Il nuovo romanzo di Andrea Camilleri, Inseguendo un’ombra (Sellerio), comprende una vasta sintesi dei tanti filoni dell’autore agrigentino inscrivendosi nel solco dei libri di carattere favolistico come Il sonaglio e Maruzza Musumeci da un lato e altri di ricostruzione storica quali Le pecore e il pastore e Il colore del sole da un altro, dove c’è spazio anche per i cosiddetti romanzi borghesi e gli apocrifi, tenendo comunque conto che il titolo mainstream è Il re di Girgenti, dal quale promanano tutte le forme di sperimentazione che compongono la cifra camilleriana.
In quest’ultimo caso il riferimento più vicino, quanto alla struttura, è La tripla vita di Michele Sparacino, con la differenza che Inseguendo un’ombra si rifà ad eventi storici realmente accaduti, salvi i punti in cui la documentazione ha lasciato all’immaginazione il compito di colmare i vuoti. E Camilleri proprio questo ha fatto, ammettendolo pure quando spiega che dove i momenti della vita del protagonista sono apparsi “bastevolmente esplorati” a lui in qualità di autore non sono rimasti che “ben pochi angoli oscuri che potessero aprire varchi alla fantasia”: l’invenzione letteraria essendo dunque un sussidiario della storia, un mezzo per rifarla o riempirla, a dimostrare – com’è stato per la mafia, un tempo materia dei narratori perché inesplorata, oggi degli storici perché quasi del tutto rivelata – che dove mancano i documenti provvede la letteratura a fare la storia: con l’uso della logica e del calcolo letterario probabilistico, cioè in base all’equazione secondo cui la verosimiglianza della narrazione, in condizioni di probabilità e in punta del rasoio di Ockam, donde la soluzione più facile è quella preferibile, è un correlato della verità dei fatti.
Lo spirito è quello di Sciascia, del quale è anche il titolo come pure la spinta data a Camilleri a scrivere questo libro che risveglia un caso del Quattrocento nel quale anche Sciascia è rimasto intrigato forse perché molto pirandelliano nel modello di moltiplicazione di identità che propone, ma lo spunto a Camilleri lo offre l’anagrafe del protagonista, che non è solo siciliano ma addirittura agrigentino e come tale oggetto di sua speciale attenzione, anche perché artefice di vicende al limite dell’incredibile circonfuse nella storia che rasenta la favola.
Come Michele Sparacino, che però non cambia nome, anche il protagonista di questo romanzo saggistico - o saggio romanzato - vive tre vite, ma sotto nomi diversi che sottendono anche persone diverse: Samuel ben Nissim Abul Farag, Guglielmo Raimondo Moncada e Flavio Mitridate. Il primo è un arabo ebreo di Caltabellotta che per opportunità si converte al cristianesimo e diventa rinnegato. Il secondo è un notabile cristiano battezzato da un ricco signore aragonese che lo adotta per le straordinarie doti di poliglotta, traduttore, dotto cabalista, pedicatore e oratore nelle dispute con gli ebrei, doti che lo portano a lavorare col Vaticano e diventare molto celebre e ricco. Il terzo è un rispettabile insegnante che si fa una posizione borghese arrivando anche a indottrinare Pico della Mirandola. Ce ne sarebbe anche un quarto, un Guglielmo di Sicilia, più volte nominato dalle fonti storiche, che in sostanza è sempre la stessa persona.
Il passaggio da una vita all’altra non è mai una scelta, ma una fuga, un modo per ricominciare dopo aver commesso un delitto, in ciò bene applicandosi il “manifesto” del Rinascimento concepito proprio da Pico e inteso a vedere l’uomo calato in una fase di degenerazione e poi risollevato in una di rigenerazione.
Siamo nel Quattrocento, alla vigilia della cacciata degli Ebrei dalla Sicilia e la Chiesa esercita tutta la sua forza per convertire ebrei come anche per perseguitarli. Il giovane Samuel, in una Caltabellotta dove la presenza ebraica è massiccia e dove cerca l’occasione per uscire dalle ristrettezze economiche della famiglia, non si fa scrupolo di seguire due opportunità in uno stendhaliano rosso e nero: farsi cristiano e prendere gli ordini o entrare nella mezquita di un ricco mercante ebreo. Morendo questo, è costretto ad assecondare la prima ipotesi, ma in cuor suo rimarrà ebreo, ragionerà come un ebreo e penserà come tale, salvo apparire un cattolico fanatico fino ad essere un antiebraico. Diventa un defensor fidei nella guerra all’ebraismo e assurge a un rango sempre più elevato finché commette un delitto ed è costretto a fuggire, cacciato dalla Chiesa e spogliato di ogni incarico. Incarnando un Casgliotro ante litteram, Guglielmo Moncada diventa così Flavio Mitridate e, dopo alcune vicissitudini, finisce nel palazzo del conte Pico al quale insegna la cabala e dove termina la sua vita in carcere a seguito a un nuovo misfatto. Ma Camilleri non si rassegna a darlo per morto così miseramente e, in una seconda ipotesi, lo riporta fuggiasco e naturalmente anonimo in Sicilia, immaginando anche una riconciliazione con la sua fede e il suo animo tormentato e turbolento.
A Camilleri è piaciuta questa figura di siciliano, meglio ancora: di agrigentino, che ha gabbato se stesso prima di irretire mezzo mondo e le più alte sfere, al quale è mancato, nella storia come nell’immaginario dell’autore, solo la magia, sostanza diffusissima al suo tempo, manipolata anche da Pico, per essere un personaggio interamente da favola. Stavolta Camilleri non si è fatto tentare né dall’epoca né dalla vicenda mantenendosi, quanto più ha potuto, aderente al dato storico e con ciò intendendo tenersi vicino, come per un senso di ossequio e rispetto, al dettato che Sciascia ha voluto dare a questa figura: non di cuntu ma di conto.
Eppure è lo stesso Sciascia a imputare a “coincidenze che sembrano magiche o sognate” l’interesse che lo ha spinto a conoscere “un personaggio di difficile, sfuggente e mutevole identità”, che dice di aver inseguito come un’ombra, così trasferendo su un piano di irrealtà ed evanescenza un caso che si prestava solo a uno sviluppo intrecciato di mistificazioni e dissimulazioni. Ed è stato questo secondo aspetto che Camilleri ha inteso cogliere, tralasciando del tutto, forse a malincuore, le implicazioni trismegiste che lo avrebbero portato ben lontano dalla storia.
Decisiva è stata l’occasione, capitata nel 1980, di leggere una nota di Sciascia a un catalogo del 1972 per una mostra del comune amico pittore Arturo Carmassi. In quella nota, intitolata “La faccia ferina dell’Umanesimo”, a dare un volto selvaggio a Guglielmo di Sicilia, Sciascia racconta che da alcuni anni insegue un’ombra, appunto lo sfuggente personaggio di Caltabellotta: e anche qui ci sarebbe da chiedersi se l’ombra lo attirasse perché agrigentina e dunque se gli autori agrigentini costituiscano una cerchia che si chiami a vicenda a distanza anche di anni.
Solo dopo molto tempo giunge per Camilleri anche il momento di scriverne. Ponendosi la questione dello stile, primario nella sua ricerca, sceglie di adottare quello che ritroviamo nei romanzi borghesi dove si esprime in italiano, ma lascia che i personaggi si pronuncino in dialetto e si concede solo qualche parola in siciliano quando gli sembra più pregnante oppure intraducibile, com’è per “ingegnare”, che in dialetto significa indossare per la prima volta in un’occasione.
Si può anche dire che Camilleri ha stavolta “ingegnato” un nuovo stile, non ricorrendo nella sua vasta opera un romanzo dove italiano e siciliano si dividano così nettamente le sfere e soprattutto le voci: quella dell’autore nel primo linguaggio e quella dei personaggi nel secondo. La vena sperimentalistica dell’autore si è arricchita dunque di una nuova polla che sicuramente rivedremo zampillare e che forse costituisce il risultato di una lunga ricerca, come una meta, dove l'autore potrebbe rimanere ottimamente, apparendo oggettivamente una soluzione che risolve molte questioni rimaste sempre aperte. Ma c’è da credere che Camilleri continuerà a usare il dialetto anche nella sua pronuncia di narratore e che, anche questa volta, non ha voluto che inaugurare un altro filone o, come direbbe lui, “vedere che succede”.