martedì 22 luglio 2014

Grillo, un destino da corvo


Currò, Di Maio, Lombardi, Di Battista, e non ultimo Casaleggio, per nominare i pentastellati più noti, non hanno ancora capito che loro esistono grazie a Grillo. E che senza Grillo tornerebbero nella polvere. Nonostante tutti gli sforzi per darsi un'etichetta propria, sono e saranno sempre non altro che grillini.
E' l'effetto che dà il successo: diventati qualcuno si crede di esserlo sempre stati e si dimenticano i debiti di riconoscenza e affiliazione. Successe nel 1994, all'indomani del grande exploit di Forza Italia: quanti divennero dalla sera alla mattina parlamentari tolsero il saluto agli amici e pure in famiglia diedero subito disposizione di essere chiamati "onorevole". Da nessuno che erano il giorno prima vestirono il laticlavio, indossarono le penne del pavone e cominciarono a dettare legge su sindaci, assessori e persino prefetti che non li avevano mai neppure guardati. Furono chiamati berlusconiani, poi berluscones, poi forzitalioti e infine persero pure il nome.
Vent'anni dopo il fenomeno si ripete con Cinquestelle, che nasce dal basso come Forza Italia per iniziativa di un unico uomo. A differenza che la Rete di Orlando e la Lega di Bossi come l'Italia dei valori di Di Pietro, movimenti sorti a iniziativa individuale ma subito costituiti in partiti e organi capaci di operare e prosperare senza il fondatore, Forza Italia e Cinquestelle si distinguono per l'identificazione con i loro artefici. Si è già visto che mancando o distanziandosi Berlusconi, Forza Italia perde presa con l'elettorato; così come si è visto che, rifiutandosi Berlusconi di foraggiare di tasca sua il partito, diventa difficile tenere in piedi l'apparato. Diventa altresì difficile tenere unito il partito anche quando, come pure abbiamo visto, l'artifex maximus prende iniziative non condivise (come nel caso di chiamarsi fuori dal governo Letta, decisione che portò all'insorgenza del Nuovo centrodestra di Alfano) o cade in rovina: venendo meno la sua forza di coesione e la sua presenza, il partito si sgretola e frantuma.
Tutti questi epifenomeni li hanno visti anche i grillini, che invece di farne tesoro si ritengono immuni dagli effetti di eventi che sono naturali e inevitabili: così Di Maio si erge da centurione a imperatore, la Lombardi aspira al titolo di regina, Casaleggio punta a farsi primus inter pares, Di Battista si arroga pretese di capocorrente e gran parte del movimento, aduggiato dal progetto di farsi partito, assume intraprese che mirano tutte, in un modo o l'altro, a ridimensionare Grillo e la sua vena di estemporaneità. Senonché è proprio l'estemporaneità il cuore di Cinquestelle, la sua forza di fare il jolly guastatutto o guastafeste, la sua vocazione a rompere patti appena siglati, a contraddirsi su questioni stabilite, a rendersi pragmatico e mimetico, adattabile alla contingenza. 
Sembra pochezza ideologica e opportunismo, ma in quel grande laboratorio sperimentale che è la Sicilia, dove è stata saggiata ogni formula applicata poi sul piano nazionale, già dal 1948, questa extravaganza politica è un dejà vu perché l'Mpa di Raffaele Lombardo si mosse sempre in maniera ondivaga raccogliendo consenso proprio nell'ambito elettorale più numeroso, quello appunto degli incerti e dei pragmatici. Per mesi Lombardo tenne in scacco la formazione del governo nazionale dichiarandosi pronto ad aderire a una o all'altra maggioranza di destra o di sinistra in base a quanto il suo partito, portatore di interessi meramente sicilianisti, avesse ottenuto. E' la logica che oggi persegue Grillo, che se non è interprete di aspettative territoriali è comunque megafono di rivendicazioni sociali e civili oltre che economiche che evocano le battaglia di Pannella e dei suoi radicali. 
Nessuno scandalo quindi - quello che gli ottimati del Movimento, educato al principio tutto democristiano, anzi doroteo, che pacta servanda sunt, vedono con raccapriccio nelle veroniche di Grillo - se il fondatore di Cinquestelle sostiene una sua filosofia che tiene conto della circostanza e del momento e che piega la vela nella direzione del vento, così emulando gli insegnamenti di Petrarca. Questa politica si chiama oggi opportunistica, ma nel vuoto della società ideologica immaginata da Bobbio è scontato che non sia possibile averne un'altra, fondata su valori condivisi e su retaggi consolidati. 
Come possono avere valori storici formazioni neonate ed effimere come Scelta civica, Italia dei valori (sic!), Nuovo centrodestra se quelle più rilevanti e remote, quali Forza Italia, Pd e Ccd, stentano a tenersi legate alle loro radici? Perché, in questa terra desolata, dovrebbe essere il solo Grillo a professare coerenza e perseguire ideali inalterabili e duraturi? Perché soprattutto Grillo dovrebbe fare proprio il modello di comportamento di tutti gli altri - come gli richiedono con le dita negli occhi, i suoi colonnelli e tenenti, diventati conformisti in tempi record - e aderire a logiche di composizione di maggioranze secondo i vecchi manuali, in base ai quali un partito che non contribuisce alla formazione di una maggioranza non fa gli interessi del Paese e ne mina dunque la governabilità? 
Grillo sa bene, a differenza di quanti ha portato con mano e una spinta sugli altari, che il giorno in cui si adeguerà ai principi dettati dalla partitocrazia il suo movimento sarà finito e lui dovrà tornare a fare ridere nei teatri: esattamente quello che stava per fare offrendo la mano a Renzi e assecondando le visioni consociative dei suoi camerlenghi. Si è tirato, almeno finora, indietro con un balzo come se avesse visto all'ultimo momento il baratro. Ma ci saranno altri baratri ad aprirsi davanti a lui. E altri figli e figliocci che cercheranno di portarlo fino all'orlo: per fargli fare il salto dall'altra parte nell'alternativa di buttarlo giù.