Ma da dove Roberto Saviano ha tratto argomento per sostenere sul Corriere della sera che a Palermo sono nate le paranze, come a Napoli e che Cosa nostra ha benedetto la novità o l’innovazione che sia? Nel suo articolo non porta un barlume di prova, un documento, una testimonianza, un atto giudiziario, tuttavia si avventura in congetture tipiche di chi conoscendo bene una città pretende conoscere tutte le altre, perché quelle che hanno una certa vocazione criminale, come Napoli e Palermo, non possono non assomigliarsi. Invece no. Camorra e mafia sono come due pianeti distanti anni luce tra essi.
Saviano, leggendo le cronache dell’omicidio del giovane cuoco, ha tirato su un suo vertiginoso teorema secondo il quale a Palermo, che si starebbe “paranzizzando” (benché “paranza” sia un termine del tutto sconosciuto in Sicilia se non, da qualche parte, in riferimento a una frittura di pesce e a un’imbarcazione per la pesca a strascico oggi in disuso), giovanissimi cani sciolti, delinquentelli di quartiere, si coalizzerebbero in gruppi autonomi agendo da soli e tollerati da Cosa nostra che se ne servirebbe, ma senza affiliarli, cosa che per loro costituisce il massimo obiettivo della vita.
Questi giovani sono facili a riconoscersi per Saviano, che evidentemente deve essersi fatto, con tutta la sua scorta appresso, un largo giro notturno a Palermo: dall’aspetto, dalla barbetta, dalle scarpe costose, dalle collane d’oro. Praticamente si confondono con i maranza, stessi atteggiamenti e stesso look, malandrini ma non delinquenti. Ma Saviano preferisce parlare di paranza, forse perché è stato lui a mutuare la parola nella metafora del gruppetto giovanile criminale. E scrive, sicuro di sé: “Le paranze palermitane spesso provengono da famiglie con precedenti penali, ma non sempre. Tutti però provengono da quartieri difficili, dove il lavoro è solo in nero e dove è impensabile credere che l’impegno possa essere un mezzo per superare la miseria e ottenere dignità”. Probabilmente così è a Napoli, ma certamente non è così a Palermo fin quando questo nuovo fenomeno non verrà documentato. Il solo caso, quello di Maranzano e Taormina, che è bastato allo scrittore per sviluppare il suo “romanzo” tutto supposizioni ed equazioni, non dimostra l’esistenza di alcuna “paranza”, ma solo un forte disagio giovanile tipico di tutte le metropoli e in particolare nelle loro periferie. Altrimenti c’è da dire che le paranze si sono prese l’Italia intera.
Saviano mette insieme i fatti degli ultimi tempi e tira le conclusioni: “Dopo la strage di Monreale dell’aprile scorso, compiuta da ragazzi di meno di 20 anni, e dopo quanto accaduto a settembre, quando paranze rivali — una del quartiere Zen e una della zona Marinella — si sono affrontate ferendo una donna incinta, abbiamo la prova che la Sicilia sta vivendo una trasformazione strutturale del proprio crimine”. Ecco, è proprio la prova che invece manca. E certo sarebbe alla fine consolatorio supporre che la trasformazione strutturale si stia articolando nel senso che le paranze stanno si prendendo la scena palermitana. La conclusione cui arriva Saviano è pura immaginazione: “Negli anni Ottanta, la mafia condannava a morte con propri tribunali chi rubava auto, i topi d’appartamento, gli spacciatori. Ogni crimine doveva essere autorizzato. Oggi, invece, permette le paranze, e lo fa di buon grado, esattamente come la camorra, perché non conviene più controllare il territorio”. Accostare mafia e camorra è come immaginare che Greci e Persiani fossero della stessa natura perché e entrambi antichi. L’ardito teorema di Saviano però crolla miseramente di fronte a un piccolo episodio, avvenuto durante il funerale di Paolo Taormina, passato davanti al cercare di Pagliarelli dove è detenuto il suo assassino: i detenuti hanno applaudito, come si usa in omaggio ai morti. Meno male. La mafia ha detto no alle paranze. Anche perché non ne ha vista una.