venerdì 9 novembre 2012

Rapporto sulla pesca iblea / Chiare, fresche e salate acque


In provincia di Ragusa, su dodici Comuni, otto hanno lo sbocco a mare e contano una loro marineria dedita alla pesca, grande o piccola che sia. L’interesse è tale che negli ultimi anni si va affermando anche una consistente attività di diporto che all’esercizio della pesca riserva una sempre maggiore attenzione. Eppure, se si esclude Pozzallo, non c’è nessun Comune il cui centro urbano si affacci sul mare. Per la vicinanza con l’Africa e per la scoperta esposizione sul Mediterraneo, paesi e cittadine sono sorti infatti nell’entroterra, lontano dal mare, che è storicamente visto come la porta di pirati e corsari, l’origine delle invasioni straniere e delle incursioni barbaresche. Curiosamente una sola città fu fondata sul mare nell’antichità ed è Kamarina, che ebbe uno splendido porto fonte del suo splendore ma anche causa della sua decadenza quando i Romani ne costruirono uno più grande a Kaukana.
Kamarina ebbe intensi rapporti commerciali via mare con l’Africa, attivi anche nell’Alto Medioevo e testimoniati dalla presenza della chiesa della Madonna di Cammarana, ricca di ex voto di naviganti scampati alle frequenti tempeste nelle acque prospicienti il promontorio e andata distrutta da un incendio nel 1873. Ma anche Kamarina ha utilizzato il mare a beneficio della terra. Un’attività di pesca vera e propria, cioè organizzata, non è documentata a Kamarina se non in tempi molto più recenti. Così è in tutti gli altri sbocchi marini. Nonostante la presenza di porti, perlopiù concepiti come “canali” (tale fu quello della stessa Kamarina), il mare era infatti considerato non più che una via di collegamento per esportare derrate agricole e produzioni vitivinicole. E le barche mezzi per caricare sui bastimenti alla rada i prodotti della terra. Basti pensare che l’antico e oggi non più esistente Scalo trapanese di Marina di Ragusa più che un attracco di barche da pesca era un riferimento per i bastimenti provenienti dal Trapanese che all’altezza di Marina viravano a destra in direzione di Malta. L’idea di un porto peschereccio ha stentato dunque a farsi strada ed oggi ha dovuto soccombere, proprio a Marina di Ragusa, davanti a quella prevalente di porto turistico. La portualità come scalo e non come approdo ha ispirato le scelte di tutta una provincia a vocazione sostanzialmente terricola. Anche il porto di Pozzallo, come pure quelli di Scoglitti e Mazzarelli, sorge infatti in funzione di caricatoio e quindi al servizio dell’agricoltura e dell’attività di trasformazione.
In buona analisi, la posizione delle città dimostra che la popolazione iblea è sempre stata legata più alla terra che al mare. Gli stessi miti greci comprovano questo rapporto. Una delle divinità cui in provincia era dedicato il maggiore culto fu Demetra, la Cerere romana che prende il nome dai cereali di cui era dispensatrice e propiziatrice. Autoctono fu ancora il mito del pastorello Dafni mentre la lucertola (che figura nello stemma di Ragusa) fu l’animale sacro ai Galeati, i maghi cui riconducono alcune teorie sulla Ibla Herea.
Sembra strano, ma il ragusano non ha mai amato il mare, memore nella coscienza collettiva del fatto che nel paleolitico l’intero territorio fosse sommerso dalle acque. La provincia in sostanza è una terra emersa dal mare, che ha costituito un altrove, un ignoto. La sua conoscenza è stata frutto di una lenta scoperta e di una cauta frequentazione. L’arretratezza attuale della pesca iblea rispetto alle grandi acquisizioni tecnologiche e organizzative (bastino, appena fuori i confini iblei, ad ovest Licata e ad est Portopalo) si può spiegare dunque anche alla luce della storia.
Agiscono anche fattori attuali. La pesca è un settore del tutto particolare. I vantaggi dei produttori, cioè i pescatori, non si vedono dal pescato, quindi dalla produzione, ma dal venduto. La caratteristica sta infatti nell’impossibilità di aumentare la produzione in funzione del mercato, dovendo le imprese di pesca sottostare alle norme comunitarie e alle misure di conservazione. In sostanza non vale in mare l’equazione più produzione uguale più ricavi. I vantaggi economici si conseguono perciò soltanto aumentando il rendimento delle singole uscite, vendendo cioè meglio.
Ma per fare questo è necessario accrescere la qualità del pescato, il che equivale però a incrementare anche i costi di produzione. Per mutare tale circolo vizioso in virtuoso ecco il ruolo delle Op, le organizzazioni dei produttori volute dai regolamenti Cee il cui compito è anche quello di fare sistema e fare qualità intervenendo nella filiera allo scopo di contrattare i prezzi. Oggi la filiera del pesce è formata da un lato dai produttori e da un altro dalle centrali di acquisto. In mezzo ci stanno le piattaforme logistiche che altro non sono che rigattieri rivisitati unicamente ai quali - e in minima parte alle centrali d’acquisto - spetta di fissare il prezzo. La trattativa non esiste: o si partecipa a questo sistema o si rimane fuori, dal momento che la produzione interna può essere facilmente sostituita con il pescato di importazione.
Le Op tentano di avere voce dentro questo regime organizzando l’offerta, collegando i produttori al mercato, aumentando la contrattualità. Il fine è di migliorare la qualità e fare in modo che sia il venduto a garantire vantaggi economici ai pescatori. Stiamo parlando di un sistema avanzato che pure è presente anche in Sicilia ma presso le grandi marinerie come quelle di Mazara, Sciacca, Sant’Agata Militello, Licata e Portopalo.
In provincia di Ragusa tutto ciò è del tutto assente ed estraneo. Non ci sono Op, né centrali d’acquisto né rigattieri. La filiera è estemporanea, affidata al braccio corto delle contrattazioni da molo, a volte - come a Donnalucata - cortissima. A Scoglitti i prezzi li stabiliscono pescatori e commercianti, sul momento, secondo il pescato e la sua qualità, e in base alla constatazione visiva della merce. A Donnalucata il pesce viene venduto direttamente dai pescatori ai privati, anche a chilo, e nemmeno a cassetta come a Scoglitti. A Pozzallo il pescato è acquistato dai commercianti come a Scoglitti, sebbene non in un mercato ittico.
Mancando un’organizzazione che sia prevalente rispetto all’unica forma di compartecipazione in qualche modo invalsa, cioè la cooperativa, la produzione iblea appare in sconcertante ritardo rispetto al sistema pur’anche siciliano, anch’esso nondimeno in pesante crisi. L’impossibilità condivisa di aumentare la produzione è anche dovuta ai tanti vincoli vigenti quasi tutti di origine comunitaria: il divieto di pesca del novellame, il fermo biologico a ottobre e novembre della pesca del pescespada, la limitazione della caccia al tonno rosso, il divieto di pesca ai cianciali, cioè con un particolare tipo di lampara, l’imposizione della maglia larga nella pesca a strascico.
Si tratta di regolamenti che vincolano i paesi comunitari ma non gli altri, cosicché le flotte transfrontaliere sono libere di esercitare ogni tipo di pesca. Con il risultato che la grande distribuzione nazionale ed europea si rivolge a questo tipo di produzione più a migliore prezzo perché meno costosa. Ulteriore effetto di questa giostra perversa è il maggior consumo di pesce, aumentato del 30%. Ma quello che si trova sui banchi dei surgelati nei centri commerciali anche ragusani non è pesce né italiano né tantomeno siciliano e ancor meno ibleo. Il pesce ibleo si può trovare ancora nelle pescherie o al molo, appena sbarcato. Ma è sempre meno quello di qualità.
Una specie molto richiesta è il pescespada, che continua a essere il piatto forte della marineria di Donnalucata e Pozzallo. Il pescespada si cattura usando il palangaro, comunemente detto “conzo”. Si tratta di uno strumento che dà risultati soddisfacenti ma ha bisogno di centinaia di ami e di centinaia di chili di esca.
Per l’esca, che deve essere freschissima se non viva, bisogna ricorrere al pescato d’importazione (perché quello siciliano è insufficiente a ragione delle restrizioni imposte alla maglia della rete) sicché si ha un’esorbitanza della spesa che rende molto poco redditizio il risultato economico. La conseguenza è che il pescespada, anche per il fermo di due mesi in autunno, viene cacciato soprattutto nei mesi estivi, per cui quello che si trova tutto l’anno sui banchi di pesce è prodotto di importazione. La stessa cosa avviene per la maggior parte dei molluschi, vongole, telline, cozze, tutta merce che viene da fuori.
In sostanza si può dire che la pesca iblea sta a quella siciliana nella misura in cui quella siciliana sta alla pesca nordeuropea. Da Scoglitti a Licata sono tre ore di navigazione con un motopesca, ma è come andare in un’altra nazione lontanissima. Anche verso levante, lasciata Pozzallo si entra in un mondo, dopo Marzamemi, dove la pesca è più professionalizzata. Lungo tutta la costa iblea, che in fondo è un lungo approdo naturale fatto di insenature e porti-rifugio piaciuti ai pescatori anche dell’antichità classica, la pesca che viene praticata è rimasta quella storica, di tipo tradizionale e perciò rudimentale. Manca l’innovazione tecnologica (l’uso per esempio di sistemi di vendita online con collegamenti telematici tra motopesca e postazione a terra e aste istantanee ancor prima dello sbarco) e manca l’organizzazione produttiva che permetta una commercializzazione competitiva. Un esempio per tutti: in provincia nessuno ha la licenza, comunissima altrove, per la pesca a circuizione.
Se si prende la flotta più numerosa, quella di Scoglitti, si nota che negli ultimi sei anni, compreso il 2012, il numero delle imprese ittiche registrate alla Camera di commercio non ha fatto che decrescere. Dalle 80 del 2007 sono calate quest’anno a 51. Un’emorragia progressiva che dà la misura della crisi. Il caso vittoriese è significativo anche perché segnala l’andamento meno costante. La perdita di imprese, diversamente che per le altre marinerie della provincia, è stata a sbalzi con dismissioni che sono state tra il 2007 e il 2008 di 21 aziende in un solo anno. Ma già nel raffronto con il 2006 le dismissioni erano state ben 15.
Scoglitti è l’indicatore più attendibile delle variazioni in provincia ed anche il più volatile. Il suo calo di registrazioni è stato vertiginoso e rabbioso. Certo il più drammatico. Nella marineria più vicina, quella di Santa Croce Camerina, gli abbandoni sono stati in sei anni di sole due unità. E altrettanto lento e contenuto è stato il decremento a Marina di Ragusa. Le differenze si spiegano alla luce del fatto che la flotta peschereccia scoglittese vanta un numero di imprese e quindi di imbarcazioni di gran lunga maggiore rispetto alle marinerie più vicine. Le dismissioni non possono quindi che essere di più.
Motivo di curiosità è però il fatto che le proporzioni delle variazioni non cambiano spostandosi verso le marinerie della zona orientale, segno che la flotta di Scoglitti è la più sensibile all’andamento della crisi e quella che ha subito i maggiori danni. Al contrario la marineria di Pozzallo sembra non risentire la crisi, dal momento che il numero delle registrazioni è addirittura in crescita e soltanto negli ultimi due anni ha subito lievissimi casi di abbandono. Le dismissioni di conseguenza sono state praticamente irrilevanti, nell’ordine di una sola azienda cessata ogni anno se non addirittura nessuna.
La terza forza della provincia è quella di Donnalucata. E anch’essa sta reggendo benissimo l’urto della crisi economica con una media di registrazioni costante nel tempo fino a rimanere invariata negli ultimi anni. A decretare quindi il decremento in termini di valori assoluti delle imprese registrate è la crisi che ha colpito solo Scoglitti. La perdita di una trentina di iscrizioni equivale infatti alla mole di dismissioni che si sono avute nella borgata vittoriese. Sorprende invece l’incremento del dato pozzallese, prova di una vitalità che trova le proprie ragioni in una più robusta economia locale. Di riflesso anche la marineria di Donnalucata gode di una certa tranquillità: quantomeno nel senso che le aziende non chiudono.

Donnalucata: piccoli, pochi e poveri in guerra contro i raid


Perdere il porto è come perdere casa. I pescatori di Donnalucata si ritrovano ogni giorno sul molo e guardano il canale vuoto di barche con lo sguardo di chi sta vivendo un dramma. La presenza di una barchetta di tre metri ormeggiata su 25 centimetri di acqua, la sola in tutto il porticciolo, è il segno di una stagione mai così difficile. Alcune imbarcazioni spiaggiate sembrano reperti di un triste museo del mare.
Ad animare la marina è rimasto lo stand della cooperativa Santa Lucia dove i pescatori si trasformano, per antica consuetudine, in rivenditori al dettaglio. I soli in tutta la provincia a vendere direttamente al consumatore. Oggi sono anche trasportatori e pendolari. Caricano in macchina il pesce che sbarcano al porto di Marina di Ragusa, lasciano le barche ancorate e tornano a Donnalucata. Sono pochi chilometri. Non è neanche una gran fatica, ma da quasi tre anni i pescatori donnalucatesi fanno un’altra vita.
L’andirivieni in macchina ha sconvolto i loro cicli e i loro ritmi. Li ha costretti a vedere la pesca in un rapporto non più diretto ma mediato da un elemento nuovo ed estraneo, non simbiotico. L’inutilizzabilità del porto li ha privati di un bene naturale, della certezza di essere pescatori e di essere di Donnalucata. Un senso di estraneità, di spaesamento, di inidentità si è impadronito allora di uomini che da padre in figlio si sono trasmessi un complesso di valori legati al mare e alla pesca entro il quale il porto-rifugio è sempre stato, ancor prima della propria “Provvidenza”, il capitale comune, un patrimonio soprattutto immateriale, fatto di sentimenti, di vocazioni, di senso di riconoscimento e di appartenenza a un mondo piccolo ma immortale che comincia e finisce attorno al porto. Guardarne le acque stagnanti e i fondali bassissimi, ricolmi di alghe, del colore della putrefazione, è fonte in chi le ricorda azzurrissime, un manto trapuntato dalle barche di cento colori, di dolore e lutto. I vecchi pescatori in pensione guardano i giovani come a chiedere a loro spiegazione di cosa hanno fatto del porto.
Riaverlo vuol dire ripristinare la normalità, tornare a casa, reimpossessarsi insomma del proprio mondo. La separazione che ha allontanato come atomi repulsivi i pescatori dalle loro barche e le barche dal loro stand sulla marina sta determinando l’insorgenza di una malattia collettiva e sconosciuta, una forma di malinconia che intride depressione e che influisce sull’intera attività. Cala il pescato, diminuiscono le “uscite in mare”, si riduce l’offerta di pesce e si dimezzano i compratori. Non c’è dunque che una cura per uscire sani da questa spirale nociva: riavere il porto. Solo allora le cose potranno forse cambiare e la crisi attuale essere vista con occhi meno spenti e spaventati.
Succederà prima dell’estate, a stare alle previsioni, e i pescatori non vedono il giorno che arrivi. La Provincia ha finanziato un intervento di messa in sicurezza che prevede il dragaggio continuo del porto. La sabbia sarà rimossa dai fondali e le alghe fermate all’ingresso del canale.
Il male endemico del porto è infatti il suo insabbiamento. Una questione pluridecennale nata dopo la posa del braccio di ponente che dirotta le correnti di maestrale facendole scorrere fino all’insenatura portando una sabbia - e con la sabbia le alghe - che a ponente è leggerissima e quindi facilmente sollevabile, a differenza di quella di levante, molto compatta e solida. Per risolvere il problema il Genio civile opere marittime ha pensato a un secondo braccio da costruire specularmente al primo così da restringere l’insenatura, ma l’idea si è fermata anche di fronte all’impatto che ne sarebbe derivato.
I pescatori vedono il frangiflutti positivamente. Conoscono il loro mare e sanno che le correnti di mezzogiorno impedirebbero che detriti, sabbia e alghe entrino attraverso la bocca del nuovo porto a tre moli. Che forse sono però troppi per un porticciolo così piccolo. Cosicché la soluzione della draga mobile è vista oggi con favore perché imminente e perché efficace. L’intervento piace anche al club di diportisti che si sono insediati a ridosso del canale del quale usufruiscono alla stessa stregua. Ma condividere la casa millenaria con gli ultimi arrivati, che anziché lavorare per mangiare si divertono anche a pescare, non è mai stata una gioia per i pescatori. Non possono però farci niente dal momento che i numeri sono quasi alla pari, giacché i pescatori diminuiscono e i diportisti invece aumentano.
Oggi la cooperativa Santa Lucia conta meno di dieci soci. Un paio di pescatori sono indipendenti e tre formano una seconda cooperativa, la San Giuseppe. La flotta peschereccia di Donnalucata è tutta qui. Nel 1990 la Santa Lucia raccoglieva 45 pescatori e fino a soli dieci anni fa l’attività di pesca era molto fiorente e redditizia. Via via i pescatori hanno demolito le barche e restituito le licenze, guadagnando dall’Unione europea 13 mila euro a Gt, che è la misura comunitaria introdotta per calcolare la stazza lorda, la gross tonnage. Una somma che è una tentazione per tutti. Una via di uscita e di sicurezza dalle pene e dai dispiaceri che il mare oggi dà. Nell’ultimo mese ben cinque pescatori hanno demolito la barca. Non certo a cuor leggero. Ma è stato necessario. I costi di gestione sono diventati insostenibili anche per la piccola pesca che storicamente è quella esercitata a Donnalucata. Oltre alla benzina, costosissima, la spesa maggiore sono le reti: cento metri costano 250 euro quando ne costavano 50. Inoltre il pescato si è drasticamente ridotto e i guadagni assottigliati. Nel mare di Donnalucata è tornata negli ultimi tempi la corvina, ma non è più quella di un tempo: anziché quindici chili si trovano esemplari solo di mezzo chilo. Per di più alla fine dell’anno scorso sono venuti meno anche gli sgravi fiscali, non sostituiti da alcuna altra forma di agevolazione, mentre il fermo biologico ha reso ancora più difficile rimanere in attività. Abbandonare è perciò il verbo che va diffondendosi come un virus contagiosissimo. Sicché la flotta è diventata flottiglia, composta da imbarcazioni massimo di sette metri che non possono superare i cinque miglia.
Sono tutte ancorate a Marina di Ragusa, nel porto turistico, ospitate gratuitamente. Ogni notte i pescatori donnalucatesi si mettono in macchina come fanno i contadini e raggiungono Marina. Questo mutamento è stato anche di carabinieri e finanza che per esercitare i controlli di legge sulla pesca istituiscono posti di blocco sulla Marina-Donnalucata: un handicap in più ragionando nella logica dei pescatori.
I controlli richiesti dalla marineria donnalucatese, soprattutto alla Guardia costiera, riguardano quello che ritengono il problema principale: le incursioni dei pescherecci di altre marinerie. Praticando la pesca sotto costa, i pescatori sciclitani si trovano svantaggiati nel confronto con i grossi motopesca forestieri se questi fanno due cose: pescare anch’essi sotto costa ed esercitare lo strascico, che è permesso soltanto oltre le tre miglia.
È una partita impari. I piccoli pescatori calano le reti da posta o i palangari se cacciano il pescespada, o ancora la “cannizzata” se vanno a lampughe. E praticano una pesca da fermo, rivolta a specie di qualità quali orate, seppie, dentici, che altrove scarseggiano e che attirano perciò i grandi motopesca. I quali gettano le reti e trascinano via tutto, soprattutto le uova, depauperando così il mare. Vengono da Palermo, da Licata, da Catania. E anche da Scoglitti, secondo i donnalucatesi. Che non sanno come fare per difendere il loro mare. Sono pochi e sono piccoli. Del periodo di pesca del novellame è ancora vivo in tutti il ricordo dei raid dei motopesca palermitani che del tutto indisturbati fecero razzia riempiendo le stive. I pescatori donnalucatesi rimasero inermi a guardare.
A dare loro manforte in questa guerra di autotutela è intervenuta anche Legambiente che proprio a Donnalucata ha istituito un centro di educazione ambientale insegnando soprattutto alle scolaresche sciclitane cos’è e quanto vale il loro mare. Antonino Duchi e Claudio Conti sono diventati i principali referenti dei pescatori che chiamano loro quando avvistano un motopesca incursore sotto costa. E loro avvertono la Guardia costiera di Pozzallo, che però può fare ben poco.
Problemi di coordinamento ma anche di rifornimento delle motovedette impediscono concreti interventi, che dopotutto dovrebbero essere pressoché quotidiani. Ma sarebbero inutili. I pescatori scoglittesi hanno scoperto che i motopesca forestieri lasciano il mare appena una vedetta lascia il porto di Pozzallo. Evidentemente qualcuno, piazzato sul molo della Guardia costiera, li informa per tempo. Uno stratagemma che ha scoraggiato i donnalucatesi.
Lino Buscema è uno dei pescatori irriducibili di Donnalucata, figlio di un pescatore storico, il primo che a Donnalucata nel ‘46 portò una paranza. Molte volte egli stesso si è rivolto, a nome della cooperativa Santa Lucia, alla capitaneria di porto perché mettesse fine ai raid. Conosce a fondo la pesca e ha prospettato una soluzione empirica dopo avere osservato bene come agiscono i pescherecci di fuori: se vanno via appena informati, raccogliendo dunque le reti, operazione che richiede fatica e un tempo non inferiore ai trenta minuti, basterebbe che la vedetta della Capitaneria, proprio perché avvistata dal “palo”, lasciasse gli ormeggi il tempo di uscire dal porto per poi rientrare. Non consumerebbe benzina e indurrebbe il motopesca a ritirare le reti. Se questa manovra viene compiuta anche soltanto due volte, la giornata del motopesca incursore è persa e probabilmente non ritenterà nuove puntate fuori legge.
Ma nelle riunioni tenute in Capitaneria proposte del genere sono state accolte con scetticismo, ponendosi un problema di coordinamento dei servizi e apparendo non certamente in stile. Dopotutto giocare a rimpiattino non sortirebbe che risultati temporanei, perché - scoperto l’inganno - il motopesca forestiero non ne resterebbe più vittima. Che fare allora?
«Certo non siamo gente che spara - osserva Buscema - come hanno fatto a Porto Empedocle contro motopesca di fuori ottenendo così di avere il loro mare libero». Sparare no, ma protestare sì. La flotta scoglittese è quella più sospettata. «Ma non abbiamo certezze in questo senso - dice Duchi. - Possono venire anche da altrove, da Catania per esempio. Certo è che praticano tutti la pesca a strascico sotto costa, che è vietatissimo». Le proteste sono state rappresentate anche in riunioni congiunte tra le marinerie della provincia o in occasione di conferenze di servizio promosse dalla Provincia. In una di queste volte, facendo il punto sulla pesca iblea, il rappresentante della marineria scoglittese ebbe a dire che l’attività era cresciuta del 700 per cento. La cosa sorprese non poco i pescatori donnalucatesi la cui tendenza era decisamente decrescente. Quando proprio a Donnalucata furono poi tenute le prove per il rilascio delle autorizzazioni all’esercizio della pesca, i donnalucatesi videro che in attesa tra i colleghi di Scoglitti c’erano molte donne e capirono perciò che l’incremento degli operatori era dovuto al coinvolgimento nella pesca anche delle donne di famiglia secondo un costume per il quale a Scoglitti è l’intero nucleo domestico a cooperare e a organizzare la propria attività.
Ma, anche volendo reclutare mogli e figlie, i pescatori di Donnalucata non dispongono delle imbarcazioni che operano a Scoglitti. L’equipaggio è ridotto massimo a due persone, perlopiù parenti, perché il governo delle barche non implica che poche risorse. Anche nelle prime settimane di primavera, quando la pesca della seppia richiede il maggiore sforzo e consente però i maggiori profitti, i pescatori donnalucatesi operano a ranghi minimi e sempre sotto costa. Calano le reti e aspettano. Grazie a un mare generosissimo e molto diverso da quello scoglittese, tirano su saraghi, sogliole, spigole che costituiscono il pesce più pregiato. Tra marzo e aprile, quando si pesca abbondantemente la seppia, la vendita è assicurata soprattutto ai commercianti catanesi. Per il resto, esclusi alcuni giri di ristorazione locale, il pesce di Donnalucata viene venduto a Donnalucata dagli stessi pescatori. La loro cooperativa è una delle poche che resiste allo spirito antiassociativo proprio delle marinerie iblee. Ma oggi il problema vero è resistere alla crisi. Vedere il porticciolo deserto e lo stand senza più il vociare dei compratori in frenetico non aiuta nessuno a progettare rilanci né a sentirsi invogliati a continuare.

Pozzallo: la flottiglia moderna che confeziona il pesce a bordo


Pozzallo vive sul mare e in gran parte del mare. È stato calcolato che circa 9 mila pozzallesi sono ufficiali sparsi nel mondo su navi mercantili e da crociera. La vocazione del mare è innata in una popolazione che al suo porto guarda come a una risorsa primaria. Una vocazione che negli ultimi anni si è riconvertita drasticamente passando dalla pesca all’imbarco. Sui pescherecci sono infatti rimasti in pochi, anzi pochissimi: cinque comandanti appena e una dozzina di marinai. Il resto sono extracomunitari, ma vanno calando. La pesca non ha più appeal. Sui motopesca d’altura ancorati al porto grande non si vedono più i giovani, contrari a stare settimane intere a mare per un guadagno che non è più quello di una volta. Contrari sono diventati anche gli immigrati. La dismissione incentivata dalla Comunità europea ha poi ridotto ancora di più la flotta.
I motopesca di maggiore stazza, tra i venti e i trenta metri, con una potenza di oltre 200 cavalli, sono solo sei e si chiamano “Vincenzo Moscuzza”, “Oceania”, “Natalino”, “Dario”, “Anadro” e “Lady Miriam” che è il più grande. Tre di essi sono proprietà dell’armatore siracusano Vincenzo Moscuzza che ha voluto dare il proprio nome all’ultimo di sua costruzione, appena otto anni di vita, il più pulito e inodore peschereccio mai visto, con quattro uomini di equipaggio, uno dei quali tunisino e due baresi, compreso il comandante. Il tunisino si chiama Franco ed è l’addetto alla cucina. È considerato alla pari degli altri, tanto che l’eccedenza dei contributi statali a suo carico è divisa in quota parte tra gli altri tre. Gli immigrati imbarcati sono tenuti a versare circa 700 euro a testa mentre gli italiani da 190 euro se sposati a 250 se celibi.
Ma non è un atto di generosità quello dei connazionali quanto la condizione imposta dagli immigrati per fare parte dell’equipaggio. Né potrebbe essere diversamente dal momento che la spartizione dei guadagni è rigorosamente “alla parte”, cioè in parti uguali. La vendita del pescato viene infatti divisa al cinquanta per cento tra armatore ed equipaggio che a sua volta, senza distinzioni di grado, divide al suo interno la propria metà. Non essendo nessuno dipendente della società armatrice, i contributi sono a carico di ogni membro dell’equipaggio. Il rischio d’impresa pesa dunque sia sull’imprenditore che sui lavoratori. Tant’è che la divisione “alla parte” avviene una volta sottratte le spese. Che incidono in massima parte per la voce gasolio. Il suo uso e il suo consumo hanno stravolto la pesca pozzallese.
Il “Vincenzo Moscuzza” è alimentato da un motore di 220 cavalli e per una “uscita” di 25 giorni consuma circa 30 mila litri di gasolio, il che significa che prima di lasciare il molo ha già speso 25 mila euro, dal momento che un litro di gasolio costa oggi 82 centesimi. Ogni peschereccio di questa grandezza parte dunque dovendo ogni volta recuperare una perdita. Che dimezza letteralmente i guadagni finali, visto che il ricavato medio mensile è di circa cinquantamila euro. Tolte le altre spese, fra cui il vitto, l’equipaggio si distribuisce meno di 9 mila euro. Quando va bene. Se è formato da più di quattro persone, il guadagno individuale si riduce ancora di più, a volte a meno di mille euro.
Non è stato sempre così. Anzi. Fino al 2003 ogni marinaio imbarcato portava a casa una media di cinque-seimila euro al mese. Ma a quel tempo il gasolio costava tra i trenta e i quaranta centesimi. Ancora maggiori erano i guadagni individuali all’epoca in cui era in vigore la lira, quando l’esercizio della pesca su un motopesca era visto a Pozzallo come un lavoro privilegiato.
Oggi la corsa è all’imbarco sui mercantili così da poter dire addio alla pesca, un’attività che ha conservato una caratteristica avvertita negli attuali tempi grami come non più accettabile: la fatica che richiede e le condizioni di poca igiene, ristrettezza, promiscuità e disagio che impone, a differenza delle comodità offerte dalle navi da crociera e dagli stessi mercantili. Chi resta nella pesca lo fa dunque perché costretto ma anche per la passione che rode e anima da sempre la marineria pozzallese.
È la stessa passione nutrita dai pescatori chiamati “a giornata”, che stanno in mare la notte e rientrano di giorno e il cui numero di iscritti alla Camera di commercio è cresciuto in formidabile controtendenza rispetto alle altre marinerie iblee. Hanno barche più piccole, autorizzate a pescare entro le tre miglia - o le sei, le dodici e le venti, secondo la stazza e la licenza -, e consumano quindi meno gasolio perché non fanno “navigazione”. L’equipaggio è anch’esso dimezzato e la spartizione è più conveniente. Ma i guadagni della vendita sono naturalmente inferiori. Lo è anche il pescato. Una motobarca che rientra segnala stive piene in proporzione all’anticipo: meno pesca e prima torna, perché ha impiegato minor tempo a ritirare le reti. Da anni i rientri sono sempre più corti.
La concorrenza che fanno ai motopesca fino alle 40 miglia e a quelli in possesso della “Mediterranea” ( la licenza che consente di pescare ovunque senza limiti di navigazione e che solo il “Natalino” e la “Oceania” vantano a Pozzallo) è nella qualità del pescato che è sempre freschissimo, mentre il pesce dei pescherecci d’altura arriva in porto congelato anche da settimane. Ma arriva pronto per essere rivenduto: chiuso in buste sigillate e nelle vaschette stampigliate con le indicazioni della società produttrice e delle caratteristiche del prodotto. Un lavoro che si fa a bordo del peschereccio e che conferisce al pescato un valore compensativo della freschezza di quello “a giornata”.
Per consegnare anch’essi pesce fresco i grandi pescherecci dovrebbero rientrare più spesso, cosa che se era possibile fino a dieci anni fa oggi è impensabile per via dell’alto costo del gasolio, il contenimento del cui consumo costituisce la prima preoccupazione di ogni comandante.
Se una volta la navigazione alla ricerca di acque più pescose era solo una questione che incideva sul tempo che occorreva nell’economia di una “uscita”, oggi ogni miglio in più significa spreco se non viene tesaurizzato con un buon pescato. La necessità di risparmiare carburante influenza anche il metodo di pesca e lo stesso risultato. Non solo lo strascico non viene più praticato spingendo i motori in lunghe profondità di mare, ma la battuta di pesca viene programmata alla partenza con un rigore inimmaginabile nel decennio scorso. Ogni comandante, in base alle istruzioni ricevute dall’armatore (che decide dopo aver consultato i propri rigattieri, i quali a loro volta hanno sentito “le centrali d’acquisto” circa il tipo di pesce che ha un prezzo migliore in quel momento), si dirige verso la zona di mare dove è sicuro di poter trovare la specie ittica richiesta dai mercati. E non deve sbagliare.
Se l’armatore gli richiede merluzzo, perché è il merluzzo che manca, il comandante deve portargli la stiva piena di merluzzo, così da realizzare un maggiore profitto sia l’uno che gli altri. Può però capitare che, di fronte a un invenduto di merluzzo, l’armatore ordini per esempio gambero rosso o bianco, se è il secondo genere che il mercato richiede, sicché la pesca deve concentrarsi su questa specie. Questo stile di pesca comporta però, sempre a causa del caro-gasolio, una grave conseguenza, legata alle quote imposte dall’Unione europea. Giacché le quote vengono assegnate e ritirate in base al fatturato, a fine anno si possono anche perdere se il fatturato di una imbarcazione non raggiunge il pescato minimo per mantenerla, in ordine a ogni tipologia di pesce.
La scelta dunque di andare a pesca di una specie anziché di un’altra dipende sì dal mercato e dalle scorte invendute ma anche dall’esigenza di mantenere la quota, sicché a volte - con l’occhio sempre puntato sulle spie dei serbatoi - ogni comandante è costretto ad andare a pesca di specie diverse che siano però raggiungibili in aree di mare possibilmente vicine. Questa necessità ne postula un’altra: non essendo il Mare Mediterraneo, entro le quaranta miglia, pescoso come un tempo, la tentazione di spingersi sempre più al largo è altissima perché più lontano si va e più pesce si trova visto che pochi rischiano carburante allontanandosi. Bisogna dunque essere sicuri di cosa fare e dove andare. Non è facile e non sempre riesce. I comandanti e i capitani che conoscono il Mediterraneo sono perciò sempre più preziosi ai fini della pesca. Da loro dipende infatti l’esito di ogni “uscita”.
Dovendo rischiare sempre più e aumentare nel contempo la produzione, selezionandola in base al mercato, i pescherecci pozzallesi hanno dovuto accettare nuovi rischi, come quello di prendere il largo anche in condizioni meteorologiche che una volta erano considerate un impedimento oggettivo. Uno dei più esperti comandanti pozzallesi, Luciano Gambuzza, che lavora “a giornata”, non guarda più nemmeno com’è il tempo. Produrre è diventato per lui un imperativo inderogabile per assicurarsi un guadagno. E quando piove o il mare è grosso “uscire” può significare pescare di più perché si è di meno a mare. Cioè, nella maggioranza dei casi, sotto costa.
L’alternativa infatti che vedono molti pescherecci - sempre per risparmiare gasolio - è quella di stare quanto più vicini alla costa, anche dentro le tre miglia, entro le quali però la pesca a strascico, che è quella esercitata proprio dai grandi pescherecci, è vietata per via della tutela soprattutto delle uova e del ciclo riproduttivo che avviene a ridosso delle coste per qualsiasi tipo di pesce azzurro. Senonché sotto costa operano già le piccole motobarche, quelle “a giornata”, che praticano la pesca a posa e che non possono certo gradire di dovere competere con i temibili pescherecci.
Sia le motobarche che i motopesca vendono il pescato ai rigattieri pozzallesi con i quali tratta l’armatore, che può essere anche il proprietario dell’imbarcazione. Il rigattiere rivende alle “centrali d’acquisto” che a volte sono costituite dalla grande distribuzione. Questa filiera è quella tipica delle grandi marinerie siciliane, da Mazara a Portopalo, segno che l’attività di pesca pozzallese è più vicina al modello generale che non a quello particolare ibleo, caratterizzato - come a Scoglitti e a Donnalucata - dalla presenza di mercati ittici locali e da un regime di rivendita a raggio cortissimo. A Pozzallo non c’è un mercato interno perché il pescato è destinato alla filiera. Può dunque succedere non solo che lo stesso pesce della “Vincenzo Moscuzza” finisca nei mercati esteri, quando viceversa dall’estero arriva nei market di Pozzallo e della provincia pesce straniero, ma che il pesce pozzallese raggiunga il primo bancone di surgelati fuori dal porto a un prezzo più che triplicato. Ma quello che sembra un paradosso è la logica che regola la grande distribuzione in tutto il mondo. Pozzallo, unica marineria moderna e tecnologizzata della provincia, ne fa parte a pieno titolo.
I sei pescherecci del porto grande non hanno nulla da invidiare a quelli delle altre flotte siciliane. Nemmeno in fatto di ardimento. Ma il caro-gasolio ha fatto più del blue-box, il dispositivo di legge di cui ogni peschereccio deve essere dotato perché le capitanerie da Bari in giù possano controllarne non solo la posizione ma anche la condizione quanto a sicurezza e integrità. In caso di sconfinamento in acque nazionali straniere o di superamento dei limiti imposti dalla licenza, il blue-box registra automaticamente la posizione e fa scattare la contravvenzione. Ma è successo che una multa sia valsa un buon pescato quanto il rischio di finire sotto sequestro in Libia. Il prezzo del gasolio ha invece scoraggiato le incursioni e le violazioni suggerendo una nuova disciplina dettata più dai conti a tavolino.
Essendo il comandante capo supremo e assoluto dell’equipaggio, potendo licenziare e assumere senza l’autorizzazione dell’armatore, che è del tutto estraneo alle relazioni di bordo, è lui che risponde della propria attività agli occhi dell’armatore. Il quale premia o penalizza un comandante, potendolo esonerare o promuovere, secondo non solo quanto gli ha fatto guadagnare in termini di produzione, ma anche quanto gli ha fatto risparmiare in consumo di gasolio innanzitutto, come pure in costi di attrezzature per la pesca, manutenzione della barca ed economie varie.
Al comandante, che tale diventa dopo un severo esame, è richiesta una capacità professionale che quasi sempre comprende anche abilità e competenza. Non deve essere solo un lupo di mare ma anche una volpe. Il comandante della “Vincenzo Moscuzza” è conosciuto come “Coccolino”, perché è prudente, attento, espertissimo al timone e profondo conoscitore del Mediterraneo. I suoi uomini lo ritengono il migliore.

Scoglitti: la centrale della pesca dove la spigola è scomparsa


Alle tre di ogni pomeriggio i pescatori guardano la gente che arriva e ne contano sempre meno. Una volta, fino a sette anni fa, il mercato ittico di Scoglitti era una vucciria di suoni e grida, un cafarnao di commercianti e compratori. E una montagna di pesce che se ne andava in un paio d’ore. Oggi c’è il silenzio e l’andirivieni degli acquirenti è mesto, lento, scandito dai passi che si sentono sulla leggera discesa di sabbia e cemento, mentre il pesce rimane invenduto.
C’è un’ora di apertura del mercato ma non ce n’è una di chiusura perché il pesce resta in vendita fino ad esaurimento. Il problema è che non si esaurisce. Nemmeno dopo tre o quattro ore, quando i pescatori sono disposti a venderlo anche fino a metà prezzo e oltre. Alle sette di ogni sera avviene allora una cosa dolorisissima e del tutto nuova: il pesce nelle cassette viene riportato a bordo nell’attesa, quando alle tre di notte le paranze riprendono il largo, di essere gettato in acqua. Qualcuno ne porta un paio di chili a casa costipando il frigorifero e costringendo tutti a mangiare se non pesce, il resto va perduto. Sicché alla fine la divisione “alla parte” (l’antico e sempre attivo metodo di spartizione ragusano degli utili) diventa non quella del ricavato della vendita ma del pescato invenduto. E questo accade non una volta la settimana, al momento della divisione dei soldi, ma ogni sera.
Agli inizi della crisi, quando non si sapeva nemmeno com’era e quanto sarebbe durata, si era pensato di congelare il pesce avanzato nelle celle frigorifere del mercato e venderlo il giorno dopo, ma risultò un’ipotesi che si reggeva su una speranza impossibile: che l’indomani si potesse vendere il pesce del giorno e quello congelato. Impossibile appunto, perché ogni giorno la vendita non fa che decrescere in uno stillicidio di ditte che chiudono, di pescatori che lasciano le barche per imbarcarsi nei grandi trasporti marittimi, di giovani che sognano di aprire a terra un esercizio alimentare o un bar e lasciare che solo il padre si alzi alle due e se ne stia dodici ore a mare, estate e inverno, dormendo di giorno e lavorando di notte, di pescatori che compiono un’impensabile mutazione genetica trasformandosi in braccianti. Così il mercato ittico di Scoglitti, il simbolo di tutta la marineria iblea, vive il suo tempo peggiore. Alle tre di pomeriggio apre e le barche che vengono dalle paranze alla rada o ancorate sbarcano le cassette stampigliate con le etichette sulla tracciabilità, che indicano anche la zona di mare dove è stato pescato. Sono ripiene di polipi, gamberi, merluzzi, pesce azzurro. È sparito il pesce di qualità che si pescava un tempo: orate, cernie, spigole, saraghi. È rimasto quello “povero”. In parte è conferito direttamente al mercato e venduto dallo stesso pescatore al dettaglio, cioè a cassetta, ma il maggiore quantitivo è acquistato sul porto dai commercianti che lo trasportano in uno due centri: quello di Scoglitti di Via Pescara e l’altro all’ingresso di Vittoria. Da qui finisce nei mercatini locali oppure viene rivenduto fuori provincia.
Il prezzo viene deciso dal pescatore e negoziato ogni giorno con il commerciante, ma non ci sono mai trattative “arabe”, cioè lunghe ed animate. Il prezzo sembra formarsi da sé, con leggerissime oscillazioni, in un equilibrio che compenetra da sempre le aspettative di tutte le parti. Ma negli ultimi tempi il prezzo tende a scendere perché il consumo di pesce locale continua a diminuire mentre i costi di gestione non fanno che salire.
In questa scala inversa, paradossalmente a resistere sono i piccolissimi pescatori, cioè i proprietari delle cosiddette “removeliche”, gli unici che possono vendere al dettaglio sulla battigia appena approdati. Sono circa 60, hanno costi irrisori, non più di 15 euro al giorno, praticano la pesca che chiamano “a posta” (calano la rete e aspettano) e producono lo stesso genere di pesce delle barche a motore (distinte dalla paranze per la minore stazza), come le quali possono spingersi fino a cinque miglia se autorizzate con annotazioni di sicurezza. Anziché alle quindici le removeliche tornano a mezzogiorno e portano pesce appena pescato che un’ora dopo è a tavola. Eppure la maggior parte dei consumatori preferisce comprare il pesce nei centri commerciali anche se congelato e proveniente chissà da dove.
Le battaglie condotte dall’associazione San Francesco e dalle quattro cooperative perché almeno la distribuzione locale si rifornisca a Scoglitti hanno sempre trovato orecchie sorde. Ma anche quando dovesse arrivare un sì, la marineria scoglittese non sarebbe in grado di offrire, oltre la cassetta, un servizio di fornitura adeguato mancando delle strutture dove confezionare il prodotto secondo le esigenze della grande distribuzione. Il centro di rivendita obbligato rimane dunque l’antico mercato ittico dove i pescatori aspettano che siano i commercianti dei grandi centri a spuntare sulla grande porta basculante e fare ordinativi ben superiori a quelli dei piccoli commercianti. Ma non succede.
Eppure i prezzi sono convenientissimi. A dieci metri dal mercato opera una piccola pescheria che il pomeriggio è generalmente chiusa. La mattina il prezzo che propone è quasi il doppio di quello praticato dal mercato. Se con dieci euro è possibile comprare in pescheria un chilo di polipi, con una cifra simile al mercato si compra invece un’intera cassetta. Ma nemmeno i costi così convenienti invogliano i consumatori come un tempo. Cala il consumo, eppure la produzione cresce perché cresce il pescato.
Per qualche inspiegabile ragione il mare di Scoglitti è infatti diventato più ricco negli ultimi anni. Le paranze, cioè i grossi pescherecci, tornano ogni giorno con le stive piene, ma è fatica in gran parte sprecata. Così succede che addirittura rallentino la produzione o non si spingano molto lontano: sarebbe solo gasolio in più. E il gasolio è la voce che incide di più nei costi di gestione. Una paranza ne consuma ogni giorno dai 400 ai 500 litri che viene comprato, senza accise per fortuna, a 82 centesimi il litro. La somma spesa è però quasi l’equivalente del ricavato quotidiano della vendita, a volte anche meno. Ma ci sono altri costi. Il prezzo dei cavi d’acciaio che si comprano a chilo è raddoppiato rispetto ai due euro di sei anni fa. E ogni sette mesi al massimo ne occorrono dai 4 ai 500 chili. C’è poi la manutenzione del peschereccio, necessaria ogni otto mesi. Scoglitti è priva di cantieri per cui le paranze devono andare a Licata dove l’intervento può costare fino a 4000 euro ma mai meno di 2000. Sono aumentati anche i prezzi dei “calamenti” (i cavi che tirano la rete sotto il fondale) passati da 1000 a 1500 euro ciascuno.
A causa di questa escalation dei costi di gestione le paranze si sono ridotte a venti. In dieci anni ne sono scomparse una dozzina. I proprietari si sono lasciati tentare dalle provvidenze della Ue che indennizza le imbarcazioni dismesse con somme diventate per tutte molto ghiotte. Ma la dismissione può farla solo chi non ha debiti ed è proprietario dell’imbarcazione. Molti aspettano così di liberarsi delle pendenze bancarie per restituire la licenza. Un dramma, perché di questo passo la flotta peschereccia scoglittese è destinata a scomparire. Eppure è una delle più abili della Sicilia, avendo dovuto operare in un mare povero e insidioso.
Le acque non sono infatti come quelle vicine di Licata: offrono pesce non di grande qualità né di grande dimensione. Almeno oggi. La colpa della scomparsa di cernie, spigole e altre varietà di pregio è imputata dai pescatori a tre cause: lo sversamento delle navi cisterne al largo che rilasciano sostanze destinate a ricoprire gli scogli dove dimorano le orate e le spigole; la presenza di decine di pozzi petroliferi dismessi che secondo i pescatori non sono mai stati chiusi sicché continuano a liberare greggio in mare; e soprattutto l’inquinamento marino da parte delle discariche comunali. Vittoria, Chiaramonte e Comiso sversano nell’Ippari che finisce in mare dove opera una pompa di rilancio che in una vasca accumula i reflui per poi lanciarli a due chilometri di distanza in acqua. Spopolandola.
C’è un depuratore, quello di Vittoria, ma è insufficiente perché peraltro malfunzionante e molte volte fermo. In sostanza la scomparsa del pesce di qualità, per i pescatori scoglittesi, come per tutti quelli che operano fino a Pozzallo, è colpa dell’inquinamento della costa dovuto ai Comuni e alle borgate marine che scaricano i loro liquami in acqua.
In queste condizioni diventa perciò molto difficile alla marineria scoglittese sostenere la crisi. Problemi che una volta non erano avvertiti oggi appaiono capitali. La scomparsa misteriosa del pesce di qualità ha privato la marineria di Scoglitti di una fonte di guadagno preziosissima. Si calcola che il profitto sia calato del 50%, percentuale che è il risultato negativo di tutte le voci di gestione. Tra le quali non c’è però quella del lavoro. La figura dell’armatore che rimane a terra ed è padrone di più imbarcazioni non è mai esistita a Scoglitti, la cui marineria è composta di proprietari di barche coadiuvati dai figli e dai parenti costituiti in cooperativa. Non ci sono lavoratori estranei al nucleo familiare né flottiglie di una sola casa. A ogni barca corrisponde un padrone. Che pesca e vende facendo tutto da sé. Non supera i sette miglia, non va in acque internazionali, non sconfina verso Licata o Pozzallo. E pratica la sola pesca a strascico. Getta le reti generalmente tre volte in una giornata lavorativa e avvia i motori per una decina di chilometri parallelamente alla costa e ad andatura moderata.
Quello a strascico è da sempre l’unico esercizio della pesca in vigore a Scoglitti da parte dei pescherecci. Deprecato dagli ambientalisti perché lo strascico provoca il depauperamento dei fondali uccidendo anche le uova, è consentito dalla Ue solo con l’impiego di reti a maglie larghe e oltre le tre miglia dalla costa, ma capita che per risparmiare sul gasolio o per il mare grosso le paranze facciano lo strascico a distanze più ravvicinate. Il bisogno rende talvolta trasgressivi.
Ma c’è un altro problema che rende difficile la pesca scoglittese. Il fondale è morfologicamente costituito in forma di selle in successione. Questa irregolarità ostacola pesantemente la pesca a strascico che richiede fondali piani come quelli di cui gode la fortunata marineria licatese, per indicare la più vicina e quella più concorrenziale. Le reti si impigliano e si rompono, per cui il peschereccio scoglittese, per evitare questi inconvenienti, deve procedere a velocità ridotta, il che significa ridurre anche la produzione. Che però oggi non serve tenere in quantità elevata per via dell’invenduto.
Un ulteriore nodo che ha ingarbugliato per decenni la pesca scoglittese, quello dell’insabbiamento del porto peschereccio, è stato sciolto soltanto da poco tempo: dopo l’incidente accaduto a Nino Nicosia, oggi presidente dell’associazione San Francesco e proprietario del “Nunzio Padre”, una delle più grosse paranze dopo quella dei fratelli Penna, “La Madonnina”. Nel ’97 Nicosia uscì come al solito con il suo vecchio peschereccio e fece come facevano tutti: arrivata la chiglia a sfiorare la sabbia all’imbocco del porto diede più motore per superare la cuna ma quella volta la paranza scheggiò gli scogli e gli successe quanto è poi avvenuto alla Concordia. Nicosia controllò lo scafo, vide che era integro e guadagnò il mare aperto. Senonché a giorno fatto e svolta la pesca, il risentimento che la chiglia aveva subito urtando contro gli scogli determinò una falla e la barca cominciò a prendere acqua. I soccorsi furono lentissimi e Nicosia con gli altri uomini dell’equipaggio dovettero lanciarsi in mare per essere poi raccolti da un altro peschereccio. La barca colò velocemente a picco e Nicosia si trovò senza niente. Ma erano altri tempi. Ricomprò un’altra barca che chiamò “Gemello” perché simile alla prima e poi un’altra ancora, quella che ha oggi, un mastodonte troppo grosso per i guadagni che può consentire. Ma dopo quell’episodio il porto fu drenato e oggi non costituisce più un ostacolo da superare ogni notte.
Nicosia, con il suo “Nunzio Padre”, intitolato al genitore che però non era pescatore e stava a terra a gestire un negozio, potrebbe pescare d’altura ma non è solo la crisi a scoraggiarlo. Nel modo di vivere e vedere la pesca, i scoglittesi non amano per tradizione che il loro mare infimo. Uno solo volle spingersi più lontano, in cerca di nuove acque più pescose, Salvatore Ferrigno. Gli andò malissimo. Benché credesse di trovarsi in acque internazionali, finì nelle mani dei libici e fu preso prigioniero. Il suo motopesca venne sottoposto a sequestro.
Quando quella storia finì Ferrigno vendette tutto e smise di fare il pescatore. Oggi fa altro. Non sapeva che molti altri pescatori lo avrebbero seguito molti anni dopo nella strada della dismissione. La moria a Scoglitti sta avvenendo a terra: di pescatori e non di pesce, perché il mare continua a ripopolarsi, anche se di specie povere che danno pane povero.

L’assessore regionale Francesco Aiello
"La parola d’ordine dev’essere innovazione"


Assessore Aiello, la pesca iblea soffre degli stessi mali siciliani ma con un plusvalore negativo perché viene da uno stato di depressione dell’economia che è più grave qui che altrove. Concorda?
Sicuramente le produzioni ittiche risentono dell’andamento della crisi, quindi della rarefazione della domanda d’acquisto e del calo della disponibilità generale a consumare questo prodotto. E ciò in considerazione dopotutto del fatto che questa produzione è destinata al mercato locale. Solo alcune varietà hanno come sbocco - ma parlo della pesca siciliana e non di quella iblea - il mercato internazionale, come il tonno e il pescespada. Se perciò l’andamento della crisi porta la gente a consumare di meno, i prezzi sono inevitabilmente più bassi e il meccanismo di funzionamento della filiera ittica ne soffre come quella agroalimentare in generale. Il produttore ittico però ha un handicap in più: non può conservare il suo prodotto a tempo indeterminato ma solo per qualche giorno. E questo aspetto investe la questione del rapporto con il mercato, con quella fascia di operatori intermedi cioè che intervengono per accaparrarsi il prodotto, o con i processi di vendita dove ci sono mercati ittici disponibili. In sostanza i processi di speculazione che abbiamo denunciato in agricoltura riguardano anche la filiera ittica. Tutto ciò comporta che il settore sia in difficoltà, che si blocchi anche il rinnovamento armatoriale delle barche, che manchino i capitali necessari per fare il passo avanti. Tutti avvertono la difficoltà di andare a una riconversione delle barche, che pure è un passaggio epocale necessario.
Ma ci sono in questo senso precise restrizioni da parte dell’Unione europea, decisa a ridurre il numero delle imbarcazioni in mare.
La stessa politica comunitaria che in agricoltura tende a fare scomparire la piccola e media impresa la ritroviamo nella pesca meridionale. Anziché sostenere i progetti di riconversione e di crescita, l’Unione europea lavora ad espellere le piccole marinerie, il che significa l’abbandono di mondi che scompaiono dalla scena economica, sociale e culturale. Occorre piuttosto aiutare i pescatori a rimanere, permettendo la riconversione delle flottiglie, che vuol dire mantenere un patrimonio professionale antico di forte legame con i territori. Ma vediamo che tutto questo la politica comunitaria lo scarta. Punta al risultato della innovazione della sola grande marineria continentale.
Ma l’innovazione interessa soprattutto la piccola e media impresa.
Ripeto, c’è una linea che l’Unione europea segue con caparbietà ed è la stessa che agisce in agricoltura. Il principio base è che piccolo è sinonimo di obsoleto e deve perciò da cancellare per evitare che diventi un peso per la grande marineria.
Cosa è possibile fare?
Sono possibili diverse azioni alternative, anche imponendo l’obbligo dell’innovazione da parte dell’Ue, ma è chiaro che questo può avvenire solo se c’è l’accompagnamento delle istituzioni verso il nuovo, cioè verso l’abbandono delle vecchie barche e il rinnovamento in forme aggregate e associate. Ma questo non appare possibile sicché abbiamo solo l’abbandono.
Non appare possibile per volontà di chi?
Di quello schema della politica che ha come modello di riferimento le marinerie dell’Europa continentale. Che sono marinerie strutturate, attrezzate, e che hanno compiuto passaggi innovativi significativi quanto ai servizi, al pescato, alla collocazione sul mercato, alle filiere. Da noi tutto questo non è ancora presente e perciò abbiamo una paralisi nel movimento della marineria, che cerca contatti con i Paesi del Mediterraneo per risolvere questioni riguardanti la sua dimensione, lo sviluppo, che cerca rapporti con i Paesi frontalieri, con politiche che guardino in questa direzione. Ma nell’ambito delle dinamiche europee non si tratta che di un modo per continuare a sopravvivere senza riuscire a porsi in maniera competitiva rispetto alle grandi flotte che solcano oramai il Mediterraneo.
Questo deficit colpisce ancora di più la marineria iblea dunque. Ma quale filiera si è creata per esempio a Scoglitti, che vanta la prima flotta peschereccia della provincia?
O il prodotto viene prenotato ed è acquistato prima del pescato oppure viene venduto attraverso i mercati ittici territoriali, lì dove c’è una parvenza di contrattazione da libero mercato. Vi sono poi linee che portano alla ristorazione siciliana, linee costruite attraverso i rapporti diretti o mediati con le cooperative di pescatori, ma si tratta di un movimento molto locale. La regionalizzazione della nostra pesca è ancora un elemento che va valutato su un duplice registro: della produzione ittica di qualità - il gambero, il pesce azzurro, la seppia - e dell’arretratezza del sistema, perché in realtà il nostro pesce diventa tipico in ragione del fatto che non riesce a diventare produzione per i mercati nazionali ed europei che vantano forme di verticalizzazione che noi non abbiamo se non presso le grosse marinerie di Sciacca e Mazara del Vallo dove un minimo di articolazione di filiera esiste davvero.
Questo dunque significa che in provincia di Ragusa una vera e propria filiera non si è mai costituita.
No, mai. Abbiamo una piccola pesca molto diffusa e importante perché segna un rapporto di reciprocità tra il territorio e le risorse ittiche e perché offre un prodotto di giornata, fresco e di qualità. Il sistema della ristorazione locale in questo senso assume un valore che non è solo quello immediato, di carattere economico, ma più generale, con una forza di richiamo potente sui territori. Detto questo, rimane un dato di fatto: la nostra marineria non ha una capacità di offerta unitaria e verticale. Non credo che esista perché non esistono le strutture e non esistono gli obiettivi che si vogliono raggiungere. Dopotutto non c’è nemmeno un progetto commerciale di tutta la marineria siciliana. Se c’è è attivo in qualche modo a Sciacca e a Mazara. Ma basta.
E le organizzazioni dei produttori? Qual è il loro ruolo?
Il loro ruolo dovrebbe essere quello di costruire questi percorsi di filiera, ma in realtà si tratta di percorsi molto elementari, che integrano progetti minimalisti.
Secondo lei la funzione delle Op è dunque venuta meno?
Perlomeno non si è sviluppata nelle possibilità che potrebbe offrire. Ma questo riguarda anche il mondo agricolo perché è un difetto orizzontale. In sostanza la Op nasce per verticalizzare la produzione ma alla fine diventa un’organizzazione minimale dedita ad alcune operazioni di governo del rapporto interno della stessa Op.
La verità è anche che c’è meno pescato.
Ed per questa ragione che si attuano forme di riposo stabilite. Con il fermo biologico si cerca di concentrare in alcune fasi dell’anno l’attività di ripopolamento di alcune specie. Il fermo biologico è anche collegato al mercato stagnante perché la stagione è finita, sicché si scelgono questi periodi in funzione anche del quadro economico generale. L’attività viene bloccata, è vero, ma è comunque un fatto positivo che viene riconosciuto e condiviso dagli stessi pescatori interessati a un migliore ecosistema. E peraltro non va visto come una misura penalizzante perché è davvero reale il depauperamento del pescato per effetto di fenomeni esterni alle forme e ai modi della pesca. Vi sono ragioni estrinseche infatti che riguardano il lavaggio delle stive delle navi in transito, il riversaggio delle sentine in acqua, l’inquinamento che deriva dall’accentuazione delle ricerche petrolifere, lo sversamento di materiali prodotti in terraferma sia attraverso depuratori malfunzionanti che attraverso l’infiltrazione delle falde acquifere. Quindi esiste una grande problema di tutela dell’ambiente marino che richiede un intervento europeo. Il Mediterraneo va salvaguardato neutralizzando le fonti dell’impoverimento marino, perciò occorre un passo avanti forte che metta sotto monitoraggio tanti fenomeni anche e soprattutto a terra: dalle strutture di immissione delle acque reflue in mare alle tecniche di coltivazione agricola.
Il problema è però di immaginare qualcosa di realmente nuovo.
Da questo punto di vista qualche idea nuova cercheremo di presentarla alla Comunità europea. Penso per esempio a dei siti produttivi di interesse comunitario, un conetto nuovo che ho proposto in sede qualificata destando curiosità e interesse. Si tratta di un sito dove il tema dello sviluppo e dell’ecocompatibilità venga fortemente finalizzato. Immaginiamo di riuscire a trasformare la serricoltura siciliana in un sito produttivo di interesse comunitario. Significherebbe innanzitutto risparmio energetico, ma anche controllo delle falde, del trattamento fitosanitario, tutti passaggi che concorrono a fare del mare una risorsa ricca e pulita.
Prima dunque bisogna pulire il mare per andarci a pescare.
Senz’altro. E i pescatori sono i primi a essere impegnati in questa partita. Parlo almeno della pesca che conosco io. Quella internazionale è un’altra cosa. Nel nostro mare si determinano infatti fenomeni di sfruttamento intenso che non guardano più a un ambito di ricchezza, ma alla speculazione e al profitto. Oggi questi predatori sono nel Mediterraneo ma domani saranno nell’Atlantico o da qualche altra parte del mondo.
Innovazione dunque. Qualche tempo fa Sciacca ha pensato di introdurre sistemi di vendita computerizzati in base ai quali la produzione era dettata dalla vendita che avveniva già a bordo.
Per me esiste un filo rosso che come lega i diversi comparti agricoli alla grande distribuzione così agisce anche nell’attività ittica. L’altra strada è la vendita diretta nei mercati che paradossalmente costituisce una forma di tutela del pescato rispetto a un mercato globalizzato e stravolto e che non sappiamo nemmeno cos’è né riusciamo a vedere. Almeno c’è un minimo di contrattazione.
Le restrizioni della Comunità europea circa la pesca a ottobre e novembre del tonno rosso non finiscono per colpire ancora di più?
Quando il rapporto con il tonno era collegato a forme anche arcaiche di un mercato limitato, con i suoi ritmi e le sue forme, era naturale non sottoporlo a restrizioni perché era parte della nostra cultura. Ma nel momento in cui la pesca del tonno diventa internazionale subiamo anche noi i contraccolpi. Le poche quote in più che ci sono state aggiunte sono dopotutto ben poca cosa rispetto allo sviluppo naturale di una marineria che aveva i suoi tempi di presenza sul mare. Ci sono state soltanto piccole correzioni, quote assegnate in più per pescare, per cui su questo punto credo che la protesta sia d’obbligo. Dobbiamo comunque convincerci che le norme europee, le direttrici comunitarie in fatto di pesca del tonno rosso corrispondono a una situazione reale. Che poi incidano su interessi di territori (come nel caso della Sicilia) che hanno fatto della pesca del tonno una tradizione millenaria è un altro discorso.
Non è comunque un tipo di pesca praticata in provincia. A Scoglitti, Donnalucata e Pozzallo cosa si pesca?
La seppia, il pesce azzurro, la piccola pesca insomma, il pescato frontaliero, che però dà all’economia ittica un suo contributo molto localistico.
Si è anche pensato di lanciare l’acquacoltura. Ma il progetto fatica.
So però di un impianto che sorgerà a Vittoria e credo che ci sia la possibilità di portare questi impianti sulla terraferma. Semmai l’idea è un’altra. In questi mesi come assessore ho maturato una riflessione che mi consente di guardare ai problemi della filiera produttiva sotto l’aspetto della ricerca genetica di base partendo dai primi passi che essa può favorire. Noi siamo estremamente fragili e dipendenti, sia che si tratti di avannotti che di avicoltura o di altre attività di allevamento. Esiste realmente la possibilità anche in Sicilia di realizzare impianti capaci di mettere in produzione uova fecondate o produrre marchi depositati, senza più royalties dunque e licenze da acquistare. L’idea è di assicurare ai settori produttivi una capacità di creare da sé tutto ciò che è necessario per aprire un processo produttivo e non dipendere dall’esterno, senza più il rischio quindi di rimanere tagliati fuori per volontà di qualche gruppo esterno che decidesse di negarci le licenze o bloccarci la fornitura di uova fecondate.
Se dunque qualcuno pensasse di non fornirci più gli elementi di base rimarremmo praticamente fermi.
Questo è il grande problema siciliano, valido sia in agricoltura che nella pesca a coltura. Non dieci ma trecento milioni vanno dunque destinati al sostegno delle aziende che vogliano impegnarsi nell’avvio della prima fase del ciclo. Le prime forme di applicazione genetica e l’intera questione dell’assistenza applicata devono costituire la priorità massima rispetto agli investimenti fatti dalla Regione per aprire e chiudere laboratori di ricerca dove invece potrebbero trovare occupazione i tanti nostri giovani laureati nelle nuove discipline quanto a tracciabilità, assistenza tecnica, risorse applicate. C’è in sostanza tutto un pacchetto di questioni sul sostegno alle attività di innovazione e di controllo che va tirato fuori e fatto partire. In riferimento al fiume di denaro che viene dall’Unione europea grandissima attenzione bisogna dare agli elementi che abbiamo detto. La domanda alla fine è questa: voglio diventare autonomo quanto alle forniture? E voglio che nulla sia non siciliano? Allora è tempo di invertire la rotta. L’autonomia delle aziende parte dalla fase più vicina alla genetica. E siccome la ricerca genetica la fanno cinque grandi gruppi nel mondo noi siamo tagliati fuori se non riusciamo a essere presenti e vigili.
Secondo lei chi sta peggio tra l’agricoltura e la pesca?
Entrambe, ma forse è la serricoltura a stare peggio, perché l’investimento di capitali è più alto. Ma direi che sono comparti per i quali le politiche di monitoraggio, i contatti tra produzione e consumo, una messa a punto non spontaneistica ma coordinata e razionale potrebbero aiutare a fare passi avanti. È l’innovazione la parola d’ordine. Innovazione con tutti quelli che si sentono di fare quel percorso e non con quanti giudicano il mercato un processo evoluzionistico. Lo sviluppo è necessario, l’ammodernamento anche, ma non al prezzo di uccidere tre quarti di un comparto. In un Paese come il nostro che ha fatto della piccola e media impresa la bandiera della propria economia, come si fa a dire che è giusto uccidere le piccole e medie imprese perché occorre diventare grandi, perché dobbiamo puntare sui grandi obiettivi? Ma è un proposito illusorio dal momento che tutti vediamo come le grandi aziende soffrano quanto le più piccole.
Anche perché quelle piccole non hanno un reale problema di costo del lavoro.
È vero. La piccola impresa ittica che noi conosciamo e che vediamo all’opera nel Ragusano è immune perché non conosce la compartecipazione mista degli equipaggi. Ma una forma di compartecipazione c’è anche a Scoglitti. Dove opera il conduttore diretto sostenuto dalla sua sola famiglia. In qualche modo anche questo è associazionismo, sia pure anomalo. In sostanza quel che abbiamo evoca retaggi verghiani, piccoli proprietari con tante Provvidenze.
Guardiamo piuttosto avanti. Lei come vede il futuro della pesca iblea?
Lo vedo diviso in due segmenti fondamentali: uno che dovrà crescere con strutture e capacità di offerta appannaggio della grande marineria di altura e un altro fatto di marineria territoriale, chiamiamola così, che troverà sbocco nell’offerta gastronomica e turistica siciliana, la quale può dare lavoro a migliaia di persone. La velocità dei due segmenti dipenderà dalle politiche che verranno scelte, ma entrambi meritano l’attenzione della Regione, dello Stato e della Comunità europea. Noi abbiamo avuto di recente approvati i Piani di gestione della pesca, che sono strumenti attraverso i quali si pianifica l’attività ittica.
Come si integrano questi Piani con i Gruppi di azione costiera?
I Gac servono ai Comuni aderenti a esprimere politiche di governo sulle coste mentre i Piani di gestione, che vengono calati nell’attività dei Gac, sono di orientamento generale delle marinerie.
Come spiega la circostanza che in provincia di Ragusa si abbiano due Gac, uno dei quali siracusano e partecipato da Ispica e Pozzallo?
Anche i Consorzi di ripopolamento ittico erano divisi. Ora li abbiamo riformulati e ridotti a sei da una ventina che erano in Sicilia. Non sono visti positivamente e si sovrappongono ai Gac, ma hanno per obiettivo la tutela del mare mentre i Gac perseguono politiche territoriali più generali. Perché quest’altra divisione? Dipende da molti elementi anche di opportunità: contano molto l’inclinazione socio-culturale dei Comuni come anche la loro collocazione politica e soprattutto la contiguità territoriale.
Se dovesse scegliere tra un porto peschereccio e un porto turistico quale preferirebbe?
Guardi, anche i porti sono diventati un affare. Io, essendo legato alla territorialità, devo dire che le operazioni costruite a tavolino sono a rischio. La territorialità è più lenta ma è più solida nelle impostazioni. Prendiamo Scoglitti. Il suo porto è innanzitutto peschereccio, ma io dico che può e deve convivere con quello turistico nonostante lo stravolgimento che si è voluto fare e si tenta di fare. Ho litigato col mondo intero per mantenere la caratteristica di porto peschereccio perché vedo strategicamente nella presenza della marineria un punto di forza del territorio. Un luogo che abbia una flotta peschereccia significa che possiede una propria ricchezza nonché un valore enogastronomico molto più alto di chi non ce l’ha. A Marina di Ragusa il pesce devono andare a comprarlo a Donnalucata o a Scoglitti. Questo è un fatto. Ma i due porti, ripeto, possono convivere se si trova un equilibrio. Epperò resta che l’errore della portualità turistica è stato micidiale: fai un piano fasullo e ti metti a competere con la barchetta del porto vicino. Conti fatti male. Pensavano che venivano Murdoch o Montezemolo e sbarcavano col petto al vento. Non è andata così.
Meglio dunque una barchetta con un pescatore che un panfilo con cento tycoon?
Ciascuno scelga la sua strategia. Io penso che Scoglitti abbia un porto-villaggio e che sia un luogo dove il concetto di naturalità deve riprendere spazio. Abbiamo dieci chilometri di costa e dobbiamo riuscire a preservarla, anche per lo sviluppo del turismo di massa, con spiagge libere e accessibili, con luoghi di ristorazione più vicini al mare, con infrastrutture ricettive, avendo l’accortezza però di non trasformare questa carta che ci possiamo giocare con successo in una cartolina.
Ma a Scoglitti si sta facendo un gran parlare del porto turistico. Non tutti sono sfavorevoli.
Allora, abbiamo un progetto appaltato nel 2005 da me, per tre milioni e mezzo, che deve essere ancora eseguito, sebbene siano passati sette anni. Poi c’è un progetto di privatizzazione della struttura che va avanti mentre quello pubblico è rimasto in un angolo. Non un euro in più è venuto in questi sette anni a Scoglitti a causa di una scelta suicida che l’amministrazione comunale sta compiendo. Un porto turistico privato nasce in aree dove non c’e nulla e non dove ci sono cinquant’anni di portualità.
E quindi come vede la situazione?
Quella che vedo è un’operazione arbitraria e speculativa che alla fine ucciderà la marineria, non porterà il turismo e varrà alcune grosse speculazioni immobiliari a ridosso del porto, dove avremo un’enorme calata di cemento, che è il vero affare che si sta perseguendo.

Inedito / La bella vita dei pescatori? Un’illusione estiva
di Severino Santiapichi


Mio fratello Nenè era vrazzu i mari, sperto, anzi, spertissimu, mai con le mani in mano. Così, d’estate, appena - dal terrazzo della nostra casa di campagna costruita (questo era sicuro, per via della scritta sotto l’occhio di bue del salone) nel 1789 su progetto, dicevano, di un architetto portato in dote da una Dandolo - le vele latine, rosse della tinta ricavata dalla corteccia di pino, delle paranze doppiavano la punta del Corvo, lui, undicenne, si precipitava verso lo scaro di Donnalucata: correva sulle pietre della Scala Marina, continuava a farlo pure con la sabbia sciurnata da scirocco e giungeva primo fra tutti quelli accorsi per dare una mano di aiuto a tirare in secco le barche. Tornava con in mano due tre pietanze di pesce rinfrescate da manciate di posidonia contenute in uno scampolo di rete. Era, per lo più, fragaglia, pesce di terza, dunque, mazzuna, pantili, ficuzzi, e, addirittura, merluzzetti, che erano propriamente pesci di seconda. Talvolta, in sovrappiù, gamberi a volontà - e il gambero, in quel tempo, era poco più di una disgrazia di Dio, una merce svenduta a prezzo vile.
Nenè batteva sul tempo addirittura i Cavallari, i fratelli Giuca, che il pesce, già compromesso, lo sballottolavano su calessi lanciati in una corsa forsennata per battere, dicevano, la concorrenza, non ricordo di chi, forse, solo un modo di rubare tempo al deperimento della merce e scannare i cavalli. Vivevano di corsa, annusavano il vento e, per questo, per coglierlo più fresco, salivano sulla roccia del Castellaccio e, subito dopo, partivano per Donnalucata o Sampieri, approdi da venti diversi. Non era meno rapido il banditore che, nonostante la zoppania (Titta Xiumè raccontava che il primo intervento ricostruttore effettuato con successo dal prof. Arezzo aveva salvato appunto da morte quell’uomo), appena avvertiva, sulla punta e baddi, il frastuono dei calessi, si portava le mani ad imbuto davanti la bocca e gridava “u mari ora ora arrivau!”.
Le paranze andavano a due a due, come i carabinieri. Per la verità, erano due in una e le due mezze avevano il nome in comune. A Donnalucata, le paranze erano cinque: la Calcinara, la Cavalera, la Ripustisi, la Maravigghia e la Vitturisa, ciascuna barca con cinque uomini di equipaggio, una vela latina, un fiocco e, di norma, due remi in aiuto. Tutte costruite a Riposto e, ovviamente, arrivate mare mare.
La Calcinara aveva nome dalla calce impiegata per lo scafo ed era, perciò, allattata anno per anno come fosse un muro di casa: un vezzo degli armatori, i fratelli Buscema. Era leggenda il buon verso della loro madre che non ammetteva tempo perso da vacanza e, per questo, dicevano, con il mare a bonaccia, nella prevista impossibilità di sciuta della paranza, lei, a sera, metteva a mollo gli sbaragli, le zappe da vigna, una per ogni figlio, e, via, non più, come per l’ultima cala con lo spuntare delle triali di Orione, ma con il tremolio della stella dell’alba, per tummare i tralci o scavare ad Arizza o a Pezza Filippa le viti ad alberello.
Questa paranza era un mito, una leggenda da Riposto a Licata, bastava una bava di vento e si avviava, manco la impauriva il Levante, era sempre per mare: ragazzi, ce l’additavamo, prima fra tutte all’uscita e al ritorno, in questo secondo caso, spesso storta, una stortura da sovraccarico.
A mari ri fora pescava fagiani, raie, palombi, squadri, a volte, di grande misura, merluzzi, a mezz’acqua, merluzzetti, e, a mari ri terra, la fortuna le dava una spinta per insaccare crivelli, ombrine anche da taglio (Bruno Buscema, tanto versatile da trasformarsi da ardimentoso pescatore in irreprensibile funzionario di banca, li ricorda ancora i crivelli innumeri pescati sotto il Dirillo) .
Per la passa di sarde o di acciughe, Donnalucata aveva le sardare, negli scuri di luna, sciabole nere sul mare. Avevano nomi di case regnanti, i Savoia, ad esempio, o di uccelli instancabili, come i colombi e partivano sull’imbrunire: guardati dalla Papazza o dalla Palazzola, sembravano piccoli solchi neri sull’onda. A tratta, o a cianciuolu, raccoglievano peschiere frementi di pesce azzurro. Le circondavano appena la lampara le metteva in luce, forse, anche le attirava. Tornavano cariche, ciascuna sei sette quintali di pesce, giunti allo scaro, i marinai lo sciacquavano e lo raccoglievano con gli spasuni che erano canestri svasati: sul bagnasciuga, i Salaturi, per lo più forestieri, tiravano sempre sul prezzo e i pescatori cedevano: era anche accaduto un par di volte: i pescatori incazzati per il prezzo troppo basso avevano dato mano ai remi e si erano spinti sino a Scoglitti, quasi sempre rimettendoci la fatica ulteriore.
C’erano, s’intende, anche allora i varcuzzi che potevano contare sulle triglie di scoglio, le aragoste, le tremole, gli scorfani, nella stagione adatta, le seppie, una infinità, una marea grumosa di grappoli di uova e, più al largo, lo spada pescato con il conzo e le ricciole e i caponi - ma anche i peluselli affioranti - a riposo nella frescura delle cannizzate. E chi. dotatosi di vota vota o rizzagghiu, pescava da riva e chi, nel buio, allucinava polipi o, appiattiti sul fondo sabbioso, linguate.
Quella del pescatore sembrava, dunque, una vita al sicuro da malannate per mancanza d’acqua o ruggine del grano o malattie di viti o di pomodoro ma era solo una illusione. Perché, in realtà, quel poco di “lustru ri luna” che li illuminava era scampolo di mesate estive con tutti quei villeggianti che il pesce dovevano comprarlo quanto meno per fare buona figura. E doveva essere, per giusta regola, pesce di carne bianca, non quindi pesce non pregiato di suma.

Articoli usciti nel novembre 2012 in due supplementi allegati al periodico ibleo La Verità