domenica 14 luglio 2013

L'estate siciliana, la brutta stagione

"Estate siciliana" (acquerello) di Totò Lucania
Le stagioni cambiano anche in letteratura. In quella siciliana certamente. Dalla metà del secolo scorso l’estate non è per tutti gli scrittori «la bella stagione». A rinverdire per ultimo l’equazione di antica credenza siciliana “canicola uguale sventura” è stato Andrea Camilleri che nel suo La vampa d’agosto ha fatto del caldo torrido il corresponsabile di una feroce vendetta, imputando al solleone la partecipazione di Montalbano al delitto.
Di più: ha ambientato puntualmente in estate, come per La pista di sabbia, i casi maggiormente eccentrici, quelli cioè riconducibili all’afa e perciò extra-ordinari. Eppure Camilleri ama l’estate, tanto da aver sfidato da ragazzo una lucertola in una prova di resistenza sotto il sole. 

L’ha amata anche Bufalino, che (pur morendo a metà giugno) apre Argo il cieco rivelando di essere stato felice nell’estate del ’51, salvo poi avvertire che «la quinta stagione», con un sole che è «un occhio di Dio», è «un responso di vita e di morte, metà estasi, metà spavento; il senso di una riconquistata fedeltà alla terra, ai suoi violenti e leggendari succhi di madre». E, quanto alla sua rusticanità, l’ha amata soprattutto Giuseppe Bonaviri, nella cui opera l’estate - agreste e bucolica, di cieli stellati, profumi e cicale, colma di notti sull’altura e pleniluni - torna sempre come tempo delle fate. Bonaviri è stato il più convinto apostolo dell’idea di estate quale sinonimo di benessere molto cara al gusto ottocentesco. Un gusto che si trasforma in un evangelium nella novella di Pirandello Pallottoline, dove per le donne relegate nell’Osservatorio «l'estate era una benedizione, e la sospiravano ardentemente in segreto tutto l’inverno. Potevano almeno sentire in quei mesi un po’ di vita attorno e veder gente e scambiare qualche parola». 

Nell’Ottocento fino all’inizio del Novecento l’estate è vista davvero in Sicilia come l’autentica primavera, gravida di un senso di rinascita e di ritorno esplosivo alla vita che gli scrittori fanno a gara per rendere proprio, tanto che in una fiaba di Luigi Capuana, Fata Neve, il Reuccio può dire: «Troppi fiori in primavera, troppo caldo in estate». Il risveglio della vita, quasi un fenomeno della natura, retaggio del mito tutto siciliano di Demetra e Kore, involge anche un fenomeno tipico dell’epoca, la villeggiatura, l’estate evocando innanzitutto la campagna. E con la campagna, negli autori del tempo, è sempre presente il corredo di gioie e piaceri ad essa connaturati: il fresco da godere la sera all’aperto, le notti sotto le stelle, il creato riempito del canto degli animali. Jeli, il pastorello di Verga, è tra le icone letterarie dei «bei meriggi d'estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero». Un’immagine che in Pane nero rivive con accenti ancora più icastici: «Nella stessa tasca ci aveva il suo zufolo di canna, che gli rammentava le sere d’estate - Juh! juh! - quando si lasciano entrare le pecore nelle stoppie gialle come l’oro, dappertutto, e i grilli scoppiettano nell’ora di mezzogiorno, e le lodole calano trillando a rannicchiarsi dietro le zolle col tramonto, e si sveglia l’odore della nepitella e del ramerino». 
A questa altezza l’elemento panteistico che lega l’uomo all’estate e rimanda quindi alla natura esprime la massima elegia e sembra incrollabile. Ancor più perché l’estate è una benedizione anche per padron ‘Ntoni, anzi una provvidenza: «Ora che ci abbiamo la nostra barca, se arriviamo all’estate, coll’aiuto di Dio, lo pagheremo il debito». Riuscire ad arrivare all’estate significa dunque salvarsi, perché essa porta fortuna essendo le giornate più lunghe. «E voi ci guadagnate bene, coi carichi del vino?» domanda la Mena ad Alfio Mosca. «Sì, nell’estate, quando si può andare anche di notte; allora mi busco una bella giornata». L'estate è benvenuta anche perché in casa Malavoglia «non c’era neppur bisogno della candela, giacché si poteva star sull’uscio, sotto il lampione». 
Perdippiù la bella stagione porta anche la salute. Teresa de L’illusione di De Roberto, può infatti guardare la sorella tisica e pensare fiduciosa: «E’ la stagione, quando verrà l’estate non avrà più nulla». Senonché verrà l’estate e Lauretta peggiorerà. E’ il sintomo che comincia ad essere minato il credo nell’estate benefattrice, dispensatrice di auguri, a favore di accezioni nuove e negative: siccità, penuria d’acqua, roghi. In I Viceré il priore arriva in casa della principessa defunta e trova un generale malcontento «perché in tre mesi di torrida estate non era caduta una goccia d’acqua». Riferisce perciò «d’aver disposto un triduo, a Nicolosi, e una processione per impetrare la pioggia». 
Siamo agli sgoccioli dell’Ottocento e l’estate va prendendo un primo aspetto novecentesco. Succede che anche in Sicilia la villeggiatura a mare sta sostituendo il soggiorno in campagna e l’estate diventa portatrice di caldo e non più di frescura; la solitudine della campagna, la compenetrazione in essa unita al silenzio, lascia spazio ai primi riti collettivi dei bagni di mare, ai rumori che dalla città passano alle marine. La letteratura non può non registrare il mutamento e l’estate diventa fonte di avversità, causa di epidemie, stagione di folletti e follie. In Il garofano rosso di Elio Vittorini Tarquinio scrive ad Alessio Mainardi: «L’estate sta per finire. Siamo al 27 agosto e il gran caldo di questi giorni non è che lo spasimo culmine. Cinque, sei battute ancora di spasimo e vedrai che pioverà. S’impazzirebbe, se no, credo». Vittorini è autore di climi invernali. Conversazione in Sicilia comincia con parole inequivocabili: «Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori». E Uomini e no non ha un incipit molto diverso: «L’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo». Per lui esiste solo un’estate di pochi giorni, e perciò minore, quella di San Martino. Il resto è inverno, sinonimo di freddo e fame, di povertà e dolore, come in Erica e i suoi fratelli. 
Benché volutamente indistinti, di cieli apparentemente coperti è anche l’opera di Sciascia, che pure ha scritto gran parte dei suoi libri in estate, assorbito nella campagna della Noce: indifferente dunque alle pene del caldo e alle condizioni di una stagione che per Brancati e Lampedusa dura sei mesi e rende torpidi, com’è Giovanni Percolla quando va in vacanza. In Gli anni perduti, agitando due tormenti estivi: il vento africano del sud e lo scirocco, Brancati vede gli uomini rallentare l’andatura «mentre sugli occhi portavano, come una palpebra sottile e perrennemente abbassata, la stanchezza e il desiderio di non veder nulla». Se per Brancati l’estate siciliana ottenebra le menti, per Lampedusa è un vera maledizione. Con lui si compie, con la più severa delle sentenze, il lungo processo di maliscenza dell’estate, i cui attributi cambiano così da “bella” a “calda” a “infernale”. «Il grande lutto» la chiama il principe di Salina arrivato impolverato e assetato a Donnafugata. Per poi spiegare a Chevalley - e per lui a tutti – cos’è «questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo. Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia». Verga e Pirandello appartengono ormai a un’altra estate.