Si ritiene - o quantomeno lo ritiene il governo - che ottanta euro in più al mese ai soli dipendenti sotto i 25 mila euro lordi l’anno bastino a fare ripartire l’Italia. A stare alle parole di Renzi (secondo il quale gli ottanta euro in più serviranno ad aumentare la paghetta dei figli, lasciare nella borsa della moglie qualcosa per un capriccio o comprare qualche piccolo accessorio di informatica) per rilanciare i consumi sono sufficienti le spesucce.
Chiunque, cioè ognuno, abbia a che fare con la crisi sa bene che ottanta euro in più o in meno non spostano alcun bilancio, né quello dello Stato né tantomeno di una famiglia. Non ne sarebbero bastati nemmeno il doppio e forse solo dal triplo in su si sarebbe potuto immaginare qualche giro di motore che desse segni di volersi mettere in moto: fuor di metafora, solo ricominciando i dipendenti “poveri” a spendere, a ricasco i soldi sarebbero cominciati a rigirare per tutti.
Senonché per alimentare una simile speranza sarebbe stato necessario beneficare - di almeno trecento euro e non di ottanta -, cioè favorire, non quanti, essendo caduti in condizioni prossime alla povertà ma provenendo da un tenore medio e avendo provato a mantenerlo hanno contratto debiti che devono adesso ripianare (altro che piazzette e paghette in più), ma quanti, appartenendo a un censo superiore e non avendo debiti avrebbero potuto seriamente mettere in circolo il denaro avuto in più, concedendosi così qualche larghezza.
Ma questo sarebbe stato appunto un favoritismo che nessun sindacato e nemmeno un governo tarantolato come l’attuale avrebbero potuto solo proporre: dare soldi a chi ce li ha già, o comunque ha da mangiare fino all’ultimo del mese, sarebbe risultato impopolare se c’è gente che non ha da mangiare già dal primo. Tra sostenere i disoccupati, per i quali ottanta euro ai fini della recovery economica, che è lo scopo di ogni manovra di intervento, sarebbe stato come aggiungere una goccia in una vasca, ma andando incontro ai precetti cristiani di dare ai poveri, intendendo quelli veri, e sostenere le classi medie impiegatizie, al di sopra dei 25 mila euro annui, in mano alle quali ottanta euro avrebbero subito fruttato, ma andando incontro in questo caso a palesi ingiustizie sociali, il governo ha scelto di fare la respirazione artificiale alla fascia di reddito che, subendo gli effetti più gravi della crisi, non può che impiegare gli ottanta euro di spiccioli per cercare di non affondare ancora e non certo per provare a risollevarsi. Non potendosi dunque rimettersi in piedi una famiglia a rischio povertà, non è altrettanto possibile che possa farlo il Paese.
Quello di Renzi, che parla di rivoluzione e dà quasi per risolti i problemi economici delle famiglie a reddito fisso ma basso, è dunque un intervento che non centra il bersaglio, non perché non lo raggiunge ma perché, come la freccia di Montaigne, lo supera. Volendo dare spettacolo con una lunga e bella gittata del suo arco, il premier ipermediatico e superdemagogo ha fatto come il gran signore che, davanti a un morto di fame, uno che ha perso il lavoro e un terzo questuante che lavora e vorrebbe spendere, dovendo in altre parole soddisfare un bisogno vitale, un altro necessario e un terzo utile, decide di aiutare non chi gli pacificherà l’animo né chi gli porterà soldi ma chi ha bisogno per sé: decisione giusta, ottima per apparire Robin Hood e candidarsi ad eroe popolare, ma del tutto inutile, perché di breve durata e soprattutto perché non propedeutica alla ripresa di tutti, morti di fame, malnutriti e sazi.
Se gli interventi di politica economica sono in teoria dettati dall’intendimento di procacciare lavoro, elargire assegni di disoccupazione, come vuole Grillo, o sostenere il precariato, come ha fatto Renzi, non favorisce certamente l’incremento dei livelli occupazionali. In un’economia non affidata all’assistenzialismo di Stato ma alla libera iniziativa, qual è la nostra, sarebbe stato logico supporre che per dare lavoro occorre crearne le occasioni. Che non possono venire se non dai privati, purché incoraggiati a intraprendere iniziative produttive e quindi ad assumere manodopera e impiegati.
Se, per stare alla metafora della macchina da riavviare che è ingrippata e ferma da tempo, per rimetterla in moto e in condizione di viaggiare, magari con più persone a bordo, non si può pensare a chi fare salire prima che sia portata in officina. Quanto all’Italia, non si può pensare di farla ripartire aiutando chi deve provvedere a se stesso e a come fermare il flusso di cartelle nere, cosa molto umanitaria e di sinistra, che però tanto assomiglia al caso di chi si cura con tenacia una sinusite pur sapendo di avere un cancro, e non vedendo che solo favorendo la macchina del lavoro, cioè l’impresa, è possibile ridare ossigeno a poveri, mezzi poveri e futuri poveri, che da presenze parassitarie si ritroverebbero sulla strada per tornare o diventare lavoratori, condizione che dà morale e induce a vedere la vita e il proprio Paese con quella dignità che è la sola garanzia dell’ottimismo, il vero ingrediente che rende sviluppato nonché civile uno Stato democratico.