di microstorie plausibili.

Certamente, epperò se Falconcini fosse capitato a Trapani, il caso lpavrebbe introigata meno.

Non c’è dubbio.

Lei conosce bene l’Ottocento siciliani. Falconcini in realtà non è diverso dai personaggi ottocenteschi settentrionali dei suoi primi romanzi, Baldovino di Cuneo in La strage dimenticata, l’ingegnere Lemmonier in Un filo di fumo, il capitano Bertolini in Il corso delle cose. Ma soprattutto sembra sputato il prefetto Bortuzzi de Il birraio di Preston: fiorentino, presuntuoso, arrogante come lui.

Esattamente. Bortuzzi in realtà si chiamava Fortuzzi, personaggio reale, come Falconcini. Erano tutti dei poveracci che venivano mandati in un paese di cui non conoscevano usi, costumi, modi di pensare, di agire; uomini del tutto sprovveduti. Questi prefetti sono un po’ il simbolo di come è stata fatta l’Italia: una annessione senza conoscenza e senza rispetto di quelle che erano le consuetudini e le tradizioni delle varie regioni che venivano ammesse. Perché bisogna dirlo, l’unità d’Italia è una omologazione al più forte. L’annessione accettabile è quella che sintetizza in uno spirito di giusta convivenza le varie culture all’interno di un disegno unitario. Invece nel caso della Sicilia abbiamo assistito a una prova di forza. L’errore piemontese è stato quello di aver proceduto all’unità nel segno dell’omologazione.

Però Falconcini si piccava di conoscere bene gli agrigentini.

Si piccava sì di conoscerli, ma i guai che ha combinato sono stati tantissimi. Ed emergono dallo stesso suo libro, che a leggerlo viene da sorridere per il suo candore, per la sua ingenuità. Un libro che è un manuale di ciò che non andava fatto.

Ma lei contesta tutte le misure che Falconcini prese?

Vede, non è che le contesto e che sono contrario. Non sono le misure che contano, conta il modo come vengono prese le misure. Se tu ti muovi su un terreno sconosciuto, non puoi imporre un decreto prefettizio che proviene dall’alto e piomba distruggendo tutto, mettendo in contrasto realtà diverse. Prima le devi conoscere profondamente, e poi modificarle con garbo, col tempo. I diktat sono sempre destinati ad avere delle ripercussioni negative.

Sul piano dell’ordine pubblico i suoi diktat ebbero però successo quanto a risultati.

Bah, io sono sempre molto scettico su quelli che sono i risultati resi noti da un governo. Ormai siamo abituati da secoli a fare la tara su quello che dice il governo.

Un risultato concreto non fu forse l’obbligo che impose del disarmo generale?

Quindi lei crede che effettivamente le armi furono consegnate? Ma neanche per sogno. Ogni volta questa storia della consegna delle armi! La verità è che si obbliga la popolazione a consegnare le armi succede questo: i buoni cittadini, quelli onesti, si affrettano ad ubbidire al decreto mentre quelli disonesti non solo se le conservano ma ne acquisiscono altre, proprio grazie al decreto.

Ma l’impressione di Falconcini, secondo il quale un governo stabile e duraturo è la risposta migliore che gli agrigentini si aspettano per sentirsi governati, non ha secondo lei un fondamento di verità?

Torno a ripetere: ha sì un fondamento di verità. Ma non sono i propositi che contano. Conta come questi propositi vengono tradotti in realtà. Questo ha importanza. L’errore di Falconcini è di avere avuto dei buoni propositi e di avere sbagliato a tradurli nella realtà.

Fece dunque bene il ministro a destituirlo?

Ma certo! Lei pensa che, a quei tempi e in quella situazione non ci hanno pensato quaranta volte prima di destituirlo? Eccome se ci hanno pensato, perché sapevano che sarebbe stata una perdita di autorità nell’immagine dello Stato, eppure lo fecero, altrimenti i guasti che Falconcini avrebbe ancora fatto sarebbero diventati davvero eccessivi.

Falconcini chiedeva leggi eccezionali per fronteggiare il problema della sicurezza. Le stesse leggi eccezionali che nel nostro tempo ha chiesto il prefetto Dalla Chiesa.

Già. Quelle stesse leggi di cui parla Pirandello e che certo non ne parla in modo positivo ne I vecchi e i giovani, dove ci spiega gli effetti negativi di queste leggi eccezionali.

Sono però le stesse leggi che in mano al prefetto Mori hanno avuto effetto eccome.

Bisogna distinguere tra quello è che l’operato di una dittatura e quello che è l’operato della polizia in uno stato democratico. Certo che Mori ha buon gioco, ma Mori ha tutto a disposizione, tutto quello che vuole, mentre gli altri prefetti venuti in Sicilia non hanno così ampi poteri assoluti. E comunque Mori non è che abbia lasciato tutto questo buon ricordo.

Falconcini viene “dispensato” e non “destituito”. Una sottigliezza tutta ottocentesca. Oggi non si baderebbe a queste sfumature.

Oggi i governi sono un po’ più brutali. Prenda il caso del prefetto di Trapani: per avere in definitiva difeso l’idea dello Stato è stato “rimosso”. È rimasta comunque la sostanza delle cose: se un individuo è scomodo viene privato del suo potere.

Un po’ quello che succede al capitano Bellodi di Sciascia. Con la differenza che Falconcini la testa se la vuole rompere davvero.

Sì, ma Bellodi pensa che, tornando in Sicilia vorrà rompersi la testa, mentre Falconcini è in Sicilia che rimane con la testa rotta.

Si appella al Paese davanti al cui giudizio chiama il ministro dell’Interno. Oggi andrebbe a “Porta a porta”.

Non c’è dubbio e ognuno direbbe le proprie ragioni lì. I tempi sono molto cambiati, è vero, ma chi esercita un potere difficilmente è disposto a prendere la sua valigetta e tornarsene a casa.

Il fatto che Falconcini si metta a scrivere e che scriva un pamphlet di tipo settecentesco…

A futura memoria…

Beh, ha reso un bel servizio al nostro tempo dandoci un campione di squisita prosa ottocentesca e soprattutto molti documenti originali sulla Agrigento postunitaria.

Certo. Quel libro che ha scritto conserva una ricchezza documentaria straordinaria, ma ancora una volta devo dire che Falconcini non fa pena perché tutto quello che fa e che scrive – questo sia detto in suo onore – è fatto e scritto in assoluta buona fede. Anche se con un senso tutto personale, discutibile, dello Stato.

Questo suo racconto è rimasto diciamo un romanzo nano, eppure aveva tutti i requisiti per diventare più voluminoso.

Lo stivale di Garibaldi fa parte di una serie di racconti che vado scrivendo perché siano della stessa misura. Assomiglia per esempio a La tripla vita di Michele Sparacino: racconti dettati da occasioni le più diverse e che costituiscono un mio speciale filone che mi piace molto alimentare.