giovedì 14 agosto 2025

La parabola dei pastori erranti di Sicilia

 

Gianbecchina: "la domenica"
Ignazio Intrivici non riesce a fermare le lacrime al pensiero delle genti affamate e sfollate che correvano le Madonie, da Nociazzi su fino a Mùfara e Carbonara, all’epoca della guerra e del pititto. Per una stagione distribuì ogni giorno tutto quello che producevano le pecore e le vacche del suo arbitrio, così sfamando il popolo di cento paesi dell’altura con ricotte e formaggi, uova e latte, carne e pane. In quel tempo il commendatore Saeli, il padrone di tutte le terre che si vedevano dalla punta di San Salvatore, diede ordine di macinare una salma di frumento al giorno e Ignazio fu tra gli affittuari più lesti ad aprire ai cristiani i suoi recinti.
Tempi di sbandati e di briganti, di tedeschi e americani, di fuggiaschi e passatori. Con la sua mandria nei boschi sopra i mille metri o a smarinare a Cerda e Villarosa, il pastore buono vide passare di corsa la storia senza mai andarci appresso. Cosicché, come a Piano di Bompietro per cinque giorni guardò i tedeschi tenere lo sconquasso fronteggiando l’avanzata nemica per poi, quando ripiegarono, dare loro da mangiare, qualmente qualche giorno dopo scannò i suoi agnelli per gli stranieri in un’altra divisa e di un’altra lingua che li inseguivano, così a Piano della Madonna, passato qualche mese, offrì a picciotti in fuga arrosti di capretto che non furono meno appetiti di quelli digeriti dai carabinieri del Nucleo che venivano alle calcagna: senza mai parteggiare né pronunciarsi, lasciando che la malanova passasse come una bufera sopra Piano Battaglia o un’annata di scontento.
Non diversamente di un pastore d’Ilio che vedendo Troia in fiamme e gli Achei in subisso pensa solo al suo gregge, Ignazio Intrivici non ha mai avuto cura che per le sue pecore e i suoi figli. Che voleva “studiati” perché il commendatore Saeli (col quale fece poi società arrivando a contare mille pecore dalle cento che aveva il giorno del matrimonio) gliel’aveva raccomandato: “I figli te li studi”. Sicché li ha fatti uno medico e l’altro veterinario. Trent’anni dopo, quando avrebbe preso servizio tra Valledolmo, Villalba e Vallelunga, il dottore Anselmo Intrivici si sarebbe guadagnato una considerazione, in tutte le stalle e i macelli della grande valle, che mai avrebbe potuto attribuire ai suoi studi se non fosse stato il figlio di don Ignazio, il pastore che aveva sfamato i poveri moltiplicando i pani e le tume. E che metà della sua vita l’ha passata in un pagliaro di montagna conoscendo solo fondachi e masserie sotto soprastanti e campieri, abitando più contrade che borgate e giudicando un grande progresso l’aver buttato le scarpe di pelo per calzare stivali e gambali.
Ora che è arrivato a 90 anni e ha una casa a Castellana, dove vive con la moglie e riposa le ossa, ai piedi dei grandi contrafforti madoniti che sono stati i suoi giardini d’Armida, le chele gli si arrossano al ricordo di spazi aperti e verdi, ampelodesmi e cinciallegre, stelle basse e belati del marcatu dove le sue pecore l’aspettavano nemmeno fatto giorno. E ripensa a quella vacca che un mandriano di San Mauro Castelverde vendette alla fiera di Polizzi a uno di Ustica che, arrivato nella sua isola, non la trovò più appena il tempo di metterla con le altre. Senonché qualche giorno dopo la vacca apparve davanti alla stalla del bovaro di San Mauro, senza più un pelo addosso, che l’acqua del mare attraversato a nuoto le aveva levigato uno per uno quanti erano i metri che l’avevano divisa, tra acque e terre, dalla sua vitella di latte. Don Ignazio ha frequentato più animali che uomini e su questi ha mantenuto una stima mai più alta di quella prestata alle credenze che popolano le campagne, sempre pronto a ridere di storie di folletti e di spiriti maligni. Quella volta che due mafiosi latitanti si sedettero in montagna con lui a ingollare un castrato e a farlo sapere al tenente di Petralia che lo chiamò e per poco non lo arrestò, durò tale fatica a uscirne senza danni di quelli e questo che solo la perdita dei boschi delle Madonie trasformati da pascoli in parco gli diede più scoramento.
Da Catuso a Susafa a Puccia, il venire meno del grande pascolo estivo decretò la chiusura di cento allevamenti, ma Intrivici fu tra quelli che si diedero vita mettendosi alla ricerca di nuovi territori, come indiani cacciati dalle loro riserve avite e primordiali. La sua vita si è condotta nella Sicilia del feudo, colorato dell’azzurro del cielo, del verde dei pascoli e del giallo del maggese, nel ritmo lento delle figlianze, delle mute e delle transumanze: un siciliano mai divenuto miope per l’abitudine dei suoi occhi a guardare orizzonti infiniti dove la distanza delle montagne si misura coi colori che passano dal verde al marrone al celeste; un siciliano che, come compare Cosimo, quando nacque il suo primo figlio non poté vederlo in braccio alla sua comare Menica perché era fuorivia, con le sue pecore che erano scappate a Cozzo Covino. Finché le ha vendute tutte e se n’è tornato per sempre a casa: prima che la pastorizia entrasse in un altro mondo, quello del figlio veterinario, dell’igiene e dei controlli, della brucellosi e del divieto di mungitura, dei contributi Cee e del finissaggio, dell’eradicazione e della vaccinazione.
Quando lo Stato si prese i pascoli delle Madonie per darli ai turisti don Ignazio capì che il mondo antico e immobile dei pastori stava cambiando e sarebbe finito. Levò gli occhi dalle cime innevate e piegò il capo sempre eretto di un cane di mannera per fare come l’asino di compare Alfio che abbassa sempre più la testa e fiuta la terra che deve raccoglierlo come si fa vecchio. Ma, ormai, passato il suo tempo, era diventato un altro Jeli: “non mostrava meraviglia di nulla al mondo; gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza egli sarebbe rimasto impassibile con quella maschera d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano”. Una maschera che non si è più tolta e che oppone alle mostre di progresso che gli fanno in casa, a cominciare dal figlio che è a favore dell’epoca moderna e di tutte le novità che essa ha portato in campagna. E chissà che non si sia pentito di aver dato ascolto al commendatore Saeli perché Anselmo andasse a scuola anziché in una masseria e crescere con la sua stessa testa, il suo vocabolario arcaico e la visione di un mondo chiuso e finito tra la grande piana e la montagna: dove il libro della natura gli avrebbe insegnato più dei suoi testi di scienza; e il bastone che ora ripone a fianco solo per alzarsi ha avuto la forza del comando.
Molto lontano da lui e da Castellana (che è la porta tra marina e montagna per la quale passavano e passano ancora le carovane della transumanza e che segna l’andirivieni di estate e inverno), sulle erte dei Peloritani, dove le provinciali finiscono in mulattiere e le indicazioni stradali muoiono come a Finisterre, a 75 anni Giuseppe Miche non ha nessuna intenzione di lasciare il suo mondo irraggiungibile di Pianoammare, una grande vallata dopo Antillo, dentro la quale ha tenuto tutta la sua vita trasformandosi nel tempo da pastore ad allevatore ad aziendatore. Ora, con la moglie e i tre figli rimasti a casa, dopo che Augusto se n’è andato come uno ‘Ntoni a fare il sergente nell’Esercito, ha costruito un caseificio e un allevamento anche di cinghiali e galline; e quando si siede all’ombra a riposare la bronchite che nessuno gli ha mai curato tiene gli occhi sulla cresta di fronte a fissare una misera casipola diroccata a mezza costa che è stata per decenni la sua casa.
Qui, tra Pizzo Cute, Montagna Grande e Pizzo Pinazzo, crinali allineati come merli di un castello, don Peppino Miche ha costruito la sua vita partendo da zero. Suo padre fu preso in adozione da due contadini della vallata che andarono all’ospedale Piemonte di Messina e fecero domanda di un trovatello nonché dei contribuiti annessi per gli orfani. Fece il pastore il buon padre, sposò una contadina della valle e il giorno del matrimonio lasciò la casa per salire di cento metri e vivere in un altro casolare con 25 capre. Lì nacque Giuseppe che divenne pastore anche lui e sposò una brava donna di Pinazzo. Nel ‘67, quando il padrone delle greggi e delle terre, non lo pagò, Peppino chiamò tutti i santi e chiese protezione per cambiare vita. Cambiò infatti vita: comprò 50 pecore a credenza e piano piano, asciugandosi il sudore, portò l’armento a 120 capre e 120 pecore. Niente in confronto alle 900 pecore di Miccio Pinto, che stava con sette figli sulla montagna di Pinazzo ed era sempre pieno di soldi. Miccio Pinto era latitante e lo chiamavano “il bandito” perché aveva ammazzato uno a Santa Teresa, ma a Pianoammare poteva fare indisturbato il pastore e il padrone.
Fu in queste montagne che fece, secondo la leggenda, la sua comparsa anche Giuliano, il più grande bandito del tempo, accolto e amato dalla “santuzza” di Antillo.
La leggenda è pane sempre fresco qui e don Peppino, pure ora che ha il suo caseificio e fa l’aziendatore, crede ai cunti come al Vangelo. Oltre la montagna scorre il torrente Alberolungo e c’è un Salto che da sempre si chiama “della femmina morta”. È sconsigliato andarci. Una voce di donna che è un lamento si leva come una sirena a raggelare i pastori. Quando passava con i figli piccoli, don Peppino cantava e urlava alle pecore per non fare sentire quello stridio dell’altro mondo ai suoi bambini. E c’è una grotta profonda con una truvatura, che secondo i pastori della vallata è finita nella fortuna dei liminoti, quelli del paese di fronte ad Antillo, che ne hanno rotto l’incantesimo. Nella grotta del Salto briganti di un’altra epoca gettarono il cadavere di una donna rapita che cadde morendo dal ponte del torrente Alberolungo. Da tempo don Peppino Miche non va più al Salto ma nelle notti fonde e mute con le cicale e i gufi si confonde lontana anche una voce flebile di donna, appena un fiato o un sospiro che chi non ha le orecchie affinate ai rumori della vallata non può mai distinguere. Non fa passare mai gran tempo per tornare sul pizzo di Montagna Grande a cercare la roccia dove una volta vide scolpite una mano di donna e lo zoccolo di un cavallo ferrato, che tutti hanno sempre cercato perché si sa che stanno a indicare un grande tesoro. Una volta accompagnò un esperto di Roma che dovette rinunciare al proposito di attivare qualche apertura magica ammettendo che si trattava di un tesoro incantato.
Senonché da allora - fatto davvero inaudito - don Peppino non ha più trovato la roccia, che è scomparsa nel nulla insieme con le sue orme. Non si capacita don Peppino, perché conosce la vallata palmo a palmo e si domanda come sia stato possibile che una grande roccia di granito sia andata via dalla montagna, come tolta di peso dalle strie. Ogni tanto qualcuno dei suoi figli, anche Luigi che vuole studiare ragioneria per fare i conti dell’azienda, si inerpica fin lassù a cercare una pietra che forse non c’è mai stata; o che forse è morta come tutte le cose del mondo.
Don Peppino Miche ha un’azienda costituita in cooperativa che produce alimenti caseari, e poi furgoni che trasportano latte e latticini dall’entroterra alla riviera, macchinari e strutture, una casa grande e comoda, fuoristrada, ma è rimasto un pastore che non crede nella medicina ufficiale e che nei sentieri delle sue montagne si muove ancora oggi con maggiore facilità che non nelle stanze pavimentate della sua azienda.
Ma il più famoso, da Castroreale a Novara a Francavilla a Fiumedinisi, è Concetto che ha 62 anni e vive con la moglie al fondo di una chiostra di montagne dove ci si arriva solo con un fuoristrada e dove non esistono, nel raggio di venti chilometri, segni dell’uomo se non la sua casa di pietra attaccata all’ovile. La contrada si chiama “Serra” per l’effetto che crea, chiusa com’è dentro una cinta montuosa refrigerata solo da un torrente che srotola rumoroso dietro la casa. Concetto si chiama Scuderi, ma in tutti i Peloritani lo conoscono come “Costa”. Fino a dieci anni fa aveva 400 tra capre e pecore. Mungeva, tosava e vendeva. Poi, venute le nuove leggi ristrettive, la sua attività si è ridotta sempre di più. Oggi cesella collari per capre in legno con tanto di campanacci e li vende nei mercati dei paesi dove prima portava i suoi animali. È rimasto con poche decine di pecore e capre, ma è rimasto nella sua Serra. D’estate si trasferisce a Montagna Grande, una decina di chilometri verso l’alto, portando con sé la moglie che gli cucina tutto sulla marmitta, devota solo a lui non avendo avuto figli. A Serra manca l’energia elettrica e Concetto ha piantato davanti alla casa, dove posteggia il suo inarrestabile e indistruttibile Toyota, un pannello solare che gli dà 24 volt con cui la sera si fa un po’ di luce. Il telefonino gli è inservibile perché quassù “prendono” solo i nidi delle gazze ladre e degli upupa.
Costa è un pastore come Salvatore Di Dio e suo fratello Santo, che sono di Capizzi, il paese dove nascono solo pastori. Quando passano da Portella Mannara, nell’altipiano di Villadoro, a oltre cinquanta chilometri dal loro paese di montagna, e ci passano con le loro mandrie da spostare nei pascoli estivi, su a Monte Altesina, o da fare svernare nella Valle dei Giunchi sotto Milletarì, non sanno di attraversare un bivio speciale, vecchio di secoli e gravido di storie. Portella Mannara segna infatti l’incrocio, al centro della Sicilia, delle due grandi trazzere regie che tagliano l’isola in quattro quarti come una forma di pecorino: la trazzera che da Palermo arriva a Catania e quella che da Gela risale fino a Santo Stefano Camastra.
Sullo stesso altipiano, un po’ più a levante, ai piedi delle “due gobbe di case della città di Agira”, molti anni fa si incontrarono in una notte di plenilunio due pastori nomadi con i loro figli, Nardo e Rosario, venuti da Contessa Entellina e da Scicli e seduti attorno a una marmitta con i papaveri di fuoco, a parlare della loro Arcadia. Facendo incontrare i due pastori erranti al centro della Sicilia perché fossero ancor più simbolicamente nel cuore del mondo, Vittorini non sapeva di Portella Mannara che poco più avanti indica una reale centralità. Né sapeva che da questa parte della riserva naturale dell’Altesina due altre grandi trazzere regie che diramano una da Catania e l’altra da Cefalù si congiungono per proseguire insieme fino alla Piana di Gela. Non si vedono se non nel tracciato di terra scoscesa ed erbe di fossi che disegnano le lunghe filiere di filo spinato, dentro le quali chi avesse voglia di aspettare al crocicchio non mancherebbe prima o poi di vedere apparire da una curva a destra e dal fondo della valle di fronte le carovane di marchi auricolari, campanacci, cani, muli, mugghii e belati che salgono e scendono la Sicilia nelle strisce di terra rimaste le stesse del Settecento: molte, soprattutto a valle, rese oggi rotabili e molte altre abbandonate o ridotte a mulattiere dai proprietari fondiari che hanno via via spostato i recinti e ristretto le strade dei pastori.
Nello stesso punto, appena a trenta metri, la provinciale che valica i Monti Erei si biforca per Enna e Leonforte e cavalli allo stato brado la presidiano fermando gli automobilisti perché guardino il bivio delle trazzere, un monumento sconosciuto e pressoché invisibile eretto dal tempo alla civiltà dei pastori erranti in via di estinzione. Ma della specie rimangono esemplari rari e cari. La mappa delle trazzere regie è carta straccia per Salvatore e Santo Di Dio che le conoscono come riconoscono i loro vitelli perché praticano la transumanza alla maniera del loro vecchio padre che ebbe sei figli tutti pastori e che nella Valle dei Giunchi, oppure a Piano Lupo, o ancora su nelle Madonie, a Spino e all’Altesina, ovunque insomma ha comprato o affittato pascoli, ha spostato i suoi animali sempre a piedi costruendo pagliai e casupole e passandoci le notti, estate e inverno. I due fratelli, proprietari di 400 bovini e di un centinaio di pecore, sono rimasti insieme e hanno fatto società, separandosi dagli altri che il vecchio padre nella sua Capizzi avrebbe voluto invece vedere tutti uniti: a somiglianza del padre, nella pastorizia Salvatore e Santo hanno mantenuto le antiche pratiche e non hanno voluto nemmeno abbattere il casolare dove da bambini, seduti sull’uscio, prima di entrarci a dormire per terra, ascoltavano il padre e gli altri pastori parlare da grandi, come i papà di Nardo e di Rosario, del “lavoro spensierato e nomade della pastorizia, con ciascuno ch’è un re, dovunque faccia pascolare le sue pecore, e dipende unicamente dalle sue pecore per mangiare e per vestirsi”.
Sul finire di qualche inverno fa, arrivati i giorni di radunare tutto il bestiame sparso in più pascoli della marina per transumare sulle Madonie, Salvatore e Santo hanno accolto l’invito di fare vivere l’antica transumanza a circa duecento turisti venuti dal Lazio, dalla Calabria e da altre regioni oltre che dalla Sicilia: a cavallo e a piedi per tre giorni e tre notti i cavalieri trappisti si sono compenetrati nell’epopea della trazzera e nell’etopea dei pastori. E da Cacchiamo fino a contrada Cella, passando per Portella Mannara, Monconara, Guefre, S. Andrea, Calcarelli, Catalani e Cozzo Covino, hanno seguito Salvatore, Santo e le loro vacche in un serraglio nel quale si sono ritrovati in un altro tempo e in un altro spazio, i percorsi indicati da valli e monti lungo trazzere dirupate e il tempo segnato dall’arco del sole e della luna, alta nel cielo come la notte in cui Nardo e il padre, sul pizzo di Monte Galate, restarono a guardare attoniti i contadini a cavallo fuggire da Nicosia.
E hanno attraversato, in un gran concerto di nitriti, guaìti e muggiti, gli ultimi due paesi siciliani, Alimena e Castellana, le cui vie sono ancora oggi punteggiate da animaleschi lasciti di georgica memoria. Ad Alimena le mandrie percorrono la provinciale 10 e si ingradano solenni e tronfie lungo Via Garibaldi che è a monte del centro cittadino. A Castellana tutto Viale Risorgimento fino a Calcarelli celebra dal canto suo la via trionfale della transumanza. A Catenanuova, sede del parco boario dei pastori della Sicilia nord-orientale e crocevia di trazzere regie, c’è addirittura una “strada della transumanza”, creata per impedire che la piazza del paese, un tempo stazione di ritrovo dei pastori erranti di ogni latitudine, fosse popolata più di animali che di anime: dai Censi, vicino al Calvario, scende giù fino a Vigne Vecchie e arriva alla statale 119, non lontano da Fondaco Cuba.
Fondaco Cuba è un casamento che nel 1787, a Goethe in viaggio da Castrogiovanni (lungo una valle “coltivata in modo ineguale” e un paesaggio che nessun disegno ispirò al suo fervido Kniep se non “uno schizzo di un panorama lontano e rovinato”), apparve “una locanda costruita da pochi anni e che, trovandosi a conveniente distanza da Catania, dovrebbe riuscir gradita a ogni viaggiatore che percorra questa strada”: locanda costruita non proprio da pochi anni se nel 1713 aveva ospitato il re di Sicilia Vittorio Amedeo II di Savoia e la regina Anna Maria; e strada definibile non proprio tale, trattandosi piuttosto della grande trazzera regia che allora percorrevano re e viaggiatori stranieri e che oggi sopravvive solo come linea di desiderio dei pastori dell’entroterra. Fondaco Cuba, per salvare il quale è stata pure deviata l’autostrada, è anch’esso un monumento alla civiltà della trazzera al tempo in cui tutte le strade erano mulattiere di sei metri o trazzere di 36 e, com’è ancor’oggi nelle provinciali dell’entroterra, bestie, vetture, viandanti e cavalieri se le dividevano in buona creanza bastando a tutti rispettare il diritto di precedenza riconosciuto agli animali. Ma la trazzera regia che arriva a Fondaco Cuba e riparte verso oriente ha fatto perdere oggi le tracce. Per molti tratti è diventata una provinciale asfaltata, sottratta dunque alla transumanza, per altri uno sterrato inservibile anche ai pastori. Che oggi intendono la transumanza come un trasloco su autocarri o autotreni.
I fratelli Silvano e Antonino Calcione, come altri trecento pastori di Tortorici, hanno impiantato aziende nel Siracusano. La loro è a Casazza, tra Pedagaggi e Carlentini. Vi trascorrono i mesi invernali, con le famiglie e i figli, secondo un antico modello di vita tutto tortoriciano che suggerisce di portare con sé figli e mogli. I Calcione hanno iscritto i loro figli nelle scuole locali e sono diventati per metà carlentinesi. Ma, arrivata l’estate, lasciano la marina, riportano la famiglia in paese e trasferiscono mandrie e greggi nei loro pascoli di Roccella Valdemone e Santa Domenica Vittoria servendosi di comodi autotreni. Le loro mucche sono diventate un po’ come loro, comodi “vermi nel lardo”, secondo il rimprovero che muoveva loro il vecchio padre, un pastore che copriva la stessa distanza in cinque notti e sei giorni di cammino, un vero calvario che i due fratelli ricordano oggi come incubi ancestrali. Abituate ormai ad essere scarrozzate su carri bestiame, le mucche dei Calcione non fanno più come quelle dei Di Dio che quando l’aria ha l’odore della partenza si dirigono verso l’uscita del recinto e da sole sono in grado di arrivare a destinazione: le mucche dei Calcione non conoscono la transumanza né le trazzere e non sanno fiutare l’aria. Si sono abituate a un’altra vita cosicché molti bovini, ma anche ovini e caprini, vengono lasciati a Casazza.
Perciò a un loro capo non potrebbe succedere quel che avvenne a una mucca dei Di Dio che sul ponte di Blufi, il punto più pericoloso di tutte le transumanze, si fermò ad aspettare il vitello che si era perso - perché così fanno i bovini: tornano dove per l’ultima volta si sono visti e si aspettano finché si ritrovano. Ma era notte fonda e un automobilista travolse la mucca e pretese pure di avere risarciti i danni.
I Calcione hanno la stessa origine dei Di Dio ma vogliono diventare aziendatori veri incarnando la nuova generazione di pastori che si fanno chiamare allevatori e che si tengono sospesi tra antico e moderno: l’antica economia curiale che si risolveva nel baratto e la moderna economia imprenditrice che richiede macchine e impianti. Più avanti ancora nel processo di trasformazione figurano le industrie zootecniche del tipo di quelle dei fratelli Sanzarello di Mistretta, entrambi allevatori di lunga esperienza e di solide possibilità. Hanno dismesso ogni tipo di transumanza sicché fieno, paglia, sulla e veccia la comprano dai grandi agricoltori dell’Ennese. I loro bovini pascolano allo stato brado e svernano nello stesso territorio di Mistretta in aziende provviste di ogni confort e in terreni di loro proprietà. Non sanno cosa sono le trazzere.
Ma dovendo scegliere, Vincenzo Sanzarello lascerebbe il bestiame per l’ospedale dove lavora come ginecologo. E non diversamente si risolverebbe Nino Calcò, un allevatore di Alcara Li Fusi che fa l’articolista come vigile urbano e aspira al posto fisso. Calcò ha però la pastorizia nel sangue, ereditata dal padre Sebastiano, che ha avuto due infarti, porta un pacemaker ma continua ad alzarsi alle quattro per svegliare tutti e andare in campagna. Calcò appartiene a una delle più numerose famiglie di pastori dei Nebrodi. Ha 24 cugini e una preparazione tecnica che è frutto anche dei suoi studi universitari. Ha marchiato i capi con microchip ingeriti nel rumine, ma non ha disconosciuto gli insegnamenti paterni. Alla fine dell’estate transuma ai piedi di Mistretta lungo le erte dei Nebrodi, da Pizzo Tambulano a Pizzo di Luminaria: tre giorni e due notti di cammino ad alta quota, attraverso trazzere che lassù, tra Nebrodi e Madonie, sono rimaste integre; e riparandosi in fondachi che per antico costume vengono lasciati aperti dai proprietari e provvisti di alimenti conservati perché i pastori erranti possano pernottare e ristorarsi. Ma in primavera, quando scatta l’ordinanza comunale per l’uso dei pascoli comunali in convenzione a fronte di un canone che nessuno paga mai, Calcò riporta i suoi armenti ad Alcara servendosi di camion e trascorre le lunghe estati nebroidee tra il Biviere e Monte Soro.
Ha un suo moderno caseificio ma marchia il bestiame il Venerdì santo secondo un antichissimo rito che impone il taglio all’orecchio del bovino nel giorno di Passione. Così fanno anche i Calcione. Così fanno anche i Di Dio. Così fanno anche gli operai dei Sanzarello. C’è una tradizione che non cede ai colpi di maglio dell’innovazione tecnologica, una particolarità che il disciplinare siciliano del Dpr 54 del ‘97, teso a uniformare persino i sapori in ambito comunitario, ha voluto salvaguardare. Una tradizione che rimanda a credenze pitresche e millenarie superstizioni.
Salvatore Di Dio tiene in casa una statua di Padre Pio e ne è diventato ardente devoto dopo quanto gli è successo: un giorno in un bar uno sconosciuto provò a vendergli immaginette del monaco di Pietrelcina e lui reagì infastidito anche perché, buttato com’era in campagna dall’alba al tramonto, non aveva mai saputo neppure chi fosse l’uomo con la barba bianca raffigurato nei santini. La stessa notte un uomo di identico aspetto, mentre dormiva in un fondaco di Fortalesa, gli si sedette sul ciglio del letto e gli chiese rabbioso perché aveva rifiutato di comprare le sue figurine. Cosicché, appena fatto giorno, Di Dio andò a cercare addirittura una statua del santo.
Non è un mimo di Lanza né una parità di Guastella neppure l’apparizione di un folletto che non fece che svegliarlo ogni notte pesandogli come un masso sulla pancia finché un anziano contadino di Caltavuturo gli suggerì il rimedio: messo un coltello sotto il letto prima di chiudere gli occhi, il folletto non si fece più vedere. Credo georgico più che credenza villana. Come quella di Calcò, che ha una vacca di venti anni, vecchissima, che gli ha dato dodici vitelli. Si chiama Pasqua, come il giorno storico delle ferie di bestiame. E giura che non la macellerà mai.
Credenze, ma anche sortilegi. Si narra che c’era una volta un frate, di qualche monastero tra Novara e Castroreale, che si chiamava padre Carmelo e non c’era ovile o stalla, arbitrio o marcatu, dove la sua presenza non fosse gradita, essendo che oltre alla benedizione portava cose buone di casa; e faceva la sua questua sulle creste delle montagne prestandosi pure a lavorare, dando una mano a tosare e mungere per esempio, perché di aiuto in campagna c’è sempre bisogno. Poi nessuno poté più vederlo nemmeno avvicinarsi perché si sparse per tutt’e due i versanti dei Peloritani, di qua e di là di Pizzo di Vernà, la sua cattiva fama di monaco maligno. Raccontarono i pastori erranti ai contadini massarioti che padre Carmelo, entrato in un recinto di vacche tutte in salute, le toccò lodandole e ne uscì lasciandoci la morte qualmente quelle migliori e grasse perirono con un sintomo subitaneo.
Come sapendo della nomea che s’era fatta, Padre Carmelo non si fece mai più vedere né a Fondachelli né a Francavilla, né a Montalbano né a Mazzarrà. Sicché col tempo molti poterono dubitare della sua esistenza e chi lo conobbe incolpò l’occhio del sole che in campagna picchia in testa e fa stravedere.
All’orizzonte di ogni contadino siciliano, si sa, si staglia un paese e a metà strada c’è sempre un monaco a comparire in lucco di mistero e mavaria. Sulle Madonie e i Nebrodi nessuno ha più notizia di un monaco di Resuttano che per centinaia di pastori è stato il migliore veterinario possibile e immaginabile perché custodiva un segreto raro: come curare le infreddature e le indigestioni dei bovini. Che bastava radicchiare. Arrivava con minuscoli pezzettini di un’erba dura e nera chiamata radicchia e istruzioni precise alla bisogna: il bovaro prendeva tre punte dell’erba e le conficcava nella pancia della mucca ammalata. Se entro 24 ore il ventre le si gonfiava come un otre poteva rallegrarsi perché non ne sarebbero passate altre 24 e la sua vacca o toro o vitello che fosse - giumenta, mulo o bardotto come pure pecora o capra, non fa differenza - sarebbe tornata a ruminare la sua bella sulla. Cosa avesse di speciale e di taumaturgico la radicchia lo sapeva solo il monaco di Resuttano. Che forse era di Gibilmanna e si chiamava frate Andrea, a sentire una parte dei suoi più devoti beneficiari. E che forse, resuttanoto o gibilmannoto che fosse, a qualcuno deve pur aver confidato il segreto se la cura della radicchia si è diffusa ed è ben praticata oggi sui Nebrodi, ben più che sulle Madonie, talché più di un veterinario, visti gli effetti, se non la prescrive comunque non la proibisce.
Ma non provate a chiedere a nessuno come si ottiene e si prepara. È un segreto. Ciò non sia meno, secondo confidenze a mezza voce strappate a una portella delle Madonie, a un passo dei Nebrodi, a un pizzo e un cozzo tra la Timpa d’Ariddu e la Balza di Pezzalunga, a metà insomma di un Parco e l’altro, siamo in grado di rivelare qui e ora e raccomandare per sempre che la radicchia va colta in una notte di plenilunio e tenuta fino all’alba sotto la luna perché possa cogliersi, senza però che tocchi mai terra, altrimenti perde tutta la sostanza. La notte migliore è quella dell’Ascensione, quaranta giorni dopo Pasqua, ma anche la sera del 30 maggio è propizia per avere una radicchia preziosa e miracolosa.
Pastori che oggi sono diventati burocrati, sbrigacarte in andirivieni tra patronati e sindacati, esperti di normative Cee, lesti calcolatori di contributi comunitari, abili compilatori di richieste, proni e prudenti esecutori di ricette e ordinanze veterinarie continuano purtuttavia ad affidarsi a credenze ereditate in famiglia e a istruirsi nei libri della natura: guardano se il cane ad agosto dorme raggomitolato o disteso per vaticinare un inverno rigido o leggero; temono i tuoni nei primi tre giorni di febbraio e aprile perché allungano l’inverno di 40 ancora o annunciano la primavera; osservano la luna se ha un cerchio o se il sole al tramonto fa l’occhio di capra che è segno di acqua. E forti solo di questi segnali rivelatori decidono, come fecero i loro padri e i loro nonni, le transumanze, gli affitti di pascoli e i serragli
Ma la radicchia non è il solo medicamento portentoso in uso e diffuso. La panacea di tutti i mali si chiama rannula, che si introduce nel retto del bovino con le mani e possibilmente con l’aggiunta di un po’ di sale. Il male della milza si cura poi applicando una falce arroventata sul fianco e ai vitelli febbricitanti si dà brodo di pollo o si incide un orecchio. Qualche allevatore ricorre ancora al salasso, che si chiama qui scuoppu e lì sgobbio, per fronteggiare la febbre di Malta, che è la temutissima brucellosi; e tutti sanano i morsi delle zecche con fiori di ginestra fritti nell’olio e misti a nepitella, le ferite con decotti e i meteorismi con vino bollito.
A Tortorici, la capitale della pastorizia siciliana, 350 le sole aziende dedite alla transumanza, 11 mila i soli ovini censiti, il dispositivo di patronati, dalla Cia alla Coldiretti alla Fenape, è presente al completo e svolge un’attività frenetica di mediazione con la Comunità Europea da dove arrivano i sostegni finanziari più ghiotti e attesi. Il Comune più appartato della Sicilia, nascosto e soffocato tra alte cinte montane, è quello anche più vicino a Bruxelles. Ma conserva intatti i suoi antichi retaggi, a cominciare dalla pessima considerazione in cui sono tenuti i suoi pastori dai doppi cognomi che solcano la Sicilia da un mare all’altro creando colonie ed esportando un modello di vita ancestrale ma anche tecnologicamente moderno. Racconta Luigi Lombardo, tra i più attivi etnologi siciliani, che anni fa, trovandosi a Bosco Pisano di Buccheri alla ricerca di pastori per un documentario televisivo, si imbatté in un individuo apparso dal nulla come un indiano, con gambali, scarpe di cuoio, gilecco, coppola e accetta nella cinta, un pastore transumante contrariato dall’invasione del suo territorio. Che, come uscito dalla terra, disse a Lombardo con voce primitiva che lo stava seguendo da un pezzo per vedere fin dove voleva entrare e che stava pensando se ucciderlo, con tutta facilità e impunità. Poi finì per mangiare con lui a terra pane e companatico, attorno a un fuoco, parlando di Tortorici.
Che fosse uno di quei pastori, chissà se non tortoriciani, che hanno costituito una comunità introvabile in una zona inaccessibile dei Nebrodi? Si tratta di una leggenda nata dalla sopravvivenza del ceppo lombardo innestato in quello siciliano. Nel ‘53 anche Vittorini, nel giro che fece alla ricerca della Sicilia arcaica, diede credito all’esistenza di una comunità di pastori biondi e alti che vivono isolati dal mondo in qualche irraggiungibile altipiano dell’entroterra, ai confini tra le terre dei siculi e i territori dei sicani. Ma Vittorini, lo sappiamo, cercava l’elemento lombardo nella Sicilia araba, tanto da non esitare a vedere un vero e proprio deserto levantino nella piana di Calatamaura.
Della leggenda dei pastori arcaici, discendenti diretti e puri di Re Ruggero, a Tortorici nessuno ovviamente sa niente. Né bisogna crederci davvero. I tortoriciani sono gente pratica e fattiva. Al di là della brutta reputazione che si sono fatti, in materia di pastorizia non hanno rivali nemmeno nei fuoriclasse di Capizzi. In estate i pascoli demaniali e comunali, quasi ottocento ettari riservati all’allevamento estensivo, pullulano di transumanti rientrati in paese. E Tortorici con le sue 74 borgate si ripopola attorno al suo Fiumegrande. Fino ai 1200 metri di Floresta, i verdi campi dei precordi nebroidei si punteggiano allora dei colori variopinti della montanina, della cinisara, della modicana, della charolais e della limousine, le varietà bovine i cui incroci hanno dissipato la genuinità siciliana a favore di una dominanza tutta francese.
Pietro Lombardo, dirigente dell’Associazione allevatori, è la leva che regge il mondo tortoriciano: i pastori lo tengono per santo. Segue le pratiche dei contributi, controlla la profilassi e le vaccinazioni, organizza gli allevatori ed è impegnato nella realizzazione di un grande caseificio comunale che possa risolvere l’impasse della produzione lattiera. La media di capi per ogni allevatore tortoriciano è di circa quaranta tra bovini e ovocaprini. Si tratta di pastori quasi tutti transumanti, come del resto le grandi famiglie di allevatori: i Triscami innanzitutto, quattro fratelli che possiedono 800 bovini e 1200 ovini e che svernano a Oliveri; e poi i tre fratelli Miraglia, 600 capi in tutto, transumanti nel Canicattinese; i due fratelli Foti, 500 capi, da anni a smarinare tra Carlentini e Melilli. Stalle sociali, pascoli a usi civici, un caseificio comunale, un centro di distribuzione: Tortorici si sta attrezzando per fronteggiare l’implacabile concorrenza straniera che ha portato una mucca a valere non più di cento euro, un vitello 500 e 80 capre e pecore. Una miseria. La tosatura dal canto suo è un’attività ormai pressoché dismessa perché la lana non è più richiesta. E la mungitura, lo storico esercizio quotidiano dei pastori, è perlopiù praticata solo abusivamente, perché l’allevatore lascia ormai che del latte di vacca si alimentino i vitelli, non potendosi mungere in mancanza di speciali impianti, quale innanzitutto il pastorizzatore che costa oltre 20 mila euro e che perciò quasi tutti i pastori non possono permettersi.
La risorsa è proprio il vitello, che va abbattuto entro 24 mesi perché possa tenere un prezzo di rendita. La più parte degli allevatori cedono i vitelli a intermediari che posseggono stalle di finissaggio, dove i capi vengono ingrassati e preparati per il macello. Ma la vera risorsa resta il contributo Cee: 260 euro circa per ogni bovino, 50 per ovini e caprini. C’è poi un’altra fonte di guadagno che va invalendo grazie alla legge 12 che indennizza gli allevatori proprietari di capi infetti: ogni abbattimento procura 1500 euro e in tempi difficili come questi non mancano pastori che si augurano brucellosi, tubercolosi o leucosi, ma anche una lingua blu, pur di assicurarsi un profitto.
Tempi di vacche magrissime e di forte impegno dei distretti veterinari, impegnati nell’opera di vaccinazione a tutto spiano come anche in quella di eradicazione a tappe forzate.
Le leggi 833 e 54 non hanno dettato solo norme di salubrità e uniformità in ambito comunitario, ma hanno anche legato i pastori alla terra richiedendo particolari qualità dei terreni biologicamente trattati. Le proprietà organolettiche dei pascoli sono così diventate prioritarie, sicché ha avuto ragione Pitré a vedere come “il siciliano più che nel mare che lo circonda dovette cercare nella terra il primo suo natural nutrimento: e non senza ragione gli antichi chiamarono l’isola la terra di Cerere”. Una terra da perticale.
Giuseppe Ferrara ha oggi 80 anni ed è conosciuto a Pachino come un principe dei viticoltori. Ha fatto il contadino per tutta la vita e per tutta la vita ha scritto poesie riempiendo di una grafia minuta e fitta tre grossi faldoni che cura oggi come vitigni. Ha conservato le abitudini del contadino e alle 4 del mattino è ogni giorno in piedi. Si siede allora nel tinello, accende la televisione e scrive poesie, distillando in pensieri spiccioli e sciolti il sapere e il sapore che l’educazione contadina e l’osservazione del mondo naturale gli hanno inculcato in tanti anni di vita all’aperto. Ha avuto in estaglio e in proprietà chiuse grandi dalle quali è arrivato a cavare fino a 550 ettolitri di mosto. Ed è arrivato anche a laureare un figlio medico e un’altra architetto.
Oggi, quando non scrive poesie, intaglia il legno tenero per farci sedie e tavolini usando la pazienza del certosino, meglio ancora del contadino, avvezzo al ritmo lento delle stagioni, delle semine e del raccolto. Riconosce la peronospora sul nascere, usa l’erba bianca come infuso digestivo e la gramigna come decotto rinfrescante. E guarda ancora, per sola abitudine, il cielo tre volte al giorno, come una cura contro la vecchiaia: la mattina, a mezzogiorno e a mezzanotte, vedendone le variazioni: perché il tempo dà segnali delle sue intenzioni, a vantaggio dei contadini che dal tempo ricavano ricchezza e povertà e che al tempo sono legati come ostriche agli scogli.
Ferrara ha venduto quasi tutte le sue terre e si è tenuto appena un fazzoletto dove va di quando in quando a sentire il buon odore che fa la terra. Nel piano sotterraneo di casa sua, il palmento che aveva costruito per farsi, davvero, il vino in casa manda ormai l’odore stinto delle cose dismesse e passate, della vita che non c’è più. E dove con la moglie pestava l’uva tiene ora un’Ape buona per andare in campagna, una sediola e un banchetto per piallare e inchiodare, così da mettersi sull’uscio e credere di vedere nella strada verghiani “campi biondi, colle siepi in fiore e i lunghi filari verdi delle vigne”. Come fanno i contadini.

Da "L'isola che trema", Avagliano, 2006