venerdì 11 settembre 2015

La parlata siciliana rilanciata da Camilleri

 


La voga di chiedersi se i libri di Camilleri siano da ritenere dei tascabili e quindi da escludere dalle classifiche maggiori di vendita sottende il più importante interrogativo circa la loro vera natura letteraria e di conseguenza se cooperino al ritrovato interesse per il dialetto siciliano. Parlando proprio con Camilleri, Sciascia gli si confessava scettico quanto al successo di un genere (quello del pastiche linguistico giocato sui fonemi dialettali e condotto alle estreme forme espressionistiche) che pur in Sicilia, dentro un quadro di riferimento alla cultura popolare, ha non pochi sectatores, a partire da Verga, che nell’argot siciliano pesca locuzioni, stilemi e proverbi. Lo stesso Sciascia indugia con manifesto interesse etnoscopico attorno alla fonte del dialetto abbeverando i suoi romanzi, anche i meno partecipi della tensione siciliana, alla parlata agrigentina: fino a concepire una raccolta, Occhio di capra, che insieme con Museo d’ombre di Bufalino non costituisce se non il ritorno al forte richiamo civile delle tradizioni popolari, viste come retaggio tutto ottocentesco, che da Pitré in poi la “materialistica” cultura siciliana non si è mai sentita di abbandonare, intestandosi anzi il dovere di ricercare l’“antiquam matrem” in ossequio a quello statuto regionalistico che ha comandato a eruditi ottocenteschi e poi a intellettuali del Novecento di far conoscere la Sicilia agli italiani.
Stando così le cose, c’è da chiedersi se il successo dei libri di Camilleri sia il segno di un apostolato che, da Tempio a Buttitta, da Guglielmino a Vann’Antò a Calì, da Lanza a Savarese, da Pirandello a Martoglio, da D’Arrigo a Consolo, ha sostenuto il credo collettivo di promuovere la Sicilia. O se piuttosto il caso Camilleri non abbia che stinto una koiné siciliana aduggiata dall’invalenza dei vieti stereotipi che soltanto autori come Vittorini e Lampedusa (nei quali mai ricorre un solo vocabolo dialettale, pur riuscendo entrambi a tenere sempre fisso lo sguardo sul quadrante della Sicilia) hanno saputo scongiurare.
Tra un impressionista qual è Vittorini, assolutamente fedele al canone di purezza lirica derivata dal bellettrismo malapartiano, che può cedere a un barbarismo inglese ma non mai a un motto gergale, e un espressionista com’è Camilleri agiscono in mezzo il Brancati che, pur concedendo spazio a voci dialettali, ricorre subito all’immediata traduzione a uso degli italiani; il Consolo che ripone il vocabolario degli antichi motteggi per fare piuttosto opera di ricerca delle arcaiche forme semantiche, così da rifondere la forma del romanzo nel suo contenuto; il D’Arrigo che ricrea la lingua dello Stretto con la cura e l’acribia di un demopsicologo.
Certo, se la divulgazione del dialetto siciliano, oggi divenuta oltremodo penetrante grazie a Camilleri, deve portare un critico come La Capria a tradurre il “Che fa, babbia?” del padre di Montalbano in un fuorviante “Che fa, balbetta?”, il rischio è non solo di rendere incomprensibile l’autore ma soprattutto che sia sterilizzata l’operazione di recovery della letteratura siciliana. La quale, dopo il successo di Camilleri, postula crociate diverse da quella, storica, di far conoscere la Sicilia agli italiani ubbidendo al gusto regionalistico. Oggi il problema è semmai quello inverso di agevolare l’approccio nazionale alla conoscenza della cultura popolare siciliana, distinguendo il lessico dialettale di Camilleri da quello di Bufalino, di Buttitta o di D’Arrigo, infarcito com’è di termini quali “gana” o “tambasiare” che appartengono alla sola parlata agrigentina e che come tali non possono rifluire nel dizionario siciliano in uso Oltrestretto.
Ma se, propagando tutti i dialetti quanti sono gli autori, il rischio è di coonestare una vena letteraria provincialistica al posto di quella regionalistica, a fare da freno al prorompimento di una vulgata camilleriana capace di fagocitare il dialetto provvede il dromo crociano secondo cui la letteratura dialettale non è eversiva rispetto a quella nazionale riguardandola piuttosto come modello. Come gli altri autori siciliani che non scelgono il vernacolo come unico mezzo espressivo, anche l’uso che Camilleri fa del dialetto si scioglie infatti nel lessico nazionale: è questo che viene portato in sala trapianto e non viceversa. Anzi, più che in altri, Consolo per esempio, l’utilizzo del dialetto in Camilleri appare limitato a singole parole o bons mots senza nessun tentativo di fusione polilinguistica.
E che la letteratura dialettale non sia eversiva ci dà atto Pirandello, secondo la visione che ne offre Gramsci, ripresa da Sciascia: il Pirandello nel quale “la cultura popolare di grado infimo”, cioè il folclore, riflette e ripete una concezione del mondo “filosofica” e dunque di carattere generale, col farsi nazionale e popolare e con l’equiparare il teatro dialettale a quello superdialettale.
Entro questa quadro, il pirandellismo di natura calato nel rapporto dialettale-dialettico risponde a un “credo realistico” che fa dire a Sciascia come sia “provata nella nostra letteratura l’impotenza degli italiani a fare realismo se non nei termini della dialettalità”. Il cerchio allora si chiude: Camilleri, autore realista di ispirazione gaddiana, dà ragione a Sciascia e ammicca nello stesso tempo a Pirandello, dopo il quale lui soltanto ha portato la cultura popolare siciliana “di grado infimo” così lontano. Con l’avvertenza che a diffondersi in Italia è oggi il solo idiotismo agrigentino, che qualifica così un secolo iniziato per la Sicilia nel segno della parlata martogliana e dunque etnea.