martedì 6 maggio 2014

Le regole dei tifosi per salvare il calcio



C'è chi tende a distinguere i tifosi italiani tra buoni e cattivi imputando la violenza solo ai secondi, chiamati ultras, un epiteto che un tempo indicava le curve nella manifestazione della loro passione e che oggi designa turbe scatenate assetate di sangue. 
Ma se si chiede a "Genny 'a carogna" di quale schiera si ritenga parte non risponderà di essere un ultrà violento, quanto un ultrà e basta, perché non conosce l'altra categoria né capisce davvero e in tutta fede qual è la differenza. La distinzione sembra in sostanza definirsi sulla base dell'accanimento prestato nel tifo, secondo se si esageri o meno: come se stupratore possa essere solo chi metta incinta la vittima. Lanciare una banana in campo designa perciò un ultrà violento o un tifoso appassionato? Dipende, par di capire, se la banana colpisce qualcuno e dal danno fisico che gli causa. Così è anche per un petardo o per la tessera del club avvolta in un sasso. 
Secondo questo criterio il laser è un'arma in mano agli ultras che vogliono condizionare la partita quando è puntato agli occhi del portiere mentre diventa un innocuo scherzo da spalti se diretto in faccia a un tifoso avversario da sbertucciare. Non può essere così. Il tifoso è uno e indivisibile e si comporta ubbidendo alla sua natura, come una belva che in determinati casi assale e in altri si dilegua: per istinto anziché secondo ragione. 
Occorre una presa d'atto: le tifoserie non si riconoscono e distinguono se facendo sciame diventano violente ma dal legame alla maglia, che vista come una bandiera le rende, secondo il grado di identificazione in essa, da accese a irriducibili a fanatiche fino a violente. La distinzione va semmai fatta tra tifoso e spettatore, il quale si tiene a distanza dalla squadra e molte volte anche dallo stadio e quindi di scarso interesse per le società. Cui giovano i primi anziché i secondi. 
Quando vediamo giocatori e allenatori che spronano le tribune a incitare la squadra, dove incitare non può che significare mettere timore agli avversari gridando, inveendo, facendo i buuuu e ricorrendo a ogni mezzo lecito purché efficace a intimidirli, non si rivolgono certo agli spettatori ma legittimano le tifoserie nell'esercizio della forza, che può essere verbale, espressa con striscioni e boati, potendo anche trascendere fino a mutarsi in violenza vera e propria. Quando i nomi dei giocatori che segnano un gol vengono gridati dall'altoparlante con l'invito ai tifosi a ripeterne il cognome o quando vengono lette le squadre che scendono in campo al ritmo di osanna e crucifige non si fa che porre le condizioni per una contrapposizione che è vista come uno scontro nel quale il fattore campo, cioè la presenza del pubblico amico, assume un'importanza tenuta massimamente in conto nei pronostici e nel modo di affrontare la partita. Che si chiama partita perché divide, rende partigiani, quindi militanti e guerrieri.
Il calcio ha perso il terzo tempo perché apparso contraddittorio e ipocrita. Il farplay si è ridotto a una fugace stretta di mano tra gli allenatori a fine gara, il più delle volte senza sorrisi e senza nemmeno guardarsi in faccia, perché è proprio così che li vogliono i tifosi, attaccati ai propri colori sociali, soldati pronti al sacrificio, e non professionisti che cambiano casacca secondo convenienza economica e carriera. I tifosi non amano i giocatori che si scambiano alla fine le maglie, che all'inizio si stringono la mano e che negli spogliatoi si fanno i buffetti. Quando ciò avviene loro cantano inni velenosi, intonano invettive ed epinici, celebrano riti del tutto diversi da quelli in campo e ne prendono perciò le distanze. Accorciare queste tra tribune e terreno di gioco significa risolvere il problema vero, che non sono i tifosi ma il calcio com'è oggi. 
Il costume, per esempio, di non esultare a un gol fatto alla ex squadra è sì un gesto di rispetto alla tifoseria lasciata per un'altra ma anche un affronto alla propria che pretende di festeggiare insieme, sicché si sbaglia in ogni caso con la conseguenza di irritare una o l'altra, perché la tifoseria è l'elemento di un club che non va via mai. Cambiano i giocatori, cambiano gli allenatori e i presidenti, ma i tifosi rimangono tali a vita. Sono dunque loro i veri padroni del calcio, quindi pretendono di disporne dettando le regole del gioco. Non c'è incoerenza. Se si vogliono pacificare le tribune occorre soddisfare le attese dei tifosi: innanzitutto la casacca deve essere considerata immodificabile e non può che essercene una, quella tradizionale e ufficiale, l'altra potendo essere utilizzata solo in trasferta e nel caso di confusione dei colori in campo; di conseguenza non possono aversi undici paia di scarpette diverse, maglie con le maniche corte e altre lunghe, giocatori con sotto-pantaloncini e canottiere, altri con maschere di protezione o paradenti. Due, i giocatori non possono essere ceduti dopo tre anni essendo necessario che fidelizzino con la tifoseria che deve sentirli propri e inamovibili, non di passaggio e sempre sul mercato. Tre, gli allenatori e i commissari tecnici devono entrare a far parte della società come dirigenti riconoscendosi in essa e dividendone le sorti. Quattro, i tifosi devono in un sito apposito esprimere il loro parere sulla squadra da mandare in campo e sul risultato della partita, cosa di cui l'allenatore deve tenere debito conto. Responsabilizzare i tifosi significa renderli compartecipi. E stabilizzare la squadra significa renderla espressione della tifoseria. Identificarla in una uniforme, in uno stile, in una città significa alla fine amalgamare tribuna e campanile in un sentimento comune che azzera gli ultras e fa dei tifosi dei giocatori anch'essi.