martedì 15 settembre 2015

Grand Hotel / Villa Igiea dei re e dei tiranni



Quando la first lady Hillary Clinton chiese di poter avere pezzi dei mobili di Villa Igiea e per convincerla che, al di là del prezzo, non era davvero possibile accontentarla, sicché in cambio le fu promesso che le sarebbe stata intestata la sua suite (impegno ovviamente non mantenuto anche perché nessuna ha mai avuto un nome ma soltanto un numero), furono usati dal personale argomenti di persuasione non diversi da quelli riservati al noto esponente politico che più volte ha chiesto di poter acquistare un dipinto di Leto esposto nella hall (oggetto di due tentativi di furto commissionati probabilmente da lui), attratto forse dal dandy che si inchina davanti a un gruppo di aristocratici.
Per qualche motivo gli ospiti si innamorano a tal punto di questo albergo eternamente decadente e così evocativo dei fasti della belle époque e del liberty della “Palermo felicissima” da volerlo quantomeno in piccola misura possedere. Sarà perché Villa Igiea si identifica ancora nei Florio, che caduti dall’alto del loro splendore si trovarono nella miseria più nera e spogliati di ogni bene, fatto è che l’albergo dove qualcuno di tanto in tanto crede di sentire suonare un pianoforte e di vedere aleggiare l’ombra di Donna Franca è visto come un oggetto di desiderio non meno della sua principale artefice al tempo dei grandi balli, le serata di gala e i sontuosi ricevimenti, quando il marito tratteneva a stento la gelosia per le attenzioni che la moglie si lasciava tuttavia scivolare lungo i suoi cento sontuosi abiti da sera. Anche re, tycoon americani e nababbi arabi sono stati preda di questa malìa. 
Il deposto re Costantino di Grecia volle per esempio vivere qui fino alla morte. Un americano che dava mance anche a chi gli rivolgeva solo la parola, Albert Burnus, tornò per anni in ogni primavera a Villa Igiea finché non gli rubarono tre paia di scarpe, fece una casa del diavolo e si scoprì che era un grande truffatore più volte in galera. Un principe di Abu Dhabi, Al Hamed, convinto dai suoi medici a curarsi all’Ismett, occupò una suite a tempo indeterminato facendosi ricordare non tanto perché ordinava solo quaglie arrostite quanto perché il suo prolungato soggiorno creò un serio incidente. Era atteso, come ogni anno, Al Thanj, un emiro del Qatar, che aveva sempre occupato la stessa suite. Per dirimere la questione fu incaricato dalla direzione l’attuale chef concierge, Philip Kamel, che essendo egiziano poteva avere qualche chance. Kamel parlò al segretario di Al Hamed, venuto con un corteggio di venti persone, ma non ci fu verso di convincerlo a trasferirsi in una stanza ancora più bella. Le cose si complicarono quando il segretario dell’emiro chiamò quello di Al Hamed ingiungendogli di convincere il principe a lasciare la suite. Mal gliene incolse, perché il principe disse no andando su ogni furia e quel che nacque fu un inevitabile braccio di ferro. Il povero Kamel non sapeva più che fare per salvarsi il posto. Ci riuscì grazie all’incredibile gesto dell’emiro, che fece recapitare al principe la più grande confezione di fiori mai vista, sennonché andò ad alloggiare in un altro hotel e a Villa Igiea non è più tornato. Né la moglie Mosa si è fatta più vedere. Veniva da sola, preceduta da uomini dei Servizi segreti incaricati della sua protezione, e restava a lungo girando freneticamente la Sicilia in lungo e in largo. Una preziosa perdita dovuta all’ineluttabilità che il principe degli Emirati si innamorasse della suite e non volesse cederla. Capita di frequente qui.
Anche uno dei figli di Gheddafi rimase affatturato dall’idea di oasi che l’albergo suggerisce, tanto da aver con tutta noncuranza fatto pipì dietro una palma della terrazza, davanti agli ospiti costernati e pensando al suo deserto oltre il mare turchese e abbacinante che fa tutt’uno con l’hotel. Non ha lasciato naturalmente un buon ricordo. L’ultima volta fece arrivare una ragazza dalla Russia e, dopo averla ospitata, un uomo del seguito chiese all’albergo di anticipare il biglietto aereo di ritorno mettendolo sul conto. Ma al momento della partenza del gruppo, nonostante i solleciti, il biglietto non fu rimborsato e Kamel non ci pensò due volte a fare chiudere i cancelli. L’ignaro Gheddafi Junior chiese allora spiegazione e quando l’ebbe rovesciò sul suo segretario uno schiaffo talmente perentorio che quello capì subito di dover pagare in contanti. Kamel riaprì i cancelli non senza avvertire gli autisti delle tre Mercedes noleggiate per i libici di farsi pagare prima. I tassisti non lo fecero e dopo tre giorni di giri turistici per la Sicilia, il tempo di scaricare le valigie in aeroporto, rimasero ad aspettare il solito segretario spennati e gabbati. I libici erano già sul volo di ritorno. 
Anche Kamel vanta un credito, quello che lasciò Alberto Sordi quando gli chiese un taxi. Niente rispetto alle cinquantamila lire che prima della Grande guerra non saldò una famosa cantante lirica del tempo, la slava Sminorva, che amava prendere il sole sulla terrazza e soprattutto essere corteggiata. Uno degli spasimanti era un aviatore che a volo radente sorvolava la terrazza solo per avere un languido cenno di saluto dalla divina di turno. Per poterla vedere ancora più da vicino, un giorno volò più basso e fece finire l’aeroplano contro gli scogli antistanti lasciandoci la vita. La Sminorva fu sconvolta e scappò dall’hotel “dimenticando” così di regolare il conto.
Pure Sabrina Ferilli un giorno scappò, ma solo dalla piscina. In un turista tedesco che la stava fotografando credette di individuare un paparazzo riuscito a spacciarsi per ricco ospite e se la diede a belle gambe. Altrettanto fece Sylvester Stallone che per sottrarsi all’ennesima fotografia di turno, reclamata da un gruppo di giovani soggiornanti, infilò una porticina di servizio lasciando senza parola gli inservienti che credevano si fosse perso e vittima perciò di una crisi d’ansia, visto come correva.
Ben altro il comportamento col prossimo mostrato da re Juan Carlos di Spagna, che con amabilità e umiltà si intratteneva a parlare pure con la servitù. Un fattorino, Nino D’Agati, ricorda una futile conversazione come tra amici, tenuta lui in palermitano e il re in castigliano, senza un solo attimo di incertezza. Dennis Lee Hooper fu altrettanto cordiale quando chiamò un portiere e lo invitò ad andare a mangiare focacce in giro per Palermo. Tutto il contrario di Onassis che se ne stava sempre al bar senza rivolgere la parola se non al banco per ordinare e mai che atteggiasse un sorriso a qualcuno.
Nomi su nomi. Da Villa Igiea è passato in realtà l’intero bel mondo che ha messo piede a Palermo. Il lungo corridoio della hall, pavesato di foto, è anche una galleria di personaggi illustri di tre secoli. Doveva essere un sanatorio e ben altri sarebbero stati allora gli ospiti. Dell’idea di ospedale è rimasto comunque il nome - che è quello, storpiato, della ninfa della salute Igea come anche della figlia dei Florio - e forse per questo il Grand Hotel è considerato da sempre un albergo della salute. Si diceva una volta che per venire qui e coglierne lo spirito più d’antan occorresse aver letto Proust e assimilato atmosfere primonovecentesche del tempo in cui Palermo era un quartiere di Parigi. Forse, a guardarsi attorno e aggirarsi, è così ancora oggi.

Articolo pubblicato il 13 settembre 2015 su la Repubblica di Palermo