martedì 16 ottobre 2012

Elezioni, un presidente come viceré


Dionisio, tiranno di Siracusa, dopo aver respinto la proposta di Sparta e Atene di unirsi a loro per fermare i Persiani, sdegnoso per non essere stato nominato capo supremo delle forze di terra e di mare, pensò che non fosse importante essere Greci quanto non finire sconfitti. Molti prima di lui erano saltati sul carro del vincitore secondo una vocazione che si è perpetuata nei secoli, ma nessuno aveva fatto di questo stile di vita una strategia politica. Sicché armò un’ammiraglia ricca di ogni oggetto prezioso e ordinò che fosse ancorata al largo della battaglia navale decisiva per le sorti della guerra, con l’ordine di regalarla al vincitore. Che fossero stati i suoi connazionali a vincere o i nemici di un’altra razza gli era del tutto indifferente. Quel che contava era di rimanere in piedi anche quando gli altri fossero caduti a terra. Questo modello di comportamento ha fatto molta strada e lo ritroviamo applicato nella campagna elettorale in corso. Ci sono infatti elettori che partecipano ai comizi sia di Micciché che di Musumeci e Crocetta con lo stesso piglio dei claqueurs che battono le mani e plaudono a comando: e che si avvicinano al candidato presidente pronunciando gli stessi auguri e facendo le stesse promesse, nella speranza di essere ricordati dopo il 28 per potersi ripresentare ed ergersi a co-vincitori. E’ difficile trovare gente nelle piazze, ai piedi dei palchi elettorali, o nei teatri che partecipi a un comizio senza tentare di avvicinarsi nel proposito di ottenere qualcosa dopo il voto. Queste elezioni regionali, che hanno perso del tutto ogni valenza ideologica, per cui ci si riconosce non in una bandiera ma in un nome (e non a caso sono diminuite nelle piazze le bandiere del partito e sono aumentate quelle col nome del candidato: all’americana), stanno consacrando il principio dello spoil system come unico terreno sul quale negoziare il voto.
Ma non sono solo gli elettori comuni a praticare il “giro dei palchi” come se fossero i sepolcri. C’è una marea di gente, sindaci, assessori, consiglieri comunali, attivisti di partito, quella plaga enorme che fa politica per avventura e che non si fa alcuno scrupolo di cambiare tessera, che si ritrova con ogni candidato sul quale ritiene di poter puntare, cosicché a Catania molti volti sono stati visti prima attorno a Crocetta e poi davanti a Musumeci. Hanno imparato benissimo dai grandi che hanno fatto scuola in materia di trasformismo e che come la Lega e il Ccd possono stare a destra e a sinistra secondo l’opportunità del momento. Così è anche in Sicilia dove il valzer degli abbandoni e dei nuovi arrivi è diventato vorticoso e dove si è creata una situazione che esalta al massimo grado lo spirito di Dionisio, il papà di tutti i politici siciliani.
Se si guarda attentamente allo svolgimento della campagna elettorale si nota che le parole meno usate sono i nomi dei partiti e che la parola più diffusa è “coalizione”, che è come la costellazione, una cosa che in natura non esiste. Un’altra parola sulla bocca di tutti è “amici”, a indicare rapporti singoli, privilegiati, separati. Nessuno evoca più il grande feticcio del passato che è stato il partito. Né si parla di programmi ma di “cose da fare”, cioè di interventi a breve scadenza, quindi di manovre congiunturali, quando invece occorrono progetti di scenario per una crisi che è strutturale e che richiede trasformazioni profonde. Ma i grandi progetti richiedono scelte precise, mentre per quelli piccoli bastano rapide e circoscritte riparazioni. Anziché cattedrali si vogliono costruire insomma chiesette, perché la costruzione di una cattedrale richiede una forza tale da sconvolgere la vita di un’intera comunità. Nessuno oggi vuole cambiare niente anche se promette rivoluzioni e mutamenti. E non vuole perché non può. Per rimanere sull’esempio della cattedrale, la sua realizzazione comporta un altro tipo di forza: un vastissimo consenso duraturo nel tempo. Solo i regni molto longevi poterono nel Settecento stringere patti pluridecennali con la chiesa e immaginare opere così imponenti. I governi privi di consenso possono lavorare solo a progetti lunghi quanto la loro brevità.
Prova di tutto ciò è la condotta dei principali candidati. Musumeci e Crocetta si scontrano quotidianamente minacciandosi querele e danni, ma badano invece a non usare lo stesso trattamento con Micciché, il quale si può permettere di guardare quello e questo con la grinza di chi è terzo ma sa di contare più degli altri. Comunque vadano le cose, sarà degli autonomisti che entrambi avranno infatti bisogno per creare una maggioranza. Senza contare che un eventuale successo di Micciché porterebbe anche a lui a chiedere sostegno a destra o a sinistra. Quale che sia comunque il candidato vincente, la maggioranza sarà il frutto di accordi aideologici presi sul terreno dell’iniziativa pragmatica che non su quello della programmazione politica. Che riflette intendimenti comuni a tutti i candidati da potersi ridurre a uno: sì ad ogni intervento possibile in materia di rinnovamento purché questo non significhi inimicarsi oggi una categoria. Sicché nessuno ha finora promesso quanto chiede tutto il mondo: la riduzione dello scandalosissimo numero dei dipendenti regionali. In una campagna elettorale che si gioca (a stare ai sondaggi) sul filo del singolo voto, anche quello dell’ultimo forestale diventa preziosissimo.
Se perciò gli stessi partiti - e con essi i candidati alla presidenza nonché tutti gli altri - si comportano come al tempo dei matrimoni combinati, in base cioè all’avere, e non si uniscono perché affini e quindi in base all’essere, se per dirla in trivio è sesso e non amore, è evidente che gli elettori ne seguono l’esempio: credendo nel modello e cercando non più nel partito la risposta alle proprie aspettative ma scommettendo sul singolo candidato perché risulti l’uomo del proprio destino. Se le cose stanno così, ne consegue che i candidati si confomano alle logiche invalenti e assumono sempre più impegni di pagherò. In questa prospettiva non vincerà il candidato voluto dalla maggioranza dei siciliani ma chi si sarà esposto di più con le migliori argomentazioni. Più che una competizione elettorale, quella che vediamo sembra una gara con tre corridori di maggiori possibilità e altri outsider destinati a guardare da lontano i loro talloni. La politica è rimasta fuori come una regina spodestata. Dire destra o sinistra, essere col Pd e non con il Pdl, votare Idv e o Sel: sono solo esercizi di ripasso, compiti da fare, esibizione di un segno non di appartenenza ma di provenienza. Tutti oggi convergono infatti nelle malebolge dove si ritrovano ingegni di ogni risma, accomunati dall’adesione professa a un uomo che si pone come il loro dante causa. Si tratta allora di scegliere un uomo che incarni una specie di vicerè, il quale restauri la corte a suo piacimento e decida per tutti. Per questi motivi ha avuto ragione Musumeci a dire in un comizio che queste sono le elezioni più difficili dell’autonomia. Difficili per i candidati ma anche per gli elettori, il cui sentimento è forse il solo che conti davvero.