Un tentacolare dibattito si è raggomitolato su Repubblica, prendendo strade laterali e perdendosi via via, a seguito di un articolo di Alessandro Baricco su Substack (la piattaforma web americana frequentata dagli intellettuali snob e radical-choc) e ripubblicato dal quotidiano romano lo stesso giorno sul sito. Nella sua “riflessione”, come è stata battezzata, Baricco eleva Gaza a cronotopo di transizione dal Novecento (detto “animale morente”: immagine presa inappropriatamente dall’omonimo romanzo di Philip Roth, che vedeva l’uomo già anziano – sé stesso - in lotta contro la morte con le armi della passione erotica, o forse da un verso non dissimile di William Yeats) al consolidamento della “rivoluzione digitale” guidata dai giovani tra i 15 e i 25 anni.
L’articolo è uscito il 9 ottobre e il giorno dopo nella Striscia si è avuto il "cessate il fuoco", sicché Gaza ha dovuto nello sbrigativo sistema edificato da Baricco lasciare precipitosamente l’iperuranio delle idee simboliche e soprattutto il discorso dello scrittore cult a cavarsela da solo. E già a leggerlo “dopo Gaza”, l’articolo fomite di una sarabanda di interventi intesi a notomizzare il mondo oscuro rappresentato dai “giovani gazawi”, ipostasi enfatica e generosa di tutti i ragazzi dell’Occidente, assume un altro significato: strumentale, come di una corsa a trovare riparo da un uragano che poi non arriva. Ma per l’interesse che gli argomenti addotti da Baricco suscitano, al di là della contingenza in cui è apparsa, tale riflessione ha una sua importanza non tanto perché offre uno scenario inatteso quanto per la luce cha getta sullo stesso autore.
In breve e in sostanza, cosa ci dice? Secondo il suo teorema, “Gaza è un certo modo di stare al mondo” (facciamo che lo sia rimasto) e i primi a capirlo sono stati i giovani, già sensibilizzati dall’impegno sui temi circa i mutamenti climatici e l’identità di genere. Cosa hanno fatto di speciale? Forti della “rivoluzione digitale” si sono attestati su un “continente sommerso” risospinto sempre più lontano dalla falda che lo separa dalla “terra emersa del Novecento”, la quale a sua volta va via via alla deriva e assume la natura di un “animale morente”, diventando quindi molto pericoloso, anche perché legato ai propri credi passatisti quali sono la guerra, il culto del nazionalismo, dei confini e di armi ed eserciti.
A questo punto, nel processo di allargamento della falda, è arrivata Gaza, la battaglia da combattere per vincere tutte le altre aperte in nome di una “rivoluzione digitale” che “ha fatto saltare i bunker strutturali e culturali su cui il Novecento aveva potuto edificare il proprio disastro”. Cos’è stata allora esattamente Gaza? Scrive Baricco: “Resto convinto che la spinta centrale dell’adesione alla causa di Gaza [da parte dei giovani occidentali, nda] sia costituita da una precisa scelta di campo su questa storia di due civiltà a confronto che in Gaza si scontrano col massimo dell’evidenza”.
Scontro di civiltà dunque. Un altro. Senonché cosa fa Baricco? Inopinatamente salta la falda e dalla terra emersa del Novecento, dove è nato, cresciuto e maturato, si piazza nel continente sommerso, insieme con i giovani e anch’egli artefice della rivoluzione digitale, oltre che gazawo. Perciò scrive senza esitazione alcuna: “Ci è sembrato urgente provare a vivere in modo diverso, per non morire nello stesso modo dei padri”. E ancora: “Non siamo disposti ad accettare che l’animale morente si prenda il centro della scacchiera e ci riporti indietro e tenga in ostaggio le nostre visioni”.
Avendo quasi 68 anni, Baricco si è dunque intestato le sorti dell’intera generazione Zeta, per totale riconoscimento delle loro ragioni e identificandosi in essa pur non avendone i titoli, né anagrafici né tantomeno culturali. Ma non si tratta di un salto nel vuoto improvviso e velleitario, se nel 2018 in The Game, di fronte a quelli che chiamava “ingorghi logici” dati dall’avvento della rivoluzione digitale, scriveva: “Ecco che mi si svela l’errore che sto facendo: continuo a pensare con una mentalità antica, pre-rivoluzionaria. Sono d’altronde nato a metà del Novecento, cosa cavolo dovrei fare? Venire via da lì, ecco cosa cavolo dovrei fare”. L’ha fatto ora con assoluta coscienza di sé, nella totale astrazione da sé e in grande confusione.
Il Novecento oggi reietto, animale morente, è stato per Baricco un mitologema sul quale ha costruito un’epica della realtà. Il monologo Novecento (quattro anni dopo trasposto da Tornatore nel film La leggenda del pianista sull’oceano) rappresentò nel 1994 il senso di un radicamento collettivo al “secolo breve” nella figura del pianista Danny Boodman T.D. Lemon, chiamato appunto “Novecento”, che non vuole scendere mai dal Virginian perché quel piroscafo è il suo mondo, che è deterministico, rassicurante, concluso e completo, sebbene sempre in movimento, a differenza del mondo di fuori, della terraferma dove tutto è caos, processi infiniti, miriadi di vie tra le quali dovere scegliere.
Trent’anni dopo, il Novecento è però diventato per Baricco una terra desolata che va alla deriva, come una nave del tipo il Virginian senza più una rotta, mentre il mondo di fuori si è rivelato rivoluzionario, portatore di nuovi ideali, una terraferma, anzi certa, dove cresce la felicità grazie al digitale, l’arma atomica delle ultime generazioni. Ma cosa ha portato Baricco a compiere questo testacoda? Una vera inversione a U, se si pensa che nel 2016, in un articolo del 2014 di Il nuovo Barnum, parlando della fotografa Vivien “tata” Maier, scoperta per le migliaia di istantanee che furono trovate dopo la sua morte, scriveva: “Sfido chiunque a fissarle senza percepire, in un attimo di lucidità, la smisurata vigliaccheria del fotografare digitale: devo a tata Maier il mio definitivo disprezzo per Photoshop”. Dunque, come ha fatto un pensatore così acuto a dismettere in una decina di anni l’abito dell’uomo del Novecento, analogico ed empirico, e vestire quello dell’era digitale? E come poi ha fatto ad arrivare addirittura fino a Gaza?
In realtà è partito da molto lontano, anche nel tempo. Nel saggio del 2006 I barbari Baricco immaginava una mutazione ad opera di una classe (chiamata addirittura “orda”, appunto barbara: straniera) che stava trasformando la civiltà tradizionale fondata sulla profondità e la ricerca del senso ultimo delle cose. Questa classe esogena era la società digitale, decisa a instaurare una cultura fondata non più sulla profondità ma sulla superficialità, per modo da trasferire il senso delle cose dalla sfera dell’approfondimento a quella dell’effimero. La civiltà della profondità di allora altro non si è rivelata adesso che la terra emersa del Novecento, l’animale morente, mentre la cultura della superficialità si è consolidata nella rivoluzione digitale, il continente sommerso sul quale Baricco è sbarcato come su Citera, nella sua visione trasfigurata in Gaza.
Nel 2010, Baricco torna sulla sua ossessione, la falda di oggi, allora ancora una fenditura, e in un articolo, “Anno 2026, la vittoria dei barbari”, poi compreso in Il nuovo Barnum immagina – praticamente ai giorni nostri - già realizzata la società digitale: “La profondità sembra essere diventata una merce di scarto per i vecchi, i meno avveduti e i più poveri. Vent’anni fa avrei avuto paura a scrivere frasi del genere. Mi era chiaro perfettamente che stavamo giocando col fuoco. Sapevo che i rischi erano enormi e che in una simile mutazione ci giocavamo un patrimonio immenso. Scrivevo I barbari, ma intanto sapevo che lo smascheramento della profondità poteva generare il dominio dell’insignificanza”.
Passati dal 2010 ad oggi ancora quindici anni, Baricco oggi pensa invece che la rivoluzione digitale sia il sol dell’avvenire, non più “il dominio dell’insignificanza”. Eppure la pensava molto diversamente se diceva di sapere bene “che la reinvenzione della superficialità generava spesso l’effetto indesiderato di sdoganare, per un equivoco, la pura stupidità, o la ridicola simulazione di un pensiero profondo”. Se allora il mondo digitale non aveva “ombra di profondità”; oggi quello della superficialità gli appare invece “urgente per non morire allo stesso modo dei padri”.
La confusione non riguarda solo la nuova e sorprendente posizione assunta, tutta a favore del digitale rivoluzionario, ma anche la sua convinzione teoretica. Il suo è un teorema che si è rivelato epifanico e presago nei reali effetti cui stiamo assistendo, ma nello stesso tempo brilla per incoerenza e contraddittorietà, quanto soprattutto a un interrogativo: se i barbari di vent’anni fa erano da tenere lontani, contando la difesa del “patrimonio immenso” sotto attacco, chi sono oggi se i digitali sono diventati i legittimi proprietari della conoscenza? Lo sono i fantasmi del Novecento che ancora si aggirano nella splendida società rivoluzionaria e che bisogna spazzare quanto prima in nome di Gaza?
Già, Gaza: la metafora dei nuovi ideali, la bandiera delle nuove generazioni, praticamente il nuovo mondo. E dire che nel 2016 Baricco indicò nel Novecento “il nuovo mondo”. Raccontando gli inizi di Repubblica e “gli anni irresistibili”, gli anni Settanta, il cuore battente del Novecento, ricordò un’intervista di Alberto Arbasino a Bernardo Bertolucci: “Arbasino fa una domanda (fantastica: ‘Allora, com’è venuto questo Novecento?’). Segue, irragionevolmente, una risposta di centinaia di righe… Nel pezzo compaiono forse due altre domande, ma non è chiaro. Più che altro è un fluviale monologo di Bertolucci, praticamente un saggio letterario”. Un saggio sul Novecento, cioè sul secolo andato alla deriva? Il Novecento che in Quel che stavamo cercando, altra riflessione del 2021 sulla pandemia, viene indicato in ben altri termini: “Mentre la rivoluzione digitale costruiva inarrestabilmente in tutto i pianeta il mito per eccellenza, quello di una terra promessa, in zone più circoscritte del mondo fiorivano grandi racconti mitologici di splendida fattura: la guerra al terrorismo, poi la minaccia dei migranti, poi l’emergenza dei mutamenti climatici, con in prospettiva un grande classico: la fine del mondo”. Proprio i cascami oggi imputati a un secolo da superare, seguendo a ruota i giovani.
Storytelling, per dirla con un termine caro a Baricco, giacché i giovani non sono tutti in corteo per Gaza, non protestano né per i mutamenti climatici né per l’identità di genere. I giovani di oggi sono, nella stragrandissima maggioranza, i figli del Novecento, né potrebbe esser diversamente. I secoli non si scambiano il testimone e non corrono alcuna staffetta. Sono porte girevoli per le quali passano giovani e maturi, quasi sempre insieme. I tempi semmai si distinguono non dal calendario, ma dagli eventi che li segnano, dalle idee che li innovano, dagli uomini che li eponimano. Come incide sui giovani, Gaza quale ridotto della libertà influenza gli adulti ed è tanto più vero dal momento che ha marchiato lo stesso Baricco. Il quale sarebbe proprio opportuno che, raccolte tutte le idee e le teorie, ci offrisse una summa del suo pensiero fin qui elaborato. Coerente, se è possibile.