martedì 30 ottobre 2012

Rapporto sull'agricoltura iblea / Amara terra mia



Per la provincia di Ragusa il 2012 è forse l’anno peggiore dell’era della globalizzazione. E non è ancora finito. Secondo Giovanni Scucces, direttore di Confragricoltura, la chiusura - o comunque il drastico ridimensionamento - delle grandi aziende agricole del Ragusano è segno di una crisi che sta toccando il massimo dei suoi effetti.
Per avere un’idea di come vanno le cose nel pur ampio novero delle grosse aziende, quelle che impiegano dagli 80 ai 400 operai stagionali, basti considerare che quest’anno si sono perse finora 200 mila giornate lavorative, secondo i calcoli di Confindustria, un numero da accrescere di altre 100 mila giornate se si calcolano le aziende non associate. Aziende che occupavano fino a 400 stagionali ora ne reclutano non più di 50 e anche meno. L’effetto è che centinaia di stagionali sono senza lavoro mentre i sindacati discutono con le associazioni un rinnovo di contratto scaduto l’anno scorso e che continua a tenere il prezzo lordo di una giornata a 53 euro: una cifra considerata, con i tempi che corrono, una fortuna per i pochi che vengono occupati. Un accordo appare al momento difficile, essendo proprio la parte economica, cioè l’adeguamento della paga giornaliera, il punto di maggiore divisione.
Le aziende hanno portato sul tavolo i punti dolenti che nei bilanci stanno dalla parte dei costi. E quello del costo del lavoro figura al primo posto. Al secondo segue la serrata creditizia: la difficoltà sempre maggiore di accedere al credito bancario costituisce una pesantissima palla al piede per le aziende più grosse. Sono un’ottantina in tutta la provincia, tra medie e di grosse dimensioni, e quasi tutte risentono fortemente degli effetti della crisi. Confindustria sta cercando in questi mesi, sul piano nazionale, di sbloccare l’impasse creditizia ma il sistema bancario si mostra sordo. Pur essendo a tutti evidente che senza le banche le aziende agricole, più delle altre, non possono operare, l’attuale momento appare di chiusura. Ma ad ogni modo l’agricoltura siciliana (e iblea in particolare, perché costituisce la gran parte di quella regionale) risente ancor di più dell’agricoltura settentrionale i colpi della crisi.
Al Nord i costi sono inferiori anche per quanto l’approvvigionamento idrico. Se in provincia di Ragusa, soprattutto nell’altipiano, l’acqua bisogna raggiungerla creando pozzi artesiani fino anche a 200 metri di profondità che danno comunque un volume di acqua sempre insufficiente ai fabbisogni di certe colture come il mais, che richiede abbondanza di acqua, al Nord l’acqua è invece affiorante e in gran quantità in un terreno peraltro molto più fertile. Giocano poi a sfavore della nostra provincia le distanze dai mercati più movimentati, la mancanza di adeguate vie di collegamento, l’assenza di uno spirito associativistico. Cose già dette mille volte e risapute. Problemi di fronte ai quali anche Confagricoltura è disarmata. Cosa fare allora?
Scucces vede nello scioglimento di tre nodi la via di una possibile ripresa: la riduzione del costo della benzina, il contenimento del costo del lavoro e l’abbassamento del prezzo dell’energia elettrica, necessaria per le irrigazioni. Il costo del lavoro è dunque una delle leve di ripristino di condizioni praticabili di attività ed è la sola sulla quale le aziende stanno infatti agendo con risoluta determinazione.
Questo irrigidimento sta creando non solo nuove sacche di bisogno abbassando i livelli occupazionali in provincia e determinando ricadute negative sull’intera economia iblea, che per l’80 per certo deriva dall’agricoltura, ma sta alimentando un malcontento che ha portato le organizzazioni sindacali a irrigidirsi a loro volta in tema di rivendicazioni contrattuali. Tutta colpa di una crisi contro la quale nessuno ha trovato una ricetta giusta e di immediato effetto.
Carburanti ed energia sono le altre due voci che incidono maggiormente sui bilanci delle aziende. Il rimedio è quello di ridurre il loro consumo al massimo, ma questo significa usare meno gasolio e meno acqua oltre che meno benzina per i trasporti e quindi ridurre la produzione. La coltivazione del mais, che per tradizione ha costituito un prodotto d’eccellenza del Ragusano, punto di forza delle grosse aziende, è crollata in un anno del 90 per cento. Più che un crollo quasi una cancellazione totale. Ma le grandi aziende non hanno avuto scelta: ridotto l’impiego della manodopera, il secondo passo è stato il risparmio energetico. È stato come se in una gara tra barche a vela, una abbia ridotto deliberatamente la velocità rinunciando a competere pur di non ritirarsi. Una scelta inevitabile che ha portato a un volume minore del prodotto tipico, che sono primaticci e ortofrutticoli. Per produrre del resto serve liquidità, che è proprio il problema numero uno dell’attuale sistema economico e del mondo bancario. Non disponendo della possibilità di affrontare le spese correnti, né potendo promuovere nuovi investimenti, la grossa azienda agricola è costretta a ripiegare nella logica del sostegno del reddito e contenere le perdite. Per il momento non può fare davvero altro. Chi ha provato a forzare la situazione ha chiuso.
La conseguenza di questo stato di cose è che a pagare di più la crisi, secondo le valutazioni della Confagricoltura, sono paradossalmente proprio le aziende più grosse e, con effetti negativi minori, anche le medie imprese, quelle che impiegano fino a 80 stagionali in un anno. Rispondendo a una filosofia, anche culturale, ben diversa, è invece la piccola azienda ad attraversare la tempesta con minori traumi. Ma si tratta più che altro di sopravvivenza. Dice Scucces: «Se il problema principale della grande azienda agricola è il costo del lavoro, la piccolissima impresa questo problema non se l’è mai posto. Il conduttore non ha infatti mai conteggiato le proprie giornate lavorative».

Lo stato di sopravvivenza generale ha avuto una pausa lo scorso 13 ottobre scorso, giorno di gran festa sull’altipiano ibleo. È infatti piovuto per tutto il pomeriggio. Gli allevatori hanno alzato gli occhi al cielo salutando con gioia la fine dell’estate e li hanno riabbassati a terra, sui campi non più da dover irrigare e dove continuare a spendere soldi. L’arrivo della pioggia quest’anno è stato visto come una grazia divina: vedere crescere l’erba e potere così mandare la mandria a pascolare significa ogni anno non soltanto smettere di consumare acqua e luce per irrigare i campi di soia e di mais - chi ce l’ha -, ma anche contenere il consumo del foraggio, che in molti allevamenti ha cominciato paurosamente a scarseggiare non avendo gli allevatori provveduto ad approvvigionarsi in tempo contando sul cielo. Che quest’anno ha però chiuso troppo a lungo le catenelle come le banche il credito.
La conseguenza in casi del genere è obbligata. Si tratta di scegliere tra abbattere il 20, 30% di capi di bestiame o licenziare parte del personale, composto perlopiù da immigrati. Gli allevatori non hanno colpa. Se hanno esaurito le scorte foraggiere è perché non sono stati in grado di impegnare fondi liquidi nell’acquisto. Gli ultimi dodici mesi sono stati i più pesanti della lunga stagione di crisi che ha colpito anche la zootecnia. Bastano pochi numeri. Il prezzo del latte, che si aggira oggi intorno ai 35 centesimi al litro è rimasto lo stesso di quello di dieci anni fa ma i costi di produzione si sono più che raddoppiati. Se appena l’anno scorso la soia costava 40 centesimi al chilo oggi ne costa 70 mentre il mais è passato da 17 a 33 centesimi. A queste impennate vanno aggiunti i picchi del gasolio agricolo, dell’energia elettrica e del costo del lavoro. 
Si è calcolato che in un’azienda media che produca 27 litri al giorno di latte il prezzo di 22 di essi basta appena a coprire i costi alimentari. Alla fine l’allevatore ibleo che vende a 35 centesimi un litro di latte si trova a registrare una perdita di 8 centesimi. Solo per pareggiare i costi alimentari un litro di latte dovrebbe dunque essere venduto a 43 centesimi, una cifra che però è oggi del tutto improponibile all’industria lattiera e al mercato in generale. Che fare? Chi non ha fatto investimenti e non ha quindi affidamenti bancari aperti chiude. Chi invece ha comprato un terreno o un trattore o ha avuto prestiti bancari è costretto a resistere, sperando in un miracolo e continuando intanto ad accrescere i debiti. Il miracolo potrebbe essere una riduzione dei costi di produzione o l’innalzamento del prezzo del latte. Ma le prospettive prefigurano il contrario. Il problema è nella filiera.
Molti anni fa le industrie di trasformazione (da Latte Sole a Latte Zappalà) operavano direttamente nell’acquisto del latte rivolgendosi alle aziende zootecniche. Il rapporto diretto aveva però un grosso handicap: l’industria imponeva il prezzo all’azienda, priva di potere contrattuale e della capacità di provvedere al confezionamento e alla commercializzazione. Era necessaria un concessionario, sicché per bilanciare le parti, nacque nell’84 la prima cooperativa ragusana, la Nuova Agricoltura, cui seguì un anno dopo la Altopiano, oggi ribattezzata Progetto Natura. Negli anni le cooperative sono diventate sette e hanno organizzato l’85% degli allevatori mentre il rimanente 15% è rimasto sganciato preferendo conferire direttamente alle industrie lattiere. Le cooperative si sono poste come interlocutrici delle industrie patteggiando i prezzi sulla base della capacità di produzione delle aziende iblee, le più grandi fornitrici di latte della Sicilia. È stato un decennio d’oro finché non è poi arrivata la globalizzazione.
A quel punto le industrie hanno preteso di volere imporre di nuovo il prezzo, ma non più alle aziende quanto alle cooperative. Le quali hanno risposto vendendo il latte ibleo a concessionari non siciliani, figure terze che si sono introdotte nella filiera come ulteriore mediazione. La conseguenza, dai contorni decisamente paradossali, è stata quella che ha segnato gli ultimi dieci anni: le aziende conferiscono alle cooperative che provvedono ai controlli e a tutte le prescrizioni; poi le cooperative vendono a terzi non siciliani e questi vendono alle industrie siciliane che erano prima in rapporto con le stesse cooperative. Con la creazione di un passaggio intermediario in più il prezzo del latte al consumo è ovviamente aumentato, ma è convenuto a tutti: l’allevatore, minacciando di conferire direttamente all’industria, ha potuto vendere alla cooperativa a un prezzo più alto, la cooperativa ha fatto altrettanto con il concessionario forestiero e l’industria siciliana ha avuto lo stesso latte a un costo a volte più basso di prima. 
Questo stato di cose ha portato però a un’ultima evoluzione: molti produttori si sono sganciati dalla cooperativa, che ha perso il filo diretto con l’industria, e ha stabilito rapporti separati con la stessa industria o il secondo intermediario: come un tempo insomma. L’ancestrale spinta del produttore ragusano di starsene da solo e rifuggire la cooperazione sta avendo il sopravvento. Ma i tempi sono cambiati. Oggi l’industria va sempre più rivolgendosi verso ambiti di produzione, fuori dalla Sicilia e anche dall’Italia, che assicurano latte a prezzi molto più vantaggiosi per via del minor costo di produzione. Il risultato è che nei frigoriferi delle case siciliane rischia di finire latte siciliano che siciliano non è. I piccoli e medi allevatori, messi alle strette, si trovano riportati nelle condizioni originarie quando erano le industrie a imporre unilateralmente il prezzo, cosicché oggi vendono un prodotto che anziché un profitto determina una perdita.
L’impossibilità ad accrescere la produzione per via del regime delle quote latte e per l’ulteriore aumento dei costi di alimentazione nel caso di acquisto di nuovi capi spinge le industrie a rifornirsi altrove, dal momento che tutta la Sicilia non assicura che il solo 25% del fabbisogno. Di conseguenza il 75% del latte imbottigliato in Sicilia è di Oltrestretto. Ci sarebbe dunque grande spazio per il latte ragusano, ma nei fatti così non è. Per produrre di più un’azienda zootecnica deve innalzare la propria quota latte. Può farlo affittando la quota da un’altra azienda o acquistandola. Nel primo caso paga un centesimo a litro, nel secondo 5. Conviene quindi affittare. E ciò può avvenire a fine campagna, cioè a ridosso del 31 marzo, quando l’allevatore si rende conto se rischia o meno di superare la propria quota: un’ipotesi questa che comporterebbe una sanzione pecuniaria del 110% dell’eccedenza.

Per scongiurare questa penalizzazione, l’allevatore ha due strade: o si procura la quota latte necessaria ad annullare il sovrappiù o conferisce al mercato nero, caso nel quale il massimo che può augurarsi è di limitare le spese affrontate per la sovraproduzione, visto che i costi alimentari li ha sostenuti allo stesso modo. Aumentare la produzione di latte comporta quindi nuovi investimenti. Che essendo oggi insostenibili costringe a tenersi a un fatturato misurato e conforme alla capacità delle proprie stalle. Il capestro della quota latte, che relega la mucca alla stregua di un rubinetto, non consente però di ridurre la produzione al di sotto della quota latte assegnata perché la parte che manca viene confiscata e messa poi con tutte le altre nella disponibilità generale. Un’azienda zootecnica non può quindi produrre più di quanto è autorizzata, pena multe salatissime, e non può rallentare la produzione, pena la sottrazione della quota non colmata.
Per molte aziende questa logica ha significato la chiusura. Altre rimangono in vita solo perché legate a investimenti in corso. In questa situazione si trovano oltre il 70% delle aziende zootecniche del Ragusano. Un dato evidente dell’attuale stato di crisi è sotto gli occhi di chiunque attraversi in macchina le campagne iblee. Fino a dieci anni pullulavano di capi di bestiame al pascolo. Oggi l’impressione è che gli animali siano scomparsi. In gran parte sono finiti macellati, anche a 400 euro a capo. Una miseria.
Tutta colpa delle quote latte. La crisi è cominciata già prima della loro introduzione. Che in Sicilia fu vista come una manovra per aumentare le tasse per cui gli allevatori, prima dell’entrata in vigore, ridussero la produzione, convinti da molti persuasori occulti (anche politici) che più latte avessero prodotto più avrebbero dovuto versare allo Stato. In settentrione invece agirono al contrario: in attesa delle quote latte tutti accrebbero al massimo la produzione sicché fissarono le quote a uno standard più alto incuranti di eccedere. Quando ciò avvenne gli allevatori riuscirono a spingere la Lega a ottenere che a pagare le multe fossero tutti gli italiani. In provincia di Ragusa gli allevatori che hanno prodotto in più continuano invece a pagare multe anche oltre 70 mila euro. L’Italia furba del Nord e quella scema del Sud. Che diventa più scema quanto più a Sud si scende. Scema o onesta è la stessa cosa.
Le quote latte peraltro non hanno uno stesso costo. Si dividono a secondo se l’azienda si trovi in zona montana, svantaggiata (o collinare) oppure in pianura. Quest’ultima paga di più. E tali sono considerate in provincia di Ragusa anche le aziende dell’altipiano, cioè la gran parte. Né si possono affittare o comprare quote trasferendole da una altitudine a un’altra. Pur essendo montuoso, il Ragusano è stato insomma assimilato alla Pianura padana.
I tentativi per colmare gli svantaggi hanno riguardato anche la capacità produttiva. Il capo autoctono degli Iblei è la razza modicana, una specie che produce un latte superiore di qualità ma in una quantità ridotta rispetto per esempio alle pezzate nere e rosse. Ciò ha spinto molti allevatori a riempire le stalle di pezzate. Ma molti vecchi allevatori hanno preteso dai figli che continuassero ad allevare solo la modicana: un fatto di identità e di cuore. Due aziende sono diventate le più grosse della provincia, riuscendo addirittura a rendersi autonome, confezionando e commercializzando in proprio, allevando solo modicane. Sono la Floridia di Ispica e la Tumino di Ragusa. Le altre hanno diversificato il parco mucche.
Giovanni Petriglieri, una famiglia dell’altipiano modicano, che alleva dal 1951, non si è mai appassionato ai pregi-difetti della modicana e ha lasciato che il figlio Rosario colorasse le stalle di ogni razza. Rosario è uno di quegli allevatori che lavora per rendersi autonomo. Produce parte dei foraggi da sé, ha pascoli propri e conferisce a una cooperativa. Anche lui ha esultato sotto la pioggia il pomeriggio del 13.
Petriglieri è uno dei tanti allevatori che negli ultimi quattro anni tiene perlopiù costante il numero delle aziende agricole ragusane registrate alla Camera di commercio, nonostante le oscillazioni tra le nuove iscrizioni e le cancellazioni. Ma è un trend che non deve ingannare perché, secondo il segretario generale della Camcom Carmelo Arezzo, “il saldo positivo è provvisorio dal momento che si aspetta che i nodi vengano al pettine”. I nodi si chiamano investimenti già fatti e crediti in esecuzione. Nessuna azienda decide di chiudere senza aspettare di vedere il risultato delle operazioni intraprese. “La questione si porrebbe traumaticamente qualora - spiega Arezzo -le banche dovessero imporre il rientro del credito o gli investimenti dovessero risultare negativi. Potremmo allora vedere la colonna delle cessazioni aumentare in maniera esponenziale. Ma fino a quando ci sono interlocuzioni con la pubblica amministrazione, progetti in via di applicazione e pratiche ancora aperte non è possibile avere una mappa esatta della realtà iblea”.
Dunque i dati non devono confondere, perché l’andamento del settore agricolo è nei fatti pesantissimo, almeno da cinque anni a questa parte, in coincidenza cioè con l’inizio della grande crisi internazionale che sull’agricoltura meridionale è arrivata prima e con effetti più deleteri. Il saldo col segno più appare ancora più virtuale se si tiene conto che le nuove iscrizioni registrano anche quelle attività agricole intraprese dai giovani produttori grazie ai finanziamenti a fondo perduto stanziati fino all’anno scorso dalla Regione. Si tratta di ventimila euro che non sempre vengono investiti. Dunque il più delle volte vengono registrate attività che esistono solo sulla carta.
“Questo fenomeno - continua Arezzo - comporta che si abbia un aumento del numero ma non un rafforzamento del comparto, che appare anzi sempre più indebolito, anche per effetto del mercato internazionale nella cui logica ha valore solo la grossa quantità, per cui la grande distribuzione organizzata cura i propri interessi rivolgendosi alla grande commercializzazione organizzata ignorando, e quindi penalizzando, il mondo parcellizzato delle piccole imprese. Di conseguenza la nostra azienda agricola, che è storicamente di tipo individuale e familiare, rimane tagliata fuori dal circuito”.
Cosa fa dunque il piccolo imprenditore agricolo ibleo? Continua, come sempre, a conferire al mercato spuntando il prezzo di quotazione quotidiano sempre più basso. L’esperienza del passato dell’associazionismo e della cooperazione, che in provincia ha pur dato buoni frutti, ha esaurito negli ultimi anni ogni spinta e l’agricoltore, il più delle volte coltivatore diretto, si è trovato a seguire logiche ottocentesche: coltivare e portare al mercato.
“La verità - conclude Arezzo - è che l’associazionismo è stato visto come un mezzo per risparmiare nelle forniture e non come una strategia di tipo emiliano di aggressione in forze del mercato”.
Otto anni fa la crisi non mordeva come oggi, ma le banche avevano cominciato a restringere quella che oggi è la facilità perduta al credito. I dirigenti ragusani della Coldiretti, presidente Giuseppe Guastella, direttore Enzo Cavallo, ebbero l’intuizione di istituire un consorzio fidi che chiamarono “Impresa verde”. Quel consorzio, in mano poi all’attuale presidente Mattia Occhipinti, ha fatto molta strada e, dopo essere stato istituito in tutta la Sicilia, oggi è la punta di diamante della Coldiretti nazionale. Tanto da aversi un paradosso: le istanze vengono esaminate a Roma, comprese quelle ragusane.
L’iniziativa si è oggi consolidata e i soci della Coldiretti hanno trovato una linea di credito alla quale hanno attinto in molti. Ma non tutti. Le banche, per il 50% che resta a carico del socio, continuano a fare il loro lavoro e di fronte a richieste non supportate da solide garanzie reali o fideiussioni più che sicure si tirano indietro. Il fatto nuovo è semmai il criterio di affidamento che gli istituti di credito esercitano.
«Anziché una valutazione di tipo oggettivo - dice Mattia Occhipinti, presidente della Coldiretti provinciale - abbiamo visto banche che valutano la storicità di un’azienda e non esitano a puntare su quelle che hanno avuto un passato prospero e possono quindi essere rimesse in corsa».
Un criterio del tutto eccezionale e comunque non sempre applicato. Le banche che operano in tal senso sono, secondo Occhipinti, la Banca agricola popolare di Ragusa e Unicredit, il vecchio Banco di Sicilia: gli istituti insomma che più si sono spesi a favore dell’agricoltura iblea anche in tempi in cui erano le banche che cercavano gli agricoltori e non viceversa come accade oggi.
Fino a dieci anni fa banche e aziende agricole facevano parte di un combinato disposto che in provincia ha segnato picchi di produttività e qualità. Poi, con l’insorgenza sempre più invasiva della globalizzazione, banche e aziende agricole hanno cominciato ad allontanarsi. «Ma senza l’esercizio del credito - osserva Enzo Cavallo, storico dirigente di Coldiretti e oggi presidente del Distretto siciliano lattiero-caseario - le aziende agricole sono come alberi senza acqua». Oggi le cose sono molto cambiate. Stretta creditizia da un lato e pressione fiscale da un altro hanno portato a una situazione nella quale proprietari delle attività agricole sono di fatto le banche e la Serit. Le quali operano perseguendo logiche che Cavallo definisce «non compatibili con le esigenze dell’impresa agricola».
Si tratta di esigenze che, fino all’affermarsi dei processi di globalizzazione e delle logiche comunitarie e nazionali circa la tracciabilità dei flussi, hanno caratterizzato l’economia agricola soprattutto iblea. Che ha fatto la sua storia sulla “girata” dell’assegno, fino anche a dieci trasferimenti e più. Ogni girata rappresentava la chiusura di una transazione, cosa che oggi sembra del tutto inverosimile. Di più: il titolo posdatato e pur negoziabile come contante ha costituito il regime che ha permesso il boom dell’agricoltura. Senza gli assegni trasferiti da azienda ad azienda e anche a privati l’agricoltura iblea, con le sue punte di eccellenza e i suoi marchi di qualità, sarebbe stata un’altra cosa. Nel settore zootecnico, l’industria lattiera trasferiva l’assegno al mangimista e questo al suo fornitore e così via: una prassi che le banche hanno sempre guardato di buon occhio assistendo così la tenuta dell’intero comparto. Tutto ciò oggi non è più permesso. Non solo: a rendere difficilissima la situazione è stata la concomitanza delle restrizioni del credito e della perentorietà degli obblighi fiscali che hanno finito per mettere in ginocchio l’agricoltura.
Gli sforzi fatti negli anni dalla Coldiretti perché l’azienda agricola fosse sottoposta a un regime legale che le garantisse certezza e regolarità equiparandola a un’impresa di altro settore sono caduti nel vuoto rivelandosi anzi pregiudizievoli dal momento che un’azienda agricola è molto più delicata e sensibile di un altro tipo di impresa e quindi più soggetta a crisi finanziarie ed economiche come quella che stiamo vivendo. La selezione delle aziende nella prospettiva di una loro classificazione imprenditoriale ha ridotto il numero ma non ha risolto i problemi. Che sono quelli dell’impossibilità sopravvenuto dell’accesso al credito.
Di fronte agli ostacoli sorti nell’ambito creditizio e fiscale, la Coldiretti è stata la sola associazione di categoria a intervenire con misure di ristoro a favore degli agricoltori. “Impresa verde” è infatti l’unico consorzio fidi nato all’interno di una organizzazione agricola. Questo spirito assistenziale ha premiato nei limiti di una congiuntura che rende difficile all’impresa agricola anche l’accollamento della metà del finanziamento a suo carico. Insomma, la crisi è tale che le banche non si accontentano della sola garanzia del consorzio fidi. Ma anche la Serit ha trovato difficoltà nel realizzare la riscossione del credito mettendo all’asta il terreno confiscato.
Cavallo ricorda che fino all’anno scorso la Provincia di Ragusa intervenne dal canto suo con due misure: la partecipazione alle spese di istruttoria delle pratiche processate dai consorzi fidi e lo sgravio di 2-3 punti degli interessi maturati sui finanziamenti bancari. Nel 2011 l’intervento iscritto in bilancio è stato pari a 65 mila euro, una somma che è diventata di gran lunga maggiore al momento dell’erogazione. Ma oggi anche questi contributi sono venuti meno a causa delle difficoltà finanziarie dell’ente. Ai coltivatori diretti non è rimasto che ben poco cui chiedere sostegno e affidare le proprie chances.
In un momento nel quale il tenore è quello del contenimento dei costi, il piccolo proprietario ha riscoperto nella provincia che ha decretato il successo della coltivazione in ambiente protetto, cioè la serra, il “pieno campo”. L’agricoltura en plein air comporta decisamente minori costi, ma dà anche minori risultati.
Mattia Occhipinti non crede però che ci siano grandi differenze nel rendimento e nella remuneratività delle due colture. «La crisi non guarda in faccia nessuno e colpisce pesantemente ovunque». Resistere è l’imperativo categorico per tutti. Oggi chi entra in agricoltura lo fa a suo grande rischio, né bastano gli incentivi e le agevolazioni che la Regione siciliana va apprestando soprattutto a vantaggio dell’imprenditoria giovanile. Ma resistere fino a quando? E come? La grande distribuzione, figlia della globalizzazione, sta duramente penalizzando la produzione iblea, che paga una marginalità geografica e una perifericità infrastrutturale che una volta erano segno di genuinità dei prodotti ma che oggi sono indice di una progressiva regressione.
Una volta era proprio diverso e il Ragusano era visto come una specie di Eldorado. Fino almeno alla fine degli anni Ottanta si spendeva a profusione nell'agricoltura. I soldi c’erano. I matrimoni venivano celebrati con oltre duecento invitati e menu da 70 mila lire a cranio. Anche allora, all’inizio di ogni nuovo anno, i giornali usavano domandare speranze e auspici. Enzo Dipasquale, pasticciere ma anche commis di pranzi nuziali, non ebbe esitazione a rispondere: «Mi auguro che per le serre di Vittoria sia una buona annata anche quella che viene». In quelle poche parole, pronunciate da un operatore economico ragusano a favore di un altro settore economico appartenente dopotutto a una diversa realtà, c’è tutta la storia dell’agricoltura ragusana.


La serricoltura era allora il volano non solo dell’Ipparino ma di tutta la provincia. Se andavano bene le serre non nascevano solo villone con le maniglie d’oro alle porte ma si innescava un circolo virtuoso grazie al quale anche chi allestiva pranzi di nozze, non certo il primo della filiera dunque, e comunque un offerente di beni voluttuari, ne traeva vantaggi molto cospicui. Le serre erano le regine dell’attività agricola, ma anche l’ortofrutticoltura in campo aperto dava risultati entusiasmanti. Non meno privi di slancio erano gli altri tre settori cardine dell’economia iblea, che è storicamente fondata sull’agricoltura: floricoltura, zootecnia e industria lattiero-casearia.
La terra è la risorsa di questa provincia al punto da esserne stata, agli albori della storia, anche un mito. La dea greca Demetra ebbe una progenitrice sicula nella dea Ibla che fu adorata soprattutto in terra iblea ed ebbe un culto esteso a tutta l’isola. Una certa tradizione che rimanda a Diodoro Siculo vuole poi che il pastorello Dafni fosse un figlio degli Erei, che - se Erea è la Ibla ragusana - si identificavano con gli Iblei.
Questo gene ereditario ha segnato l’evoluzione della provincia, legata alla terra come ostrica allo scoglio. Oggi Dipasquale non potrebbe più contare sulle serre ipparine né su altre risorse dell’agricoltura. È pur vero che anche allora non c’erano mezzadri che, al momento del pagamento del canone al proprietario, non lamentassero poveri raccolti, essendo nella coscienza contadina iblea piangere miseria per non pagare (e Serafino Amabile Guastella ha testimoniato con arguzia queste “parità” tipicamente iblee), ma è altrettanto vero che quanto l’agricoltura ha reso a quel tempo un sacco di gente ricca tanto oggi fa penare centinaia di famiglie. Vale ancora il teorema di Dipasquale per cui, se allora l’agricoltura assicurava fortuna a tutti, oggi è sempre la crisi dell’agricoltura a produrre povertà.
La congiuntura internazionale e la conseguente stretta creditizia integrano la causa prima di un regresso generale che ha colpito con maggiore violenza l’agricoltura perché si tratta di un comparto per il quale l’esercizio del credito bancario è stato prima provvidenziale (si pensi al ruolo che ha avuto agli esordi la Banca agricola popolare di Ragusa) e poi fondamentale e imprescindibile. Ogni istituto bancario elargiva fondi quasi senza limite a fronte dell’iscrizione della sola ipoteca di primo grado sul prestito, nella certezza che il terreno ipotecato sarebbe stato rivenduto con estrema facilità e forse con maggiore profitto. Oggi le banche (compresa, ma per ultima, la Banca agricola popolare di Ragusa) lesinano aperture di credito in mancanza di garanzie reali costituite da grossi immobili o inattaccabili fideiussioni. Sanno che in caso di insolvenza la vendita di un terreno all’asta, sempreché si presenti qualcuno interessato all’acquisto, sortirebbe un risultato decisamente deludente.
L’errore di fondo, nell’esercizio del credito, è quello di estendere all’agricoltura il regime fiscale che è proprio dell’industria, applicando ad essa le regole di valutazione aziendale che tengono conto del fatturato e dei parametri di Basilea e assegnando dunque un rating che è quanto di più estraneo possa riguardare un settore i cui bilanci di previsione dipendono perlopiù dalla natura. I criteri di analisi di un’azienda agricola dovrebbero invece assumere due soli elementi di giudizio: il reddito agrario (dato dal valore e dalla redditività della coltura) e il reddito dominicale (dato dal valore del terreno, se pascolo per esempio o seminativo). Le associazioni di categoria, con la Cia in testa, si stanno impegnando a fondo perché passi finalmente una logica del genere: che consideri quella agricola un’azienda speciale. Ma è anche vero che, a parere della Coldiretti, l’equiparazione dell’azienda agricola a una di tipo industriale è da considerare una conquista perché ne fa una vera impresa. Comunque sia, pesano anche direttive comunitarie che imbrigliano gli stessi istituti di credito dentro un modello comune a ogni forma di economia.
Ma senza credito l’agricoltura siciliana - e iblea in particolare - non può farcela quando si consideri pure il fallimento della politica di associazionismo e di cooperazione iniziata con entusiasmo e rimasta per strada. Un deficit tutto ragusano. La pervicace convinzione che da soli è meglio è figlia infatti di un pregiudizio culturale che rimonta al Cinquecento e alla particolarità della formazione della coscienza ragusana nel segno della frammentazione. Quella che fu una grande conquista, la proprietà terriera divisa e concessa in enfiteusi con la creazione di centinaia di piccoli proprietari, si è rivelata oggi un handicap. La tradizione che ha premiato la contiguità anziché la comunione ha lasciato in eredità una mentalità radicata e finito per danneggiare proprio il piccolo proprietario.
Il produttore agricolo ibleo ha visto infatti nell’associazionismo non un’utile compartecipazione ma la sola possibilità di risparmiare negli acquisti, per esempio della plastica. Incapace di guardare oltre il proprio orizzonte, il coltivatore ibleo ha scelto di fare concorrenza al vicino piuttosto che ai mercati lontani, ritenuti innocui e ininfluenti e oggi finiti invece per fagocitarlo raggiungendolo fin dentro la sua masseria.
A farcela non possono che essere dunque i grandi gruppi, anch’essi comunque impegnati duramente contro i processi di globalizzazione. E mentre realtà come La Mediterranea Fiori di Acate fronteggiano la crisi con forza, sia pur a fatica, si va affermando un fenomeno nuovo, tipicamente ottocentesco: la coltivazione di nicchia, specialmente olio e vino, sulla quale si sono cimentati non più i grandi proprietari ma la classe borghese formata dai professionisti. Avvocati, architetti, notai, farmacisti vanno sempre più esplorando, a tempo perso e come attività complementare a quella principale, il piacere e la possibilità di produrre un proprio vino o un proprio olio.
Questi imprenditori della domenica hanno realizzato aziende che oggi vanno conquistando fette di mercato sempre più ricercato e raffinato. Ditte come la Avide del notaio Demostene o la Cos di Giusto Occhipinti e dell’architetto Cilia o ancora la cantina Valle dell’Acate di Peppinello Iacono e della figlia Tania quanto alla zona occidentale della provincia, mentre per quella orientale valga l’azienda Eloro di Curto di Ispica, producono un vino cerasuolo che fronteggia la recessione e conquista i mercati esteri. Anche nella produzione di olio la classe borghese va in campagna e insedia aziende non meno in crescita. L’olio dei fratelli Schininà, impegnati innanzitutto nella vendita di autovetture, o quello Dop dei Monti Iblei prodotto dall’ingegnere chiaramontano Peppino Rosso oppure ancora di Vito Catania, un imprenditore giramondo che da Chiaramonte ha fatto ormai stanza a Parigi, costituisce un prodotto in controtendenza al faticoso andamento del settore professionalizzato.
Ma se la produzione ristagna nelle mani di operatori impegnati a tempo libero, l’agricoltura rischia di perdere il primato storico di economia regina della provincia. Che essendo quella a maggiore vocazione agricola della Sicilia costituisce un indice generale. In questa provincia si decide dunque il futuro del settore. Ma la battaglia è titanica. Gli ostacoli da vincere sono la politica agricola comunitaria, la famigerata Pac, che penalizza pesantemente il Sud Europa, e la grande distribuzione, un sistema spregiudicato che ha colpito duramente la provincia di Ragusa scavalcandola per rifornirsi, a prezzi migliori, nel Maghreb, da dove importa quei prodotti ortofrutticoli che sono un genere ragusano di eccellenza. A sostenere lo scontro sono la Regione e le associazioni di produttori. Ma fino a quando non scende in campo lo Stato, il Ragusano non sarà che in inferiorità.
Del genio ibleo in fatto di serre diede molti anni fa prova un serricoltore modicano che coltivava rose. Le produceva prima degli altri e le vendeva quindi al prezzo che decideva lui. Il segreto era alla vista di tutti, purché passassero davanti alla serra di notte, quando le luci erano accese. Quel serricoltore, ormai deceduto, aveva scoperto che con la luce artificiale i fiori germogliavano più in fretta. Dopo di lui tutti i serricoltori hanno lasciato, andando via, la luce accesa. C’è stato un tempo, quando l’energia elettrica non costava quanto oggi, che le serre formavano una luminaria da fare sparire le stelle nel cielo. Poi anche quelle luci si spensero, perché nessuno produceva più prima degli altri sicché non conveniva accrescere i costi. Oggi le serre sono non solo spente ma anche chiuse, anzi divelte. I costi di produzione sono diventati esorbitanti e tenere la luce accesa di notte sarebbe proprio una pazzia. Né avrebbe granché senso visto che altri prodotti arrivano oggi prima sul mercato: quelli stranieri o comunque non ragusani né siciliani.
Un settore ibleo d’eccellenza in campo serricolo è la floricoltura, che - avendo un maggiore mercato - spunta da sempre guadagni più alti della orticoltura ma richiede anche costi maggiori di produzione. Lievitando questi, la produzione ristagna sicché la floricoltura risente la crisi ancora di più. Anche perché è invalso un po’ ovunque l’esercizio della serrifloricoltura, per giunta con l’uso di substrati inerti e fuori suolo. Il fiore coltivato in campo aperto e su un terreno del quale sfrutti le proprietà organiche così da specificarsi in una varietà ben distinta non esiste quasi più. Può essere piantato a un metro dal suolo e su sostanze inerti, perciò in qualunque luogo. Questo significa che distinguere una rosa siciliana da una olandese diventa non solo impossibile ma anche irrilevante. Quel che rimane di autoctono e identitario è il prodotto frutto del clima locale, che ha una forte incidenza non solo sulla qualità ma anche sui costi. Il caldo nuoce alle rose se eccessivo.
Antonio Calabrese è un agronomo che coltiva rose in un’azienda serricola di Cava d’Aliga avuta dal padre, uno dei primi in provincia ad essersi dedicato al fiore più bello e più costoso. I costi di energia elettrica che deve affrontare nei tre mesi estivi per un ettaro di superficie protetta si aggirano oggi intorno ai quindicimila euro e sono tesi a ridurre gli effetti del sole nella serra attraverso impianti di raffrescamento che, con l’impiego di pannelli e ventole alimentati tutti ad energia elettrica, riescono ad abbassare la temperatura da 38 a 28 gradi. Calabrese ha calcolato che per ogni ettaro occorrano 60 kilowatt. Ma altri consumi di energia elettrica si aggiungono a questi e derivano dalla concimazione, dalla fertirrigazione, dalle celle frigorifere, dalle macchine selezionatrici e da tutti gli altri impieghi di luce possibili in un’azienda.
L’escalation dei costi ha ridotto negli ultimi dieci anni le superfici ragusane di coltivazioni di rose del 70% a fronte del dato che registra il 40, 50% in meno della floricoltura in genere. Ad aver avuto un’impennata esorbitante sono stati i fertilizzanti aumentati fino 300%. Sulla scia dell’aumento del prezzo del petrolio è schizzato in alto, oltre al prezzo del gasolio agricolo, anche quello dei fitormarci per i nitrati e i nitriti in essi contenuti. La conseguenza più grave della crisi è il calo dello spirito d’impresa: se un’annata va bene si coprono i costi. Questo risultato, unito alla pesante stretta creditizia, impedisce gli investimenti e quindi l’innovazione, che nella serricoltura è importantissima, e con gli investimenti si ferma anche lo sviluppo. Senza sviluppo viene meno il lavoro, cosicché la crisi non fa che avvitarsi sempre più.
Per un’altra serie di circostanze, a rendere più difficile il quadro è anche la concorrenza estera. Nel campo della floricoltura l’Olanda è il Paese che esporta di più anche in Sicilia. Tutti i mercati e i siti web di vendita di fiori offrono i fiori olandesi di ogni varietà, che si sono fatti gran fama, insieme con quelli locali. I fiori di Scicli, che secondo una certa nomea priva di fondamento erano quelli che addobbavano il palco del Festival di Sanremo, stanno vivendo anni di magra - se anche la Liguria, la regione che ha inventato la floricoltura è anch’essa in ginocchio. Eppure i fiori prodotti nell’area sciclitana, come in quella ipparina, riescono a sostenere la concorrenza straniera grazie a uno standard di qualità che per otto mesi l’anno sa farsi valere. Per garantire una produzione anche estiva ed altrettanto competitiva occorrono le tecnologie, per impiegare le quali sono però richiesti fondi liquidi, la cui scarsità frena dunque ogni progetto. Insieme con Santa Croce e Marsala, Scicli rappresenta il più grosso centro di produzione floricolo della Sicilia. Il loro mercato è essenzialmente quello locale, regionale al massimo. Manca la forza di commercializzare alla maniera olandese, mancano le organizzazioni capaci di immaginare grandi scenari e conquistare mercati lontani. Ma c’è un’altra ragione perché i fiori iblei fanno poca strada. La Sicilia è infatti una consumatrice forte di fiori che per il 60% sono richiesti a uso funerario.
Il culto tutto siciliano dei morti con l’offerta, nei cimiteri e nei funerali, di fiori, un culto che dura tutto l’anno e che non registra flessioni, è quello che sostiene l’industria floricola anche ragusana. Accanto alle celebrazioni funebri ci sono peraltro anche quelle liete come i matrimoni e le occasioni nelle quali il fiore resta il principale simbolo del dono. Le stelle di Natale, per esempio, hanno in Sicilia un vastissimo consumo e la serrifloricoltura iblea è molto impegnata su questo versante. Si è peraltro scoperto che il consumo di fiori è più elevato nelle grandi città come Catania e Palermo dove le tradizioni sono più massificate.
Una ulteriore fetta di mercato è occupata poi dal “vaso fiorito”, con ciclamini, rose e gerani, ma è il crisantemo, nella particolare varietà del crisantemino, a detenere il primato. Molte aziende si sono specializzate perciò nella coltivazione del crisantemino, che è diventata la principale attività della più grande impresa floricola della provincia, La Mediterranea Fiori di Acate, la sola che soddisfa in proprio l’intero ciclo: dalla produzione al confezionamento alla commercializzazione esportando in tutta Europa ormai da quindici anni. Le altre aziende vendono ai “magazzini”, strutture private che svolgono il compito dei commissionari. Le più grandi sono quella di Scicli, Guarino, e quella di Vittoria, Lo Monaco, due mercati del fiore dove operano commissionari, che ricevono una provvigione sul venduto, e commercianti che comprano e vendono in aste che a Vittoria si tengono il mercoledì e il sabato in un ambito interamente automatizzato.
Ma non è la sola produzione siciliana a essere messa in vendita. Accanto ad essa le transazioni riguardano produzioni anche nordafricane e del Centro America o magari provenienti solo dal Lazio. Il 90% delle aziende produttive ragusane conferiscono in queste strutture private o nelle altre due o tre minori attive in provincia. Solo a Vittoria conferiscono oltre 700 produttori che sono perlopiù della provincia. Anche La Mediterranea, un vero e proprio gigante, per gli effetti della crisi economica, conferisce in piccola parte nelle strutture private.
La crisi sta spingendo a ridimensionare programmi e rischi anche nella serricoltura orticola. Su 10 mila ettari di serre, si calcola che il 20% delle aziende hanno chiuso. La plastica dismessa e abbandonata indica un fenomeno che sembra innaturale in questa provincia.
Intanto giungono le campagne di controffensiva. Giorno 11 ottobre l’assessore regionale all'Agricoltura Aiello ha firmato quattro decreti (più uno insieme con l’assessore alla Sanità Russo) che potrebbero introdurre reali elementi di cambiamento nella politica agricola regionale. Si tratta di interventi che, come ha detto Aiello annunciandoli a Ragusa, sono figli delle battaglie sostenute soprattutto nel Ragusano. La madre di tutte le battaglie è quella per l’identità del prodotto: marchiarlo significa distinguerlo e impedire che venga contraffatto. Per l’agroalimentare siciliano, che vanta il maggior numero di Dop in Europa e può vantare un brand affermato in ogni continente, dotarsi di una carta d’identità e di un marchio distintivo è una via obbligata. Se viaggiatori riferiscono di aver visto a Shanghai commercianti boemi vendere loro prodotti spacciandoli per siciliani significa che il made in Sicily ha successo. Ma i tecnici dell’assessorato regionale all’Agricoltura si sono resi conto che specificare la provenienza, dire per esempio “carota di Ispica”, sui grandi mercati internazionali, soprattutto i più distanti, non significa niente. 
La logica del campanile, ha spiegato Aiello, equivale a quella per cui ogni quartiere debba avere la sua squadra di calcio, tutte costrette alla fine a una vita magra. La soluzione è un marchio per tutti i prodotti, a prescindere dal comune di produzione. E dal momento che è il prodotto siciliano ad avere un forte impatto, sarà dunque “Sicilia” il marchio che connoterà i prodotti siciliani. Il marchio servirà anche a dimostrare che quello che la Sicilia produce è il meglio in fatto di qualità, mentre finora l’attestazione di superiorità è stata data dal mercato, ciò che ha comportato che molti prodotti si sono impossessati arbitrariamente della presunzione indebita di autenticità siciliana.
Il marchio sarà rilasciato, su richiesta dell’azienda, a tre tipologie di prodotti: quelli già da marchio, i Dop, per esempio, cioè ottenuti in Sicilia; quelli che rispondono ai disciplinari di qualità della Regione e siano quindi certificati; e quelli tracciabili. Le aziende saranno periodicamente sottoposte a verifiche ispettive da parte dell’assessorato e costrette ad adeguarsi al regolamento, ai disciplinari di qualità e agli altri documenti prescrittivi. Si tratta di uno strumento del tutto nuovo che, prima ancora dei produttori, garantisce i mercati perché certifica una varietà circa le sostanze con cui è prodotta.
Questo decreto è accompagnato da un altro che è collaterale. Garantire un prodotto con un marchio significa anche salvaguardarlo circa i rischi di contraffazione. Di qui il decreto sulla salvaguardia della produzione siciliana entro la quale quella iblea ha una posizione dominante. Indicazione del luogo di origine, etichettatura, conformità alla normativa comunitaria e corretta presentazione: sono misure di cui si farà carico il Dipartimento per gli interventi infrastrutturali che segnalerà i casi di frode all’assessorato per le sanzioni previste. Fra queste l’iscrizione in una black list, contrapposta a una white list, dove l’azienda sarà tenuta per tre anni senza possibilità di accesso a ogni forma di intervento finanziario regionale. Non solo. All’azienda inadempiente sarà data la possibilità di risolvere la non conformità entro un dato periodo di tempo, fissato caso per caso ma potrà anche, in presenza di una particolare gravità, vedersi revocata la licenza di marchio e ricevere una ingiunzione a ritirare addirittura il prodotto dal mercato. Norme quindi severissime nell’ottica della finalità din un decreto che intende combattere le frodi e le contraffazioni ma nello stesso tempo valorizzare e difendere i prodotti siciliani quanto a genunità e certificazione.
Il terzo decreto firmato da Aiello riguarda la ricerca e l’innovazione, un campo nel quale la provincia di Ragusa si è dotata di istituti come il Corfilac di Ragusa, l’Asca di Ispica e il Centro per le colture protette di Vittoria, di cui però soltanto il primo è in piena attività. Il decreto istitutivo dello “Psari” (acronimo che sta per “Piano dei servizi avanzati, ricerca e innovazione”) intende gestire l’innovazione tra il mondo della ricerca, il pubblico e il privato, la qualificazione e la valorizzazione degli operatori e delle imprese, lo sfruttamento delle opportunità di finanziamento comunitarie, nazionali e regionali e si configura quindi in un’azione di integrazione di sistema e in una condivisione di progettualità, conoscenze e capacità finalizzate a stimolare i processi di ricerca.
Il decreto rilancia la strada intrapresa negli anni Novanta proprio dalla produzione agroalimentare iblea che si avvicinò all’università e agli enti locali per studiare come ottenere prodotti di qualità certificati. Nacquero quegli istituti che negli anni hanno esaurito la loro spinta e che ora la Regione vuole rimettere in piede e riattivare: anche per facilitare - ed è questo uno degli obiettivi del decreto - la nascita di nuove aziende. Si tratterà di costituire una rete integrata che riunisca e coordini i vari centri ed istituti finora lasciati ad operare da soli, rivalutando - quanto alla provincia iblea - non solo il Corfilac ma anche il Centro di contrada Perciata e il Servizio informativo agrometeorologico siciliano di Ispica, la defunta Asca.
Non si tratta di un decreto di interesse relativo ai soli centri di ricerca, perché riguarda anche i produttori. Lo Psari infatti promuoverà la diffusione di strumenti informativi quali libri, audiovisivi, giornali e Internet; lo svolgimenti di seminari e convegni, oltre che di corsi di formazione; l’apertura di sportelli di orientamento e assistenza tecnica alle aziende; il supporto alla progettazione, al finanziamento e alla realizzazione di azioni di ricerca; la gestione di progetti di aggregazione e sviluppo di attività avanzate; accordi di filiera e infine l’assistenza alla internazionalizzazione delle imprese e la certificazione di prodotto per la filiera di competenza.
Il quarto decreto rilancia la politica del cosiddetto “chilometro zero”, cioè del prodotto che viene ottenuto dove è consumato. La Regione mette a disposizione della pubblica amministrazione (ospedali, scuole, caserme...) prodotti agroalimentari certificati indicati in liste autorizzate. Per prodotti agricoli a chilometro zero dovranno intendersi quelli Dop (denominazione di origine controllata), gli Igp (indicazione geografica protetta), gli Stg (specialità tradizionale garantita) e naturalmente i prodotti riconosciuti con il marchio “Sicilia”. Si tratta di un logo che verrà rilasciato dall’assessorato all’Agricoltura nel cui ambito sarà istituita una commissione valutatrice per il rilascio della licenza valida al suo uso, oltre che un Tavolo di concertazione per promuovere la conoscenza e la diffusione delle produzioni agroalimentari siciliane. Anche in questo campo sarà introdotta una lista nera nella quale verranno iscritti per tre anni gli operatori che non si atterranno alle prescrizioni.
Il quinto decreto integra un accordo interassessoriale che coniuga salute e tavola secondo lo slogan coniato a tal fine “Vivi sano, mangia siciliano”. Lo scopo è di associare la dieta siciliana ai prodotti agroalimentari riconosciuti come genuini e tipici. Si è scoperto che la dieta siciliana è superiore a quella mediterranea ed è comunque propria della sola Sicilia. Le sue proprietà hanno portato a un incredibile dato: una corretta dieta siciliana fa regredire certe forme tumorali anche del 35%. Gli Stati Uniti, che vivono il problema endemico dell’obesità, si sono mostrati molto interessati e hanno chiesto di visionare questa dieta. Si è poi visto che alla clinica Maddalena di Palermo la macerazione di foglie di ulivo somministrata a un malato di cancro per ottanta giorni ha ridotto il cancro del 40%. Tutto merito della natura e quindi dell’agricoltura, purché genuina. Di qui la necessità di promuovere prodotti agroalimentari di ineccepibile autenticità per integrare una dieta di cui l’Istituto zooprofilattico (che fa capo all’assessorato alla Sanità) possa rilasciare l’attestato di produzione certificata. L’obiettivo prossimo è l’Expo 2015 dove questo decreto dovrà dare i suoi frutti in termini di affermazione appunto della nostra specialissima dieta.
«Mettere insieme agricoltura e sanità - ha detto Aiello illustrando il decreto - significa operare nel senso della qualità e dell’eccellenza che sono i due fattori di distinzione della nostra agricoltura». Pur criticando l’attuale governo tecnico nazionale, «perché la politica non può essere fatta dai tecnici», Aiello non ha mancato di sottolineare il ruolo che sta svolgendo il ministro all’Agricoltura Mario Catania, il quale - primo fra tutti - ha ammesso che la filiera agroalimentare del Sud è rimasta ferma al Dopoguerra. Catania, che viene dalla Coldiretti, ha in sostanza riconosciuto la difficoltà dei prodotti agroalimentari meridionali a competere sui mercati. 
Sulla politica dei prezzi in ambito comunitario Aiello ha ricordato poi che sin dal 2007 il Parlamento europeo ha lanciato l’allarme circa le distorsioni create dalla grande distribuzione. Il problema principale, oltre alla Pac, che sta creando tante Europe secondo le latitudini, è proprio la grande distribuzione che, secondo Aiello, è incolore, non è politicizzata, e pertanto supera ogni steccato facendosi spregiudicata. Contro i danni della grande distribuzione il rimedio è una maggiore qualità. Quanto più la grande distribuzione massimizza tanto più l’agroalimentare di qualità deve invece affinarsi e specializzarsi. Ecco perché è necessaria un’educazione all’alimentazione che sia condotta attraverso ogni canale di informazione e in ogni sede, a cominciare dalle scuole. I consumatori devono sapere cosa prendono in mano nei supermercati, guardare la provenienza del prodotto e non soltanto il prezzo. Solo così è possibile affermare non un regime autarchico del consumo, per il quale i siciliani producono ciò che i siciliani mangiano, ma un circolo virtuoso che declini salute e cibo.
Il disposto dei cinque decreti, la cui attuazione è demandata nei fatti al futuro governo, mira a integrare in un unico obiettivo programmi che tendono a uno storico traguardo: dare al made in Sicily una patente che finalmente possa costituire per l’agricoltura dell’isola una reale occasione di ripartenza.
Assessore Aiello, traiamo le conclusioni sulla situazione. Il settore che sta peggio è quello che in passato stava meglio e cioè la zootecnia. Perché?
Perché è un comparto maggiormente di impresa, cresciuto affrontando il mercato in una fase di riflusso e di dominio sui prezzi da parte di soggetti che ne condizionano a vario titolo le dinamiche. Non che i comparti assistiti stiano meglio, ma zootecnia e serricoltura, che si muovono autonomamente, pagano di più. Appena il latte è pronto le aziende si trovano di fronte a un mercato fortemente controllato da forme pesanti di speculazione. Questi gruppi privati svolgono la stessa azione che era prima delle banche come interlocutori unici. Discutiamo di fenomeni immateriali, di un processo di commercializzazione che va piazzando saldi picchettatori.
In un certo senso anche le cooperative rientrano in questo ambito.
La cooperazione non ha saputo assolvere al compito originario. Nasce in controtendenza rispetto all’unità d’Italia ed è figlia dei progetti settentrionali che puntano a farla in proprio l’unificazione, almeno quella dei produttori. Ma poi le dinamiche di mercato spaccano la cooperazione: da un lato la cooperazione di territorio rimane isolata e dall’altro la cooperazione commerciale di processo se ne va altrove, verso il Marocco, l’Egitto, l’Est. Finisce così anche la solidarietà nazionale e c’è solo la grande distribuzione. A Cesena ho assistito a un dibattito presente il ministro Catania, che a un produttore settentrionale che annunciava il ritorno del Nord al Sud chiedeva perché non ci fossero già e perché se ne fossero andati. Il dramma di questo Paese va letto dunque in chiave di responsabilità non solo di casta e di politica ma anche e soprattutto di grandi dinamiche che vanno dove va la globalizzazione. Le cooperative rientrano in questo gioco e ne sono rimaste intrappolate.
Ma negli ultimi anni in provincia si assiste a un fuggi-fuggi generale dalle cooperative. I produttori conferiscono direttamente alle industrie, come moltissimi anni fa.
Rompono i ranghi, è vero. Ma anche questo è nel conto di una strategia ben precisa. A Ragusa si pone una grande necessità: la collocazione non neutrale delle istituzioni. Se l’assessorato all’Agricoltura continua a stare sopra le parti e non rompe lo schema schierandosi dalla parte dei produttori, la zootecnica iblea sarà totalmente distrutta, perché via via che crescerà la capacità dei Paesi orientali di aumentare la produzione, il latte rischia di venire solo da fuori. E le isole di agricoltura avanzata che ci sono nel Sud Italia e a Ragusa, che vivono in un grande sistema di relazioni industriali per cui i costi sono rapportati a questo modello e sono quindi più alti, sono destinate a scomparire. Rompere questo schema non significa istituire tavoli per stabilire, in un mero esercizio retorico, il prezzo del latte e ottenere l’indomani un centesimo meno. Significa dare un senso al fatto che gli industriali del latte ricevono finanziamenti cospicui quanto alla promozione e alle strutture, sicché le aziende agricole devono capire che la logica della divisione va respinta perché più passa questa logica più deboli diventano tutte le aziende, anche quelle più grosse che hanno un partenariato forte con gli industriali. Le risorse regionali per la zootecnia vanno invece spese per creare a Ragusa la centrale del latte siciliano, visto che è la provincia più produttiva, creare a Ragusa le strutture regionali unificate.
Ma non c’è solo la zootecnia in ginocchio. C’è anche la serricoltura.
Non c’è dubbio. Dentro questa grande crisi dobbiamo collocare quella del comparto più avanzato, quella che è nata prima, che ha più esperienza, che ha conosciuto momenti di felicità nell’innovazione: la serricoltura appunto. Si è creduto per molto tempo all’idea sbagliata secondo cui la grande azienda fosse necessaria per vincere sul mercato. Abbiamo invece dovuto constatare che venendo meno il 70% delle piccole e medie imprese anche quelle grandi hanno il destino segnato. In provincia abbiamo aziende che hanno avuto fino a 500 dipendenti e sono anch’esse pesantemente in crisi. Significa che in crisi non sono queste o quelle aziende ma il modello stesso di serricoltura come lo abbiamo inventato. Perché questo? Perché l’accesso al credito si misura sulla stessa scala, unica per tutti, così come i costi di produzione e tutte le altre voci. Ma soprattutto l’attacco dall’esterno colpisce tutti, chi di più chi di meno. Colpa di un sistema stolido che è incapace di avere uno minimo di progettualità siciliana e rincorre il mercato globalizzato. E questa crisi, voluta dai mercati aperti, è esplicitamente sostenuta dall’Unione europea che ha voluto un Psr in funzione antimerdionale e che ha imposto in zootecnia un modello standard proprio dell’Europa continentale per cui molte risorse restano inaccessibili per un comparto ancora in fase di evoluzione.
Ma secondo lei l’agricoltura iblea bela o ruggisce?
È in affanno. Diciamo meglio che arranca, perché sebbene gli sforzi siano finalizzati al miglioramento delle condizioni operative e organizzative nelle campagne e nelle aziende - e cioè verso forme di ottimizzazione dell’organizzazione della produzione - tuttavia le trasformazioni globali che influenzano le produzioni sono molto più veloci e tali da introdurre regole sconosciute alle aziende.
Questo cosa significa?
Significa che le aziende che vivono e operano, per natura e per definizione, nel territorio - e che nel territorio si organizzano - si trovano a impattare con dinamiche che nascono e maturano altrove, in sedi che non solo appartengono ad altri territori ma sono di chi poi dirige l’affare agricoltura a livello globale.
Perché parla di affare?
Perché l’agricoltura è uno dei primi affari cui guardano gli investitori (la finanza, le banche...), oltre allo sviluppo industriale. Lo sviluppo agrario, in rapporto all’evoluzione globale, è qui al Sud ed è ancora l’agricoltura quella che sfama il mondo. L’affare è lì.
Tant’è che, quanto alla provincia di Ragusa, negli anni Novanta si parlava di un modello ibleo di sviluppo composto in una sinergia di comparti a capo di quali c’era l’agricoltura. Perché si è perso questo capitale?
Non si è perso. Allora la produttività che si riusciva a trarre era immediatamente appannaggio dei territori, percepita e vissuta dai territori. Ora, a poco a poco, le fonti di risparmio delle famiglie e delle aziende si sono depauperate, gli istituti bancari non fanno più sponda allo sviluppo agrario perché hanno capito che le decisioni assunte portano altrove. Se le dinamiche di ricerca del prodotto avvantaggiano altre aree è chiaro che si mina dall’interno l’energia delle aziende e dei territori. Una politica di questo tipo è suicida. È evidente che la globalizzazione segna il punto di maggiore ferocia e di aggressività - rimandando al dominio della grande finanza speculativa e alle strategie generali - ponendo il problema di come far crescere un sistema agroalimentare con i segmenti della filiera commerciale che non ti ascoltano più.
Parla di risorse umane che sono andate a scuola qui e hanno poi lavorato fuori?
Parlo di esperienze che se ne vanno per conto proprio dopo essere cresciute qui. Hanno imparato qui a fare commercio di prodotti agricoli ma ora utilizzano questa loro forza in altri mercati respingendo così verso il basso i territori di provenienza, abbandonandoli. Questo scenario lo vedo per esempio nelle politiche organizzative della Legacoop: fino agli anni Settanta c’era un’unica dimensione associativa sicché commercializzazione e produzione erano un’unica sfera. Ora sono divise, il che significa che si è capito che le due dimensioni si dovevano e si potevano dividere.
Ma quali conseguenze determina questo fenomeno?
Succede che si perde ogni vincolo di solidarietà produttiva, culturale e civile, per cui in questo sistema globalizzato dalla grande distribuzione ci sono tutti i germi della degenerazione cui stiamo assistendo.
In questo quadro l’accordo Ue-Marocco viene dunque a penalizzare ancora di più l’agricoltura del Mezzogiorno.
L’accordo Ue-Marocco vuole abituare il Mezzogiorno d’Europa a dire “per voi è finita, rassegnatevi”. Un vero e proprio atto di morte.
Stando così le cose, si può parlare anche di tradimento da parte dell’Unione europea.
Nessuno ha voluto mettere in discussione il carattere perverso della politica agraria comunitaria (della sua organizzazione e strutturazione sia politica che programmatica che finanziaria) fondato su un sistema molto raffinato ed elaborato che è la condizionalità. Cosa fa la condizionalità? Quando anche parla di un comparto affronta l’argomento nello spirito di un trasferimento dal territorio a un altrove. Cioè, io Unione europea ti do ancora soldi, a te comparto agricolo, però rivendico il diritto di selezionare le aziende e di impostare politiche generali che debbano consentire ai grandi gruppi di rivolgersi dove vogliono. Non solo: prevedo anche misure finanziarie di dislocazione di interi comparti. Prenda per esempio i programmi Meda, che costituiscono il paradosso peggiore: misure cui vanno fondi che vengono dai tributi, l’Iva per esempio. E a pagare sono i produttori europei. A questi fondi i grandi gruppi attingono al cento per cento della spesa proprio per delocalizzare dove la terra non costa niente, dove possono prelevare l’acqua come vogliono, dove le condizioni di sottomissione umana, sindacale e politica dei lavoratori sono totali.
Questo significa che Uva Italia e pomodorino di Pachino, per esempio, vengano dall’estero.
Me li faccio in Siria, in Giordania, in Marocco, in Congo e non più in Sicilia. Perciò uno dei tanti problemi, il trasporto in Europa, comporta che i costi da Roma a Palermo siano dieci volte superiori a quelli di un cargo che va da Brazzaville a Bonn. È un sistema che si è messo in moto dappertutto perché l’affare è su scala globale ed è concepito dai grandi gruppi che riescono a delineare politiche generali, a costituire reti burocratiche intelligenti, strategie nazionali che riproducono la stessa scala sociale di dominio, cosicché in Italia l’Emilia Romagna non debba avere, come non ha, gli stessi interessi della Sicilia. Si tratta di prospettive che dovrebbero essere contenute in studi scritti, seri, documentati. Ma in Italia manca quanto c’è invece nel sistema americano, che vanta economisti capaci di penetrare questi meccanismi, di scoprirli, di definirne i contorni e fare capire quello che sta accadendo.
Noi procediamo invece a tentoni?
Proprio così. Ricordo alcuni saggi americani sull’industria di trasformazione sementiera. Dicevano “attenti, sta accadendo qualcosa: l’industria sementiera pura sta scomparendo perché viene rilevata dall’industria chimica”. Avevano colpito nel segno. Quello che stiamo vivendo è un passaggio così travolgente e potente che condizionerà la storia dell’agricoltura, dell’alimentazione e della distribuzione delle risorse umane chissà per quanto tempo, perché i padroni del vapore sono diventati altri.
Le aziende iblee pagano ancora di più questo processo di trasformazione in atto?
Certo, perché sono già operative sul mercato. Pensi alla serricoltura, che non ha assistenza economica di nessun tipo. C’è l’azienda con i suoi problemi e le dinamiche della crisi che l’attanagliano e che poi va sul mercato. Ma non trova protezioni, non vede un mercato garantito.
Negli anni Novanta, ma anche prima, si tentò nel Ragusano la via dell’associazionismo, sulla quale anche lei invitava a convergere. Ma si è rivelata oggi una strada senza sbocchi.
Un fallimento. Il modello organizzativo di tipo associativo è rimasto monco, a metà. Le faccio un esempio. Si consente ancora alle Op, le organizzazioni dei produttori, di poter fare fatturazione delegata. In sostanza le Op dicono questo: voi vi continuate a muovere come volete, commercializzate come volete, importante è che mi portiate la fattura e io la considero all’interno della mia organizzazione.
E così facendo, la Op lucra i fondi comunitari.
Il quattro per cento. Un passo avanti verso il governo del mercato - e l’acquisizione di punti in più nei rapporti di potere commerciale con la grande distribuzione e con gli acquirenti - non viene fatto, anzi ci si avvelena di più. Strada facendo verrà fuori qualche scandaletto, qualche ladro si presenterà alla cassa e muore così la struttura. Le esperienze siciliane sono tutte tali. Ricordo gli anni in cui Pio La Torre denunciò nell’associazionismo agrumicolo questo tipo di costume. A Villabate era presente in uno su cinque casi e serviva per speculare sui fondi comunitari, per distruggere gli agrumi sotto i cingolati o per la trasformazione fasulla contro cui io mi misurai già nel ’92.
Ma le istituzioni dov’erano?
Le istituzioni non hanno creduto alla modernità. Molto spesso l’autonomia non è servita per tutelare i progetti identitari. Permane l’equivoco di fondo per cui l’identità siciliana è vista come separazione o come deroga. Ci è del tutto estraneo per esempio il modello associazionistico e cooperativo olandese che vanta un fondo di garanzia nel quale i soci sono obbligati a versare una piccola somma che si aggiunge ai fondi dello Stato, per cui quando arriva la crisi commerciale ci si blocca e si attinge da quel fondo per supportare i produttori. Un tale meccanismo da noi non esiste.
Eppure sembra l’uovo di Colombo.
Sì, ma richiede prove di fiducia, di cultura, di civiltà, di onestà e di capacità a capire che la politica è lì. Quella che facciamo noi è solo chiacchiera. Prendiamo il prezzo del latte. La politica può stare a guardare che ci discriminino in questo modo? Ma è mai possibile? Se la politica deve avere un senso, deve servire per spostare i fatti verso chi lavora.
Quanto all’impasse della politica agricola comunitaria, che non abbiamo certo scoperto ora, la provincia iblea rispose quindici anni fa con una maggiore produzione di qualità e con la ricerca scientifica. Abbiamo avuto perciò Progetto ibleo, il Corfilac, poi l’Asca. Realtà che però hanno deluso.
Io non sono così deluso. Bisogna vedere da quale punto di vista si guarda. Il Ragusano continua senza dubbio a rappresentare un punto di eccellenza, ma è chiaro che questa capacità di costruire strutture moderne deve poi eguagliare il valore del prodotto. E lì purtroppo gli antagonisti, gli altri, gli acquirenti, il sistema agro-industriale, sono forti a tal punto da annullare qualunque sforzo. La logica di spendere di più per produrre senza sapere quale può essere il risultato non paga. Anche se ci sono piccoli problemi, dimensionamento, gestione, l’importanza per esempio del Corfilac è enorme.
Quindi questi organismi tipicamente iblei sono stati utili.
Preziosi. Secondo me il Dop non si può gestire senza queste strutture, che fanno un lavoro utilissimo, un lavoro che però deve essere accolto dall’azienda. Abbiamo la fortuna di avere istituti sul territorio che però bisogna calare dentro l’azienda. Occorre capire l’importanza di un formaggio Dop che non abbia difetti, che abbia precise caratteristiche. Hanno inventato per esempio una macchina, vedevo, che misura anche le fessurazioni.
Il frutto dell’impostazione data venti anni quando furono coinvolte anche le università.
Ricerca scientifica sì, ma se applicata all’assistenza tecnica. Lo considero un modello importante, che bisogna razionalizzare, mettendo queste strutture al riparo dalla politica. Non possono diventare luoghi di scorrerie. Questo deve essere chiaro e fintantoché non si farà questo non faremo un buon servizio all’agricoltura siciliana ed iblea in particolare.
Il fatto è che queste strutture sono oggi espressione della politica.
Già, ma tenga conto del ruolo che può giocare il culto della... personalità. Il mio giudizio rimane comunque positivo, anche se l’invadenza della politica è stata enorme. Non saprei fare un bilancio sul personale, se poco o molto, ma ho visitato questi enti e ho visto il personale molto impegnato.
Contano i risultati. E quelli che si vedono sono poca cosa. L’Asca è congelata, per esempio. Ma soprattutto mancano dati, censimenti, numeri su cui creare programmi.
C’è l’Aras per questo, altra struttura molto importante. È privata ma maneggia dati di interesse collettivo. Ma dice bene lei individuando una grande questione ancora aperta, che nessuno si preoccupa di affrontare. L’unico che ne parla oggi in Italia sono io. Parliamo della banca data. Mancando, si hanno situazioni limite. Gliene dico una. C’è l’Istituto di incremento ippico che deve incentivare la macellazione equina. Ma gli unici dati li ha l’Aras. Il trasferimento delle competenze all’Istituto di incremento ippico ha così bloccato questo sistema. Il che ha significato la ripresa della macellazione clandestina. Allora io dico: nessuno non deve poter immagazzinare un dato che riguardi il sistema agrario, dove soprattutto si prefiguri un impatto di tipo sanitario. Cos’è questa digitilizzazione di cui si parla, questa smart comunity? Sono parole al vento. Voglio la banca data che mi consenta di conoscere del capo dell’azienda x come è combinato sanitariamente. E se ho un capo che deve essere eliminato devo disporre necessariamente dei riferimenti statistici. In un sistema moderno è inammissibile, insomma, la difficoltà di fare i controlli. Per garantire la salute pubblica bisogna che la tecnologia entri perciò in modo determinante in questo sistema di controlli. Vogliono fare i braccialetti per i detenuti? Facciamoli innanzitutto per i vitelli ammalati.
In questo quadro di vuoti può essere inserito anche il mercato di Fanello, che era il quinto in Italia con un fatturato di 35 miliardi di lire, ed è oggi divenuto la cartina di tornasole della crisi. Cosa gli ha nuociuto?
Il mercato di Fanello si è nuociuto da solo. È un luogo dove, in un contesto meridionale di riferimento, le norme sulla commercializzazione non vengono rispettate. Noi abbiamo una grande urgenza nel Sud: quella di ricondurre le produzioni alla tracciabilità e di sottoporre le aziende a questo regime. Fino a quando ciò non avviene l’orizzonte del nostro mercato si fa sempre più ristretto.
Cosa è successo esattamente al Fanello?
Lì si sono scontrate dinamiche in conflitto. Dal ministero fino all’assessorato regionale all’Agricoltura, non si è compreso già nel 97-98 che occorreva imporsi. Ma si tratta di obiettivi che solo uno Stato organico che si comporti con coerenza può raggiungere. Ci sono soggetti privati che gestiscono la struttura, dinamiche commerciali che diventano vincenti. Se insomma faccio entrare la merce a piacimento la gente viene da me. Se c’è un portale attraverso cui posso passare io lo faccio. I mercati sono questo.
Mi pare però che il suo giudizio negativo non possa risparmiare nemmeno lei.
Io sono molto negativo sul lavoro da me compiuto come su quello dello Stato perché non siamo riusciti a vincere una partita che rimane aperta. La regola del rispetto delle condizioni Ocm, di commercializzazione e di tracciabilità, è un obiettivo sostanzialmente mancato.
Eppure il Fanello è ancora lì, un po’ ammaccato, ma sempre attivissimo.
Vede, il Fanello è una struttura forte e potente. All’interno troviamo trasporti, imballaggi, provvigioni, conferimenti, e ogni settore forma un mondo a sé dentro un’unica struttura dove si incrociano flussi enormi di economia e quindi forti spinte al controllo. E quando si parla non più di democrazia ma di controlli questo significa una cosa sola: mafia.
A Vittoria ci sono - o almeno ci sono state - strutture altrettanto forti e potenti. Rinascita per esempio. Ma anche La Mediterranea di Acate, che usufruì negli anni Novanta di una legge regionale, la numero 23, servita a innovarla con forti agevolazioni. Ma interventi di questo tipo sono poi mancati.
Rifacciamo un po’ la storia in fatto di innovazioni. Gli anni Ottanta e Novanta furono segnati in provincia di Ragusa da Giummarra. Che è stato il politico che in qualche modo ha dato impulso alle politiche agrarie. Era l’epoca della bonomiana, dei consorzi agrari, dei consorzi di bonifica. Dalla parte opposta a Giummarra ci sono io in provincia, come politico particolare, diverso, di movimento diciamo, che fa politica in un certo modo, che fa insomma delle battaglie. A un certo punto comincio a valutare alcuni aspetti che riguardano appunto l’innovazione. E comincio a parlare di metanizzazione, microdissalatori, materiali innovativi nella costruzione delle serre, costo dell’energia. Affronto insomma una serie di questioni. Fra cui immigrati, sorvegliati eccetera. Invaleva allora un sistema politico che dava per esempio a Torrisi le ventole, le famose ventole di Torrisi, con l’80 dei costi di produzione a sgravio. Sicché maturo una posizione di ostilità sostenendo che fossero gli altri ad avere bisogno del metano. Incidentalmente le dico che oggi sto proponendo una misura di intervento a favore della metanizzazione delle serre come linea generale. Penso di fare un bando. Ma torniamo alla storia delle innovazioni. Lo stesso Torrisi disse pubblicamente che solo con Aiello non l’aveva spuntata. Lanciai la parola d’ordine per cui tutti dovessero essere finanziati alla pari. Quello che non ero riuscito in dieci anni lo feci in una volta da assessore: gente senza acqua che si fa i microdissalatori, la metanizzazione delle serre, la legge Saccomandi… Da lì nasce La Mediterranea, che passa dal gasolio al metano per cui in soli due anni lo Stato ammortizza il costo dell’impianto sul contributo per il gasolio. E allora si ha una rivoluzione agraria. Perché si fa a meno del bromuro di metile e si usa il vapore, si ha la concimazione carbonica, non inquinante. Le innovazioni quindi in provincia hanno vissuto una fase pioneristica sia nella zootecnia che nell’orticoltura. Parlammo per esempio di rottamazione delle vecchie serre, che è un processo ancora in avanti e che però non è stato governato democraticamente. Senonché il passaggio dalla vecchia alla nuova serra divenne un fenomeno di tipo sociale perché il piccolo e medio produttore non lo ha potuto sostenere in quanto cambiava intanto il regime finanziario: mentre prima le banche erano aperte e il ciclo era espansivo, poi chiudono gli sportelli e lasciano che le serre si deprezzino fino a non valere più niente.
Vuole dire che il grande mito della serra è tramontato da un pezzo?
No, ma è un settore in crisi profonda. È tramontato invece il modello di piccola e media azienda agricola rispetto a quella capitalistica. Ma adesso assistiamo a un ritorno della famiglia verso l’azienda. Perché con il punto più alto di benessere la famiglia aveva cominciato ad acquisire modi di vita borghesi: il figlio laureato, la moglie che non va più in campagna... Oggi invece si torna tutti in campagna perché non ce la si fa più. Si capisce che solo il lavoro familiare, non retribuito, può consentire di tenere l’azienda e tirare avanti.
Mi pare di capire che lei dica che la maggiore aziendalizzazione penalizza l’economia iblea che è fondata sull’azienda piccola e di tipo familiare.
Era fondata, semmai. Ora non lo è più perché non ha retto il passo. C’è una tendenza a morire. È stato un mondo scisso quello della serricoltura in questi anni. Si è perduta l’unità complessiva del progetto, che è deflagrato, per cui si è rotto il blocco sociale che vedeva la piccola e media azienda unita in un modello di crescita aperto a tutti. Questo modello ha poi visto le grandi aziende staccarsi, magari aprirsi ad altri interessi, mentre i piccoli venivano lasciati soli e considerati come zavorra a perdere. Che è dopotutto lo spirito della Pac, sinonimo di morte a termine. Un’illusione, perché se la politica agricola comunitaria si applica nel Far West allora può funzionare, ma nel Mezzogiorno significa la rovina e il fallimento. Prenda centri produttivi come Mazzarone: fuori dell’uva da tavola cosa c’è? Le cittadine medie come Bagheria, Vittoria, Paternò, le cittadine contadine che hanno una base agricola e terziarizzata, prive di grandi gruppi industriali, cosa diventano se si rinuncia a capire che l’agricoltura - che sia il vigneto, la serra, l’agrumeto - è un fattore innanzitutto di identità? Cosa significa l’agrumeto per la Piana di Catania se non insediamento, civiltà, paesaggio prima che soldi e stipendi? Questo significa che dobbiamo difenderci per tanti motivi, non per uno. Le politiche che parlano di multifunzionalità sono in realtà un invito alla riconversione: ti diamo soldi e basta. E la cosa mostruosa che c’è dietro queste politiche è il dissolvimento dell’apparato produttivo. Non c’è più l’attenzione sul prodotto del territorio, che chiunque può andare a prendersi dove vuole.
Ma pesa di più la Ue o lo Stato italiano? Chi rema di più contro?
A mio avviso parliamo di sfumature. Abbiamo una filosofia istituzionale per cui l’Ue è il bozzone dove si decide tutto, mentre lo Stato è più vicino e lo si può anche accusare. L’Ue sembra immune, un ente che esiste e basta. Contro ciò che decide l’Ue non possiamo fare niente.
Eppure l’Ue è una fonte generosissima.
Molto denaro niente soldi. Questo dico io. Che senso ha fare i bandi? Se le aziende sono grosse hanno un’autonomia di finanza, di programmazione e di attività per cui il bando Ue ha un senso. Sempreché non sia burocratico come oggi: vengo escluso per aver dimenticato il certificato di nascita. Ma se questa condizionalità è estesa a tutto il settore è sbagliata. Se insomma io come Ue immagino un progetto di filiera per rinnovare l’apparato, devo pensare a quelle aziende in grado di spendere quattro o cinque milioni l’anno, perché se questo tipo di condizionalità la estendo ai piccoli creo solo problemi a partecipare. Produttori di due o tre ettari hanno difficoltà a trovare e impiegare quindicimila euro solo per preparare il progetto. Non solo. Ma è sbagliata di per sé l’idea che la politica agricola si possa esercitare con i bandi. Non si possono tenere separati la volontà individuale e il tempo necessario all’intervento comunitario. La piccola azienda ragiona così: io ho concluso l’annata. Sono a casa con i miei figli e dico: “Questa serra dobbiamo cambiarla”. “Va bene, papà: domani la cambiamo”. Ed è fatta. Punto. La piccola azienda vive così. Ha una organicità decisionale che non è quella del bando.
Lei cosa propone allora?
Operare a sportello. Quello che decide la bancabilità. Tu vieni, io approvo il progetto se è bancabile, ti do i fondi e parti.
Questo significa legarsi alla banca.
È vero. Ma il problema della bancabilità rimane secondario se parliamo di flessibilità, che solo lo sportello può garantire. Quello che conta è che se vieni dall’istituto di gestione puoi essere finanziato in rapporto alle tue energie. Certo, c’è anche da affrontare il problema del “de minimis”. L’aiuto dello Stato è uguale alla morte. Settemilacinquecento euro in tre anni sono niente. Non è sovvenzionabile nessun credito, nessuna garanzia sussidiaria è possibile. Vado in banca e non ottengo niente. Se chiedo aiuto a enti paralleli, l’Ismea per esempio, non me lo danno, perché non fanno la voce grossa con le banche. E non la fanno perché non c’è una politica che dica: l’obiettivo è salvare l’azienda. In ogni caso il concorso statale interviene nell’arco di un triennio per cui i soldi si perdono, vengono revocati, non bastano. Lo sportello è allora la possibilità aperta in ogni momento. Bancabilità e invito alla spesa significano seguire le vicende di un’azienda.
Siamo ancora lì. La banca lavora per sé.
La banca fa il suo lavoro, è vero. Il problema del credito è in realtà una questione aperta. Ma come ci si comporta ora vuol dire mandare al macello migliaia di aziende agricole. Appena entrano in crisi non hanno una lira e muoiono.
A quel punto dovrebbe intervenire la Regione.
A quel punto si dovrebbe ricostruire l’intero impianto del credito e definire come si debba fare. E siccome le aziende che hanno una storia alle spalle non possono finire in malora, io dico che se sono ancora in bilico vediamo allora cosa si può fare: perché lì c’è un patrimonio di lavoro autonomo che può rinascere, che è presidio per il territorio, lavoro vero, non il posto al Comune. Epperò se io voglio che debbano scomparire non mi pongo domande di questo tipo. Ed è quello che sta accadendo.
Non dovrebbe essere proprio l’assessorato alle Risorse agricole a porsi queste domande?
Parliamo di una macchina già allestita. Io sono un tipo problematico, tanto da non approvarla. Ma per ricostruire e ripartire altro che Aiello, altro che Regione siciliana. Occorrono unità del Sud, politiche collegate, consapevolezza di ciò che perdiamo e vogliamo, di come ci riferiamo alla politica nazionale, di come i nostri interessi si esprimano in sede comunitaria. Ma per avere tutto ciò è necessaria una mediazione tecnica che io non sono in grado di produrre, perché è tutto molto complesso. A me è costato anni di lavoro e di fatica riuscire solo a descrivermi i problemi per poi tradurli in un progetto politico. In fondo i movimenti agricoli di questi cinque anni sono finiti male perché in Sicilia le realtà agrarie sono politicamente immature. Ogni città ha un condottiero e nei movimenti c’è stato un mal di pancia per il modo in cui ti chiedono i pagamenti, ti avvicini alla banca, ti relazioni con i mercati.
Bisogna a questo punto modificare, secondo la sua ricetta, tutta la nomativa relativa al rapporto con le aziende.
Bisogna intanto farla finita con le politiche fasulle dell’associazionismo inesistente. Bisogna che se io rimango al mercato fatturo e basta, senza cedere nulla alle Op. E poi: marchio Sicilia, politica del credito rinnovata, condizionalità rapportata alla spessore dell’azienda, modifiche degli infernali modelli dei bandi, che secondo me sono una diseconomia permanente. Se si volesse davvero salvare l’agricoltura, allora ricompattino tutto, stabiliscano un budget e lo mettano al servizio di processi rapidi.
Una parola. Oppure una chimera.
Senta, ci sono trentamila aziende nel Mezzogiorno. Alcune sono morte e non le recupera più nessuno. Altre si possono salvare con misure di ristrutturazione del debito aziendale rimettendole quindi sul mercato. E poi occorre tenere lo sguardo sulle tipicità, le qualità, il marchio. Intervenire sui trasporti, sui costi di produzione. Ho sempre immaginato un Osservatorio sui costi veri europei. Che significa monitorare tutti i costi. Prendiamo il gasolio. In Italia costa due euro, in Germania uno. Essendo il costo medio pari a un euro e cinquanta, io ho diritto come azienda ad avere 50 centesimi di aiuto. Loro pagano di meno. Non li costringerò a pagare un euro e cinquanta ma non possono chiedere un euro di aiuto. E così lo Statuto è rispettato e si parificano i costi in Europa. Ma non lo vogliono fare, perché lo sanno cosa comporterebbe.
Chi non lo vuole fare?
Quanti pensano che il Sud Europa non debba fare agricoltura. Alla base di tutto c’è questo mio convincimento radicale: vogliono annientare la capacità di produzione agricola del Sud Europa.
Quindi stiamo parlando di nuovo dell’Unione europea. Ma non abbiamo i nostri eurodeputati lì?
Sono tutti liberalisti, destra e sinistra ragionano allo stesso modo. Al primo Green Corridor di nuova generazione, si ricorda cosa fece Alemanno? Mentre si atteggiava a fascista di facciata, era internazionalista nella sostanza. Ha fatto un programma Meda che è uno scandalo: Legacoop, Cooperativa San Michele (pugliese, di Alemanno), Coferasta, Masterplan unite presentano un progetto Meda per non so quante centinaia di milioni di euro per intervenire in Egitto. Sicché la grande distribuzione apre al Sud del Mediterraneo. Quando abbiamo tradotto il progetto dall’inglese, dopo averlo avuto dalla Farnesina perché il ministero dell’Agricoltura non l’aveva, a un certo punto abbiamo trovato che veniva proibita l’importazione in Italia di mele e kiwi.
Cosa significava questo?
Che i nostri amici emiliani si erano preoccupati, avendo cooperato alla stesura dell’accordo, di impedire che dall’Egitto e da altre parti del mondo entrassero in Italia le mele, che pure l’Egitto non produce, tanta è stata la premunizione. Allora: voi vi tutelate fino a questo punto, ma lasciate che entrino in Europa produzioni concorrenti con quelle siciliane e meridionali. In Spagna accade la stessa cosa: i commercianti spagnoli fanno joint venture con i commercianti del Marocco, dove imballano, etichettano e immettono in Europa “made in Spain”. Ebbene, questo flusso a tenaglia sta distruggendo il Mezzogiorno.
E in particolare la Sicilia.
Naturalmente. La mia posizione è radicale e parte dall’idea che la politica non serve a nulla se non nel territorio. Io sono nato in Sicilia e sono cristiano perché siciliano. È il territorio che decide per noi. Fare politica per fare che cosa? Non ha senso se non sei legato al tuo territorio. Che vuol dire essere coerenti e denunciare queste cose, anche se a un deputato non è richiesto assumere questo comportamento.
Occorrerebbe allora denunciare quanto sta succedendo al vino, che torna a essere zuccherato e quindi sofisticato.
Infatti. Si stanno perdendo venticinque anni di sforzi fatti in viticoltura. Ma denunciamo anche quanto sta avvenendo in merito all’art. 62 della legge sull’abbattimento delle frontiere e la liberalizzazione delle merci.
Cosa sta avvenendo?
Per la prima volta la Sicilia ha presentato un documento sull’art. 62 della legge con cui il ministro ha posto alcuni paletti sul pagamento entro trenta giorni della grande distribuzione, il rispetto dei contratti e l’esistenza di patti scellerati che vengono imposti ai produttori. Nel Sud il sistema delle provvigioni illegali è diffusissimo. E lo Stato fa finta di non vedere.
Di cosa si tratta?
Vengo da lei ad acquistare la serra o il prodotto. Glielo pago 70 centesimi ma mi deve dare il 10 per cento.
Un pizzo quindi.
Sistematico.
A che livello è diffuso il fenomeno?
A tutti i livelli. Non c’è una transazione che prescinda da questa logica. Secondo punto del nostro documento: la doppia attività, cioè le figure camuffate. Se il problema è la vendita, emergenza del prezzo non ce ne può essere perché chi compra in conto commissione lo fa per sé. E questa è la doppia attività. L’art. 62 del ministro Catania tende a combattere questo abuso ma temo che sia rimasto accerchiato dai poteri che vogliono condizionarlo, per cui non so quale possa essere la fine dell’art. 62, che è nato ed è stato soppresso nella culla.
Dunque la Sicilia stavolta non fa la parte di chi difende le illegalità.
Al contrario: attacchiamo gli altri, soprattutto le regioni del Nord sul concetto di legalità nella filiera. Che non c’è. Il ministro ha detto che la filiera è ferma al Dopoguerra e io sono d’accordo. Dico che ci sono condizioni di illegalità diffuse in tutti i segmenti che dicevo, che poi fanno massa critica e che bisogna avere il coraggio di affrontare, perché anche se facciamo tutto il discorso sulla produzione ma non ci occupiamo poi dei canali attraverso cui quella merce deve muoversi non abbiamo fatto niente. Fatto cento il valore finale del prodotto al consumatore, solo quindici va al produttore.
C’è anche il fenomeno della premialità, se vogliamo. Un altro abuso.
Un altro scandalo che l’art. 62 vuole risolvere: la premialità appunto nel rapporto commerciale. Tutti i grandi gruppi pretendono un premio d’acquisto del 6 o del 7%. Ma c’è anche la premialità parallela: la promozione. Con finanziamenti sia delle istituzioni che delle stesse aziende. La grande distribuzione organizzata si vende il progetto e si fa la pubblicità con fondi regionali, nazionali ed europei per miliardi di euro. A tutto ciò come Regione ci siamo opposti pubblicamente.

Articoli usciti nel novembre 2012 in due supplementi allegati al periodico ibleo La Verità