giovedì 24 luglio 2014

Concordia, esultano anche i morti?


Non vorremmo che l'entusiasmo, o quantomeno l'interesse, attorno alla Concordia rimessa in mare, sia pure come carcassa, nasca dalla tragedia anziché dall'impresa: come se, in mancanza di vittime, la rimozione sarebbe apparsa non più che un semplice traino. La morte esalta il sacrificio che spinge a nobili gesta e creando martiri genera eroi.
Suona grottesco leggere giornali e sentire testimoni gridare al miracolo, nonché vedere manifestazioni collettive di giubilo come per un inusitato gol della nazionale e sfogliare paginate di giornali che, dai titoli, sembrano inneggiare alla conquista italiana di un pianeta irraggiungibile. Ed è pressapoco vergognoso parlare di orgoglio e di successo, gonfiarsi il petto ed alzare i pugni al cielo per aver fatto l'impresa. Senza i 32 morti che nessuno riporterà in vita, il risultato dell'operazione sarebbe stato visto in una dimensione più tecnica e meno esaltata. 
Ma la morte ha caricato la missione dello spirito della rivincita, dove il risollevamento dal fondo del transatlantico trasfigura e ripaga il sacrificio di persone che sembrano essersi immolate per adempiere una grande nemesi nazionale. Se i morti chiedono vendetta o giustizia, accusando una filiera di autorità di incompetenza e irresponsabilità e mettendo perciò un intero Paese sul banco degli imputati davanti al mondo, quale migliore risposta che dimostrare quanto l'Italia sia invece tecnologicamente preparata in senso avveniristico e capace di operazioni titaniche tali da meravigliare lo stesso mondo costretto perciò a ricredersi sul nostro conto? 
Senza quei morti, i cui parenti non stanno certo esultando come tutti gli italiani e per i quali incompetenza e irresponsabilità rimangono allo stato già consegnato alla storia, la rimozione della carcassa sarebbe stato non un evento ma una procedura tecnica e giudiziaria, né i giornali avrebbero oggi, come i telegiornali ieri, esultato facendo un pot-pourri di lacrime e gioia, parlando di riscatto contro la vergogna e salutando la grandezza dell'impresa. 
Ma i morti ci sono. Ineliminabili e indimenticabili. La loro presenza in spirito all'Isola del Giglio avrebbe dovuto raccomandare sobrietà e toni bassi, indurre tutti a comportarsi come soldati che, reduci da una battaglia vinta, non setacciano esultando e gridando il terreno alla ricerca dei compagni morti, ma ritengono che anche davanti a un solo morto, uno solo, non ci può essere né una vittoria né una sconfitta, ma solo la sacralità della morte e il rispetto per chi rimanga a piangere. 
Festeggiare una nave recuperata, che molte famiglie considerano un cimitero, ed encomiare come eroi quanti hanno concorso (facendo non altro che il loro lavoro: ben remunerato peraltro) all'operazione, da immaginare adesso come astronauti appena sbarcati dalla navicella spaziale di ritorno da una guerra stellare, ripresi in televisione magari al rallentatore, tutti in riga nell'opalescenza dell'alba di un nuovo giorno, ci sembra una commedia che voglia aduggiare la tragedia. Quasi che più grandi siano i riconoscimenti e meno gravi siano le colpe o minori siano stati i morti. Senonché ci piace, tra festeggiare e commemorare, scegliere la via che ci rende ripuliti e restituiti al nostro decoro e alla nostra dignità. Quando poi è tutto il mondo a guardarci e lodarci, allora, da piccoli italiani quali siamo sempre rimasti, eccoci pronti a dimenticarci non i morti ma pure i loro carnefici.