sabato 17 novembre 2012

Il romanzo marino che D'Arrigo non scrisse



Nelle intenzioni di Stefano D’Arrigo figurava un secondo romanzo marino dopo Horcynus Orca. Ma ben diverso. Il 16 marzo ’91, quasi un anno prima della morte, scrive a Cesare Zipelli, il “Rino” ragusano che gli è stato a Roma compagno di università e di pensione, nonché amico più che generoso nei frequenti momenti di difficoltà economica: “E’ giusto che sia tu il primo a sapere: il primo e il solo se la cosa dovesse finire in nulla”.
Finisce in nulla solo perché D’Arrigo muore, ma l’epistolario inedito scambiato tra i due documenta un progetto che risale a oltre trent’anni prima, quando lo scrittore messinese è impegnato nel disbrigo dei Fatti della fera. E’ appunto nel ’59 che gli riesce di concedersi con la moglie Jutta una vacanza a Caucana, ospite di Rino. Caucana è una località balneare sulla riviera ragusana, un tempo insediamento pregreco non lontano da Camarina. D’Arrigo è affascinato dai ruderi sulla roccia e disseminati nel fondale, che vede illuminati di notte dalle lampare. 
Così come va facendo nello stesso periodo tra le sponde dello Stretto, avvicina i pescatori e apprende - parlando soprattutto con quello che si fa chiamare “il capitano” - del contrabbando di sigarette cui sono dediti. Purnondimeno accantona l’idea perché si concentra sul suo romanzo infinito, le cui bozze spedisce di volta in volta in prima lettura proprio a Rino. Sarà Rino il solo messo a conoscenza dei reali travagli che fanno di D’Arrigo un uomo in perenne lotta per il completamento di quello che chiama semplicemente “il libro”. In una lettera del 3 giugno ’64 gli scrive: “E’ stato un periodo spaventoso quest’ultimo per me, e dire che ne ho avuti di periodi spaventosi. Sto male, caro Rino, sto male da parecchio tempo, sapendo che se interrompevo non ce l’avrei fatta a riprendere le fila. Quello che ho, i disturbi di cui soffro, che solo vedo io, non l’ho detto nemmeno a Jutta, perché significherebbe smetterla col libro”. 
Pur dedicato senza concessioni al suo libro, per trent’anni D’Arrigo tiene costantemente attivo il proponimento di scrivere una storia da ambientare nei luoghi iblei che lo hanno suggestionato in forza della contaminazione tra antico e moderno, arte e malaffare. Ne parla periodicamente a Rino, ma deve arrivare il 1991 perché metta mano finalmente al progetto. Informa dunque Rino e dalle informazioni che gli chiede di procurargli mostra di avere chiare le idee sul tipo di romanzo da scrivere. Rino lo ha aiutato senza risparmio nelle ricerche al tempo di Horcynus e gli si dichiara pronto anche stavolta. D’Arrigo pensa a un romanzo marino dove siano presenti la mafia e il contrabbando tra Sicilia e oltremare. Sulle prime è indeciso se scegliere Malta o la Tunisia. 
Nella stessa lettera del 16 marzo scrive a Rino: “Ho bisogno di avere sotto gli occhi un tratto di costa, che fosse più scogliosa che sabbiosa, lungo un centinaio di metri, dove io (per orientarti nelle mie esigenze) potessi descrivere due villini in una zona solitaria: uno nella parte scogliosa, solo abitazione; l’altro sulla rena, acquartierato, perché il capomafia che ci sta possa eventualmente difendersi. Questo villino, sul mare là davanti, dovrebbe essere tagliato fuori dagli aliscafi che vi ormeggiassero e rifornissero di carburante venendo dall’Africa lì davanti, metti conto dalla Tunisia (ma può un aliscafo fare quella distanza?)”. L’opzione tunisina, ancora del tutto embrionale per via di un’espressione, “metti conto”, che adombra una mera esemplificazione, lascia presto posto a quella maltese, perché è con Malta che la marineria ragusana intreccia maggiori scambi clandestini. Lo sa da trent’anni ed è rimasto conquistato dal genere di pescatori-fuorilegge del Mediterraneo così diversi da quelli conosciuti nello “scill’e cariddi”. 
In una lettera priva di data, ma certamente successiva, D’Arrigo chiede a Rino di dare risposta ad alcuni interrogativi: “Di quali commerci si occupano i maltesi con la Sicilia, con quali imbarcazioni, tra quali città tra Malta e Sicilia, e cosa: stoffe, oggetti d’uso, prodotti della terra, vini.” Vuole sapere di più: “Quali erano e in cosa consistevano questi famosi ‘segni neri di resa’ che l’armistizio prescriveva alle navi italiane decise a recarsi a Malta? Bandiere nere? Segni (quali?) dipinti a prua?” E ancora: “Rino, tu sei stato su una torpediniera, mi pare. In navigazione, in guerra, montavano sentinelle in coperta? ‘Sentinelle’ o ‘guardie’? Puoi dirmi alcuni posti della nave dove stavano? (castello di prua, plancia, tanto per farmi capire)”. La richiesta riguarda spunti da utilizzare come ecphraseis, descrizioni della realtà la cui occorrenza lascia supporre l’inizio della stesura. Non solo. L’urgenza di avere elementi circostanziati e non circostanziali è segno che D’Arrigo intende muoversi sullo stesso terreno percorso in Horcynus: in stretta aderenza cioè tanto al dato geografico quanto a quello storico. E la scelta di Malta rispetto alla Tunisia risponde giustappunto a una rigorosa esigenza di realtà 
Con uno scrupolo di cui ha dato testimonianza in Horcynus, D’Arrigo compulsa perciò l’amico Rino per sapere ogni cosa circa l’organizzazione maltese del contrabbando di sigarette, l’azione di contrasto della Finanza, i luoghi di smercio e approdo, il ruolo dei pescatori siciliani. Vuole anche una planimetria di tutte le strade secondarie che sboccano a mare lungo un raggio di ben oltre cento chilometri, un disegno delle caserme della Finanza dislocate nella costa, una mappa di Grammichele e una fotografia di Pantalica. Grammichele è un paese dell’entroterra ricostruito dopo il terremoto del 1693 con una pianta urbanistica a raggiera di singolare invenzione, mentre Pantalica è la remota necropoli sull’Anapo di forte interesse paesaggistico me archelogico. Zipelli soddisfa tutte le richieste e si prepara a seguire da presso il nuovo lavoro del quale sa soltanto quanto gli ha scritto l’amico Fortunato: “Da qualche tempo mi passa per la testa di scrivere una storia che abbia a che fare con la mafia senza averci a che fare, se mi permetti la contraddizione. Una storia di mafia che venendo dall’autore di Horcynus Orca non può non ingenerare stupore e qualche senso di attesa”. 
D’Arrigo è consapevole di affrontare un genere affatto diverso da quello frequentato per venti anni: non più l’avventura post-bellica di uno sbandato diretto a casa, ma una vicenda di gran momento, di stretta attualità e quindi di maggiore presa. Non mette dubbio che sia certo, in virtù di una comprovata e sorprendente conoscenza dello stato delle cose (che smentisce la sua supposta natura escapista), di destare stupore e attesa: è la stagione infatti che prepara le stragi mafiose del ’92 e che nello stesso mare presagisce ben altro commercio clandestino, quello imminente degli immigrati.

L'officina del romanzo mancato

Nell’89, tre anni prima di morire e quattro anni dopo l’atipico Cima delle nobildonne, D’Arrigo pensa a un paio di racconti di mare e il primo agosto scrive a Cesare Zipelli: «Carissimo Rino, nel ripassare tutto quanto riguarda l’Horcynus (impresa titanica perché tale si è rivelata), Jutta ha messo insieme una cartella a tuo nome dalla quale risulta quello che io e l’H. ti dobbiamo quanto a documentazione, consigli, delucidazioni ecc. ecc. Jutta fra l’altro ha ritrovato le tue “mappe” delle “fughe” di Sicilia e di Calabria per la pesca del pescespada e insieme ci siamo commossi guardandoci senza parlare. Perché Jutta sapeva che io in questo periodo non mi dò requie per uno o due racconti. Ti ho detto che dovrei uscire con dei racconti protagonisti dei quali dovrebbero essere i pescespada, ma più dei pescespada (e con i pescespada a paragone) i delfini. Solo che io non so assolutamente nulla di questa nuova rete (si chiama “spadara”) che così micidiale si rivela sui delfini. “Settemila delfini uccisi ogni anno”, ma è vero: come e perché? “questa spadara” sarebbe lunga 10 km? e larga quanto? e in quali mari da noi si può calarla una tale rete? e chi la usa? e come si usa? e quali pescherecci? e dove si fa una rete simile? e quanto costa? chi se la può permettere (quali cooperative dico)? Rino, se ti dò fastidio dimmelo, non me l’avrò a male. Il fatto è che vorrei tornare a parlare di cose di mare e mi sembra bello, molto di buon augurio (per questi racconti che vorrei scrivere), chiedere a te quello di cui ho bisogno. Rino, ancora una scocciatura: poiché non esisterà di certo una fotografia di pescespada e delfini insieme e io qui non saprei a chi rivolgermi per un fotomontaggio (anche di un solo delfino e un solo pescespada fotografati, cioè visti insieme per poter fare un confronto, specie della testa), hai modo tu di incaricare qualcuno? Mi faresti sapere come debbo comportarmi?». 
Un mese dopo, il 7 settembre, ottenuto da Zipelli quanto richiesto, D’Arrigo gli annuncia inaspettatamente che non ne farà niente: «Desidero dare per primo a te (ancora non ne ho accennato nemmeno a Jutta) la notizia che ho deciso di rinunciare al mio progetto di scrivere sulle “spadare”. Dai materiali che tu, grande amico di sempre, ti sei messo a procurarmi col tuo affettuoso interessamento contro difficoltà di ogni genere, mi sono persuaso che il progetto è di quelli che molto difficilmente passano dal giornalismo dove riescono, senza godere però di buona salute, alla letteratura dove non si riesce a trovargli un genere congeniale perché non si può proprio per niente sfuggire alla loro datazione: e questo, come puoi immaginare, riesce fatale alla creazione letteraria. Per darti l’idea, Rino caro, di quanto mi costa rinunciarci, basterà che ti dica che avevo già scritto una quarantina di pagine senza però che in esse comparissero ancora le “spadare”. Comprendo comunque che mi sarei sentito all’inizio non di un racconto per quanto lungo, ma all’esordio di un reportage che chissà dove mi avrebbe portato giornalisticamente, dovunque forse, ma letterariamente in nessun luogo. Dove mi trovo o credo di trovarmi adesso. Ma spero di dirti quanto prima, Rino, se e cosa mi verrà in mente di nuovo». 
Passano due anni e nel ’91 D’arrigo vagheggia un nuovo libro, non più racconti stavolta ma un nuovo romanzo, naturalmente marino. E’ una vecchia idea quella di una storia di mare che abbia uno sfondo mafioso, un’idea coltivata insieme con l’Horcynus finché, trovandosi a dovere scegliere, non decide per il romanzo messinese. Quello a cui ripensa nel ’91 lo immagina invece in provincia di Ragusa, teatro negli anni Settanta e Ottanta di un intenso traffico di contrabbando con Malta, e chiede all’amico Rino di fornirgli foto e documentazione circa insenature e approdi della zona. 
Negli anni Cinquanta, durante una vacanza sulla costa iblea, ospite in casa di Zipelli, D’Arrigo è rimasto stregato dal mare di Caucana che offre la vista sott’acqua di resti dell’insediamento pregreco e in superficie di barche e veloci motoscafi che lo solcano. Ne scrive anche una poesia concependo i morti sotto e i vivi sopra entro uno spirito che risveglia il mito classico. A suggestionarlo è soprattutto l’attività dei pescatori, dediti al contrabbando di sigarette anziché alla caccia delle fere, perciò così diversi da quelli dello Stretto. Il 16 marzo ne scrive a Rino: «E’ giusto che sia tu il primo a sapere (il primo e il solo se la cosa dovesse finire in nulla) quanto mi passa per la testa da qualche tempo, scrivere cioè una storia che abbia a che fare con la mafia senza averci a che fare, se mi permetti la contraddizione. Una storia di mafia che venendo dall’autore di Horcynus Orca non può non ingenerare stupore e qualche senso di attesa. E’ per questo che invece di dartela per telefono, te la dò per lettera questa notizia: perché non ti sfugga detta a voce, ma ti rimanga scritta una curiosità comunque vasta. Troppo di te mi fido perché ho bisogno di te, Rino, tanto per cominciare e non fermarmi alla premessa: ho bisogno di avere sotto gli occhi un tratto di costa che fosse più scoglioso che sabbioso, nei pressi non dico della vostra Marina di Ragusa, ma di Gela, di Scoglitti (Scoglitti più di Gela, troppo battuta dalla stampa). Un tratto di costa lungo un centinaio di metri dove io (per orientarti nelle mie esigenze) potessi descrivere due villini in una zona solitaria: uno nella parte scogliosa, solo abitazione, l’altro sulla rena, acquartierato, perché il capomafia che ci sta possa eventualmente difendersi. Questo villino, sul mare là davanti, dovrebbe essere tagliato fuori dagli aliscafi che vi ormeggiassero e rifornissero di carburante venendo dall’Africa lì davanti, metti conto dalla Tunisia (ma può un aliscafo fare quella distanza?). Per questa volta mi metto un punto, Rino, se già non ti ho rotto abbastanza con questa notizia preziosa, che ti ho dato però tanto lacunosa e da spratico che nemmeno ti venisse da un barbiere della penna». 
D’Arrigo morirà prima di cominciare a scrivere e del secondo romanzo marino non rimarranno che un’intuizione e un presagio: l’intuizione che la costa iblea sarebbe diventata una delle plaghe preferite dalla mafia per nascondere boss e latitanti e il presagio che quel mare sarebbe stato attraversato ancora più intensamente da ben altre imbarcazioni ricolme non più di sigarette ma di uomini.

La lunga malattia dell'Orca


E’ il 1971 e «Incantabiss», al secolo Arnoldo Mondadori, sente che la sua ora è vicina. E sente anche che il nomignolo di incantatore di serpenti, che si è guadagnato portando autori alla sua casa editrice, ha perso di significato, perché c’è uno scrittore che non gli riesce in alcun modo di persuadere a consegnargli il manoscritto. Lo scrittore è Stefano D’Arrigo, da dieci anni forsennatamente alle prese con un libro interminabile. Ma nonostante le ripetute prove di inaffidabilità, il vecchio Incantabiss crede ciecamente in D’Arrigo e gli corrisponde mensilmente circa centomila lire come ratei di un generoso anticipo che, insieme con lo stipendio di dirigente Inps della moglie Jutta, gli permettono non solo di dedicarsi con più animo al suo libro ma anche di alleggerire la pressione sugli amici perché comprino da lui quadri e opere d’arte il cui commercio costituisce la sua principale attività. 
Uno dei più assidui clienti è Cesare Zipelli, il «Rino» amico d’infanzia, anch’egli messinese, compagno di studi all’università e di pensione a Roma, il primo al quale fa leggere le bozze del romanzo. Zipelli, oggi novantenne, conserva tutte le lettere ricevute da D’Arrigo dal ‘46 al ’92, in gran parte rimaste inedite. E’ in una di queste che nel giugno del ’64 D’Arrigo gli ha confidato i primi segni di uno stress, causato dall’ossessione per il «libro», che gli costerà violentissime emicranie e infine l’equilibro mentale: «Sto male, caro Rino, sto male da parecchio tempo, sapendo che se interrompevo non ce l’avrei più fatta a riprendere le fila. Quello che ho, i disturbi di cui soffro, che solo io vedo, non l’ho detto nemmeno a Jutta perché significherebbe smetterla con il libro. Volevo almeno consegnare le seconde bozze, poi avrei (avrò?) due mesi per tentare qualche cura (di questo, Rino, non parlare ti prego a nessuno!). Ormai dovrei farcela a levarmi questi ultimi fogli». Ma anziché levarseli, non farà per altri dieci anni che aggiungerne altri, lottando ai limiti delle forze contro il suo male oscuro. 
E’ in queste condizioni che resiste alle impetrazioni del vecchio Mondadori. Che quando conosce Zipelli, lo avvicina perché possa essere lui a convincere D’Arrigo a chiudere il libro: «Entro la fine dell’anno vorrei che mi consegnasse l’opera. I medici mi dicono che la mia sopravvivenza è minima e ho già informato mia figlia Mimma che continui a tenere vivo il rapporto con D’Arrigo». Mondadori vuole che assista a un loro nuovo incontro, uno dei tanti sullo stesso argomento, e Zipelli accetta rendendosi prezioso testimone. 
«Ho difficoltà a darti il libro – dice D’Arrigo a Mondadori. – Devo ancora ricucire tutto». 
«Ti prometto lo Strega o il Campiello, se ti sbrighi – gli fa suadente Incantabiss, che Zipelli vede visibilmente provato e stanco. – Come sai, i premi li gestiamo noi perché quando facciamo delle indicazioni generalmente vengono accolte.» 
«Mi stai offendendo – replica piccato e serissimo D’Arrigo. – Paragonarmi agli altri e darmi solo lo Strega!» 
«Non ti arrabbiare. Pensa alla mia situazione. Ogni giorno mi sento sempre peggio e voglio vedere il tuo libro stampato. Ho iniziato con piccole edizioni di secondo ordine. Poi, chi mi ha permesso di lanciarmi è stato D’Annunzio e ora vorrei chiudere con te, per poter dire di avere fatto bene l’editore». 
D’Arrigo si commuove fino alla lacrime, ma non smorza il suo orgoglio: «Devi capirmi. Mi sto sacrificando davvero. E poi, se mi rispettavi dovevi dire che mi facevi avere il Nobel.» 
«Tu sai che sono uno dei pochi italiani che vengono interpellati dalla Svezia. Ma sai anche che bisogna pubblicare per avere il Nobel. Se mi dai l’opera mi batterò per te, ma sappi che sto per morire». 
Morirà senza vedere il libro. Che uscirà solo nel ’75 con una dedica alla moglie calabrese: Jutta Bruto è indicata da lui come coautrice ma in realtà è una presenza fissa di cui lo scrittore è succube quanto innamorato e che gli fa più da schermo che da filtro. Dall’alto del suo titolo di marchesina, Jutta tollera appena di vederlo in compagnia di contadini e pescatori e meno ancora di saperlo con spiantati pittori che come lui popolano una Roma notturna e bohémien parlando di arte e di poesia. 
Uno degli amici più sinceri e frequentati è Renato Guttuso, al quale D’Arrigo è riconoscente per averlo spronato a partecipare al premio di poesia Crotone che ha vinto con Codice siciliano. Ma è un’amicizia che finisce malamente. Quando D’Arrigo pensa di fargli sapere della vincita del Crotone gli telefona e parla con la moglie Mimise, una gentildonna più altera di Jutta, che lo respinge con parole di fuoco: «Ma cosa vuoi che ce ne fotte? Lascialo in pace e non rompere le scatole che già l’hai fatto abbastanza». Jutta, che naturalmente non è più lontana di un metro da lui, afferra il telefono dalle mani del raggelato Stefano e, in usbergo di marchesa, ingaggia un tale scambio di insulti con la Dotti degno più di due comari di fango che non di due nobildonne di rango. 
D’Arrigo, carattere di per sé schivo e saturnino, vuole sincerarsi che Guttuso non la pensi davvero come la moglie e quando riesce a parlargli per avere soddisfazione si sente inaspettatamente confermare le parole di Mimise, sicché gli giura odio perenne. Guttuso, forse pentito, proverà in seguito ad incontrarlo incaricando amici comuni, finché una sera non va con la moglie a cena in un ristorante romano e vede Stefano con Jutta e altri amici fra cui Zipelli. Forse fa per avvicinarsi al tavolo ma D’Arrigo, occhieggiato da Jutta, si alza e invita anche gli altri a lasciare il locale: «Ci roviniamo la serata a restare qui» dice. Non vorrà più vederlo ma continuerà a volergli bene sapendo di essere ricambiato.  
Jutta domina dunque il marito per tutta la vita ed è severissima nel proteggerne l’isolamento come anche nel seguirne l’attività e organizzargli la giornata. Lo chiama sempre col suo vero nome, Fortunato, un nome che lo scrittore ha da tempo ripudiato perché pertinente più a un trovatello che non a un figlio legittimo. E Stefano ha davvero un passato terribile, la madre essendo stata una meretrice e poi una tenutaria di bordello, legata in torbidi rapporti con la mafia messinese. Eppure la pretenziosa Jutta, che vede quanto quella donna di infimo grado sia tutto per Fortunato, l’ama non meno del marito e ad ogni vacanza non esita mai a soggiornare nella sua casa. Jutta Bruto è morta anche lei nel 2007 lasciando il ricordo di chi fino all’ultimo, per quasi quindici anni, non ha fatto che alzare steccati sulla privacy di Stefano. Merito suo se per esempio non si è mai saputo quale fosse la vera natura del male che per decenni ha minato lo scrittore.


Il romanzo da farsi a ogni costo


Il 2 maggio 1992 è sabato. Muore Stefano D’Arrigo, ma i giornali danno la notizia solo lunedì, a poche ore dai funerali. Alla moglie Jutta Bruto non riesce dunque il proposito di assistere pressoché da sola al funerale dell’appartatissimo marito, un uomo che è stato capace di rimanere segregato in casa per oltre trent’anni, dedito fino allo sfinimento a quello che chiamava «il libro». Non le sarebbe stato comunque possibile, perché presidente della Rai è a quel tempo Walter Pedullà, allora come oggi il massimo biografo di D’Arrigo, forse il solo con George Steiner a giudicare Horcynus Orca un capolavoro della letteratura di tutti i tempi. “Il Giornale” scrive così quel lunedì: «Per fortuna Pedullà ha dedicato alla scomparsa di D’Arrigo l’attenzione e lo spazio che in genere sono riservati a cantanti e attori». Attenzione e spazio che giorno 3 i canali Rai profondono con generosità a un pubblico in gran parte ignaro di chi fosse quel personaggio così celebrato e poco celebre. 
E’ dopotutto nel destino di D’Arrigo essere osannato e screditato. Geno Pampalone ha già definito Horcynus Orca «grandioso, sofferto, solenne, disperato», mentre Pietro Citati ha parlato di «libro bellissimo rovinato dall’incontinenza dell’autore» e Paolo Milano sbrigativamente di «capolavoro che non c’è». Ancora oggi si aspetta che la critica stabilisca la qualità di un romanzo che, sin dagli anni Sessanta, è costato a D’Arrigo un male oscuro sulla vera natura del quale la vedova ha eretto con successo un muro rimasto invalicato. Nel ’64 lo scrittore confida all’amico “Rino” Zipelli, il compagno di studi romani, comunista e messinese come lui: «Sto male da parecchio tempo, sapendo che se interrompevo non ce l’avrei più fatta a riprendere le fila del libro. Quello che ho, i disturbi di cui soffro, che solo io vedo, non l’ho detto nemmeno a Jutta, perché significherebbe smetterla con il libro». 
Passerà del tempo prima che la depressione lo releghi in una casa di cura di Arcinazzo Romano. Jutta è stata chiara con lui: «O finisci il libro o ci lasciamo». E fa sul serio, perché quando Rino Zipelli va a trovarlo lei non si fa vedere già da una settimana. Li rappacifica ma non riesce a indurre Stefano (che lui ha sempre chiamato con il nome di battesimo, Fortunato, cambiato dallo scrittore per non sentirsi un trovatello) a completare il libro. Non ci riesce nemmeno Mimma Mondadori che una volta gli si inginocchia con le mani giunte: «Stefano, usciamone fuori, stampiamo il libro». Ma Stefano è sordo. Neppure il vecchio Arnoldo Mondadori, chiamato “Incantabiss” per la capacità di attirare autori a Segrate, ottiene di farsi consegnare il manoscritto. Lo va a trovare a Roma e lo implora mentre gli passa centomila lire al mese di anticipo. Oppure manda per convincerlo gente come Sereni, Vittorini, Calvino, Debenedetti, ai quali D’Arrigo chiede ancora quindici giorni solo per «ricucire il tutto». 
Per persuaderlo ad avere il libro che tutta l’Italia letteraria aspetta ormai da decenni, il vecchio Mondadori esprime il desiderio, sentendo la morte vicina, di voler finire con D’Arrigo avendo cominciato con D’Annunzio. Gli promette anche lo Strega, ma D’Arrigo se ne adombra: «Mi offendi paragonandomi a tutti gli altri. Mi aspettavo che mi proponessi il Nobel». Zipelli, testimone dell’incontro, non coglie in D’Arrigo davvero nessuna punta di ironia, ma solo una pervicace ostinazione a non cedere un lavoro che ritiene incompleto.
Nell’ottobre del ’74, tre anni dopo la morte di Incantabiss, il testo è finalmente nelle mani di Mimma Mondadori, ma all’ultimo momento D’Arrigo pretende che tutti i verbi “prendere” siano mutati in “pigliare” - un lavoraccio che, in un tempo nel quale non esiste il computer, fa slittare la pubblicazione a febbraio dell’anno successivo. Ma il romanzone di 1257 pagine non ha mercato. Linguaggio troppo difficile, dice il pubblico che ancora non ama la parlata dialettale. La critica è fredda e Pontiggia incolpa l’editore, che per troppi anni ha annunciato l’avvento del capolavoro, etichetta che spetta ai soli critici attribuire.
Ma D’Arrigo non è unicamente Horcynus Orca, «il romanzo – scrive Giulio Nascimbeni nel necrologio – che è lo strazio, l’ossessione e l’orgoglio di un’intera vita». Il giovane avanguardista messinese, in divisa di “marinaretto” perché esperto di attività marinare, amerà il mare per tutta la vita fino a concepire altri due libri del genere: una raccolta di racconti sulle “spadare” e un romanzo di mafia ambientato nella riviera ragusana e dedicato ai pescatori che esercitano il contrabbando di sigarette con Malta. Al primo rinuncia nell’89 perché, scrive a Zipelli, «il progetto è di quelli che molto difficilmente passano dal giornalismo dove riescono, senza godere però di buona salute, alla letteratura dove non si riesce a trovargli un genere congeniale perché non si può sfuggire alla loro datazione». Al secondo, vagheggiato già negli anni Cinquanta, poi abbandonato per Horcynus Orca, e ripreso nel ’91, si dedica invece con convinzione tant’è che scrive una quarantina di pagine, ma la morte lo ferma. Nella lettera del 16 marzo a Zipelli mostra di avere le idee chiare circa il nuovo romanzo, «una storia che venendo dall’autore di “Horcynus Orca” non potrà non ingenerare stupore e qualche senso di attesa». D’Arrigo richiede all’amico una mappa di insenature e approdi della costa e immagina un tratto di cento metri dalle parti di Scoglitti dove «descrivere due villini in zona solitaria, uno nella parte scogliosa, l’altro sulla rena, acquartierato, perché il capomafia che ci sta possa eventualmente difendersi». 
Nel ’59 D’Arrigo era stato ospite di Zipelli in una casa a Caucana, vicino Camarina, ed era rimasto stregato non solo dai fondali marini custodi di vestigia pregreche ma anche e soprattutto dai pescatori iblei, così diversi da quelli del Faro di Messina. Uno in particolare, “il capitano”, gli aveva rivelato i traffici clandestini con Malta e il Nord Africa incendiando la sua fantasia. Ma è allo “scill’ecariddi” che destina la sua vita. Coinvolgendo Zipelli, il primo a leggere le bozze in progress. Da “Rino”, che è stato in gioventù ufficiale di Marina, vuole sapere tutto circa la caccia al pescespada, le “poste” dei pescatori sullo Stretto, i premi di 500 lire riservati dopo la guerra a quanti catturano delfini, i moschetti in uso ai pescatori. Cesare Zipelli si rivelerà prezioso nel contribuire al massimo rispetto del principio di realtà al quale D’Arrigo, fino allo scrupolo maniacale, si è votato. 
Il carteggio tra i due (in gran parte inedito) dimostra quanto le forme neorealiste da tempo ormai superate, figlie del decaduto gusto naturalistico, fossero presenti nella visione di uno scrittore in ritardo rispetto ai modelli mimetici di derivazione verista e troppo in anticipo circa un neoregionalismo stilistico che principalmente con Gadda aveva fatto le prime faticose prove. Quando, moltissimi anni dopo, D’Arrigo torna all’altro mare e al progetto primigenio di un romanzo ragusano non ha più le forze. Un infarto mette fine alla sua lunga conversazione in Sicilia.