Commentando gli esiti del processo Ruby tra primo e secondo grado, Roberto Saviano scriveva ieri su Repubblica: “Non mi interessa oggi aggiungere la mia voce a quella di chi ha voluto commentare gli esiti del processo Ruby tra primo e secondo grado”. Ma il giornale cui collabora non deve averne capito le intenzioni se ha titolato la sua analisi “Ruby: un’inchiesta, due sentenze”.
Ha ragione il giornale perché il camorrologo si è abbondantemente profuso anzichenò in quello che è stato un commento in cuore e fegato, giustificato con l’avvertenza che “le sentenze vanno accettate ma allo stesso tempo non si può cedere alla logica poco democratica secondo la quale non potrebbero essere commentate”. Quindi, non volendo fare alcun commento con l'aggiunta della sua voce al chiacchiericcio generale, ma alzandola eccome, il giurista campano ad honorem ha ammesso che era proprio un commento quel che voleva fare: incentrato soprattutto – e giustamente – in difesa di Ilda Boccassini, la vera sconfitta della doppia partita andata e ritorno contro Berlusconi. Il quale sin dalla sentenza di primo grado ha preteso di poter commentare e criticare la condanna a sette anni, e con lui tutti quelli del suo corteggio e del suo cortile, sentendosi però sempre opporre, in un tono che non lasciava spazio ad alcuna replica, che le sentenze vanno rispettate e non commentate.
Ha ragione il giornale perché il camorrologo si è abbondantemente profuso anzichenò in quello che è stato un commento in cuore e fegato, giustificato con l’avvertenza che “le sentenze vanno accettate ma allo stesso tempo non si può cedere alla logica poco democratica secondo la quale non potrebbero essere commentate”. Quindi, non volendo fare alcun commento con l'aggiunta della sua voce al chiacchiericcio generale, ma alzandola eccome, il giurista campano ad honorem ha ammesso che era proprio un commento quel che voleva fare: incentrato soprattutto – e giustamente – in difesa di Ilda Boccassini, la vera sconfitta della doppia partita andata e ritorno contro Berlusconi. Il quale sin dalla sentenza di primo grado ha preteso di poter commentare e criticare la condanna a sette anni, e con lui tutti quelli del suo corteggio e del suo cortile, sentendosi però sempre opporre, in un tono che non lasciava spazio ad alcuna replica, che le sentenze vanno rispettate e non commentate.
Che le sentenze non vadano discusse è un refrain che abbiamo sentito da tutti, Saviano per primo, a onore e maggior gloria di un potere giudiziario visto come dogmatico e al quale occorra prestare fede e ubbidienza senza mai sindacarne la condotta e le decisioni. Ora invece, di fronte all’assoluzione dell’ex premier con formula piena, scopriamo dagli stessi integralisti dell’intangibilità del verdetto che - come scrive il resipiscente Saviano non senza qualche punta di imbarazzo – che “come ogni azione umana, come ogni azione pubblica che produce effetti sulla vita di ciascuno, anche le sentenze possono essere commentate”.
Un testa-coda insomma da rompersi la testa. Senonché Saviano si rende conto che sta per perdere il controllo di sé stesso e tenta una manovra davvero spericolata: bravissimo nell’essere riuscito a stabilire che anche la facoltà di commentare le sentenze è stata tuttavia inquinata e compromessa dal berlusconismo. Sentite quali ragioni adduce e quale spiegazione propone nel proposito di risvegliare Gorgia e farsi suo pari: “La magistratura è un ambito ben più complesso di ciò che si vede, di ciò che si vorrebbe mostrare e il berlusconismo, nei suoi effetti più nefasti, ha reso poco credibile ogni critica al suo operare, poiché ne ha cristallizzato l’idea su un piano di opposizione politica oggi ancor più insostenibile”.
Da questo arzigogolato ghirigoro a coda di topo par di dedurre che per il fatto di aver lungamente e tenacemente protestato contro la giustizia per una sentenza aspramente e ripetutamente contestata, al punto nondimeno da avere alfine riconosciuta ragione dalla giustizia stessa, Berlusconi ha reso “poco credibile” il diritto di commentare una sentenza perché questo diritto si è tradotto in abuso configurandosi come mera opposizione che si è cristallizzata diventando insostenibile, ovvero indisponibile.
Che fatica essere alfieri della società civile quando la società civile si mette totalmente a nudo e mostra di non essere né bianca né nera ma grigia e di cento sfumature. In questi casi il miglior sofismo vuole che occorra alzare sia il tiro che la posta: cosicché Saviano (che avrà letto, come egli informa, centinaia di processi ma anche qualche voluminoso libro di retorica) può dire che “il dibattito sul sovvertimento della decisione di secondo grado è legittimo e visto il soggetto coinvolto anche necessario”.
Dunque, se è vero che è stato grazie ai suoi onerosissimi avvocati che Berlusconi l’ha fatta franca, è però anche vero che a dispetto dell’assoluzione rimane quello che è e perciò è giusto contestare non la magistratura in genere o le corti ma la specifica corte d’appello che ha rifatto la verginità (letteralmente) a Berlusconi: tant’è che Saviano, apertis verbis, scrive che la sentenza di primo grado - fulgida e inappellabile, definitiva insomma - è stata “emessa da un Tribunale, da un collegio di magistrati, e non certo dalla Procura della repubblica”.
Ma che cosa ha fatto Saviano - per dirla in gergo di telecronista davanti a un pallonetto: a parte l'errore di aver assimilato un tribunale alla magistratura, ha messo una sentenza contro un’altra, un grado di giudizio contro un altro e, botto finale, due procure in rotta di collisione. Potenza del neosofismo! Non c'è nessuno oggi che meglio di Saviano conosca l'arte di vincere ogni discussione usando gli stessi argomenti secondo opportunità. Nella speranza che non gli finisca come a Strepsiade di Aristofane che volendo nelle Nuvole imparare il "discorso giusto" finì vittima di quello ingiusto.