giovedì 20 ottobre 2016

Dialetto siciliano, in principio fu Pirandello

Angelo Musco recita Pirandello

Quando nel 1909 Pirandello si chiede se il teatro dialettale possa riuscire comprensibile fuori dall’ambito regionale pone un problema che a Sciascia appare ingenuo - o comunque da risolvere guardando a esperienze del tipo di Odessa, dove Musco parla siciliano e i sovietici si piegano per le risate, capendo tutto - perché ha conosciuto Croce, Gramsci e Pasolini. Agli inizi del secolo scorso l’esercizio del dialetto è fermo a una visione ottocentesca cara a un Porta e a un Belli su una linea romantico-verista-regionalistica che trova nel Russo del primo Novecento il fuochista dell’ipostatizzazione del colore, del folclore e della tradizione locale, pur se le coeve prove innovative di un Di Giacomo indicano, entro la rottura proprio con la tradizione popolare, la strada della nuova poesia in dialetto, da calare in un organon di liricità del dettato compositivo e da lanciare in una sfera europeista dove anziché distanziarsi la parlata dialettale possa condividere con la lingua una comune terra di mezzo - lasciando qui di stabilire se, come propugna Montale, “ai poeti dialettali è richiesto di essere storici e giudici del costume, confessori di verità e flagellatori di ipocrisie” o se, come vuole Pasolini, il poeta dialettale è colui che “pensa il dialetto come lingua-poesia” nelle forme di una “espressione parallela” rinvenuta mentre si cerca la poesia e non punto di partenza per raggiungere la poesia. 
Nel definire “il movente” della letteratura dialettale, Croce trova che essa, più che “l’eversione o la sostituzione della letteratura nazionale, è l’integrazione di questa, la quale le sta dinanzi non come un nemico ma come un modello”. Tale acquisizione risulta ancora estranea a Pirandello, la cui coscienza letteraria, è, all’epoca del suo intervento sul teatro in vernacolo, educata al persistente equivoco posto tra poesia dialettale e poesia popolare. Epperò è proprio attorno a questo nodo che si decide l’emancipazione della letteratura dialettale che, raggiunto uno stato di pari opportunità rispetto alla lingua, negli ultimi decenni si spinge oltre conseguendo una qualità definita “endofasica”, di un lessico cioè privato che tiene conto di pochi parlanti prevalentemente arcaici e che, forse più della lingua, si costituisce in poesia come un linguaggio gongoristico, con apporti pur’anche di derivazione ermetica. 
A questa altezza si situa per esempio Vincenzo Consolo, la cui ricerca filologica nel lessico dismesso riecheggia le teorie pasoliniane circa una koiné friulana che involga “una specie di linguaggio assoluto, inesistente in natura”. A Consolo può essere accostato, per restare in Sicilia, Nino De vita, che ha raggiunto un delicato equilibrio tra poesia e prosa innestando in un lessico classico una sintassi anch’essa siciliana, esercizio ambiziosissimo questo, non riuscito neppure a sicuri maestri come Guglielmino e Vann’Antò. Ad un precedente stadio di evoluzione della letteratura dialettale è attestato invece Andrea Camilleri, il cui “dialetto borghese arrotondato” equivale alla pariniana “lingua corrente” o “parlar finito”, distinta da dialetto e italiano, avversata da Pirandello (il primo Pirandello) ma sostenuta da Sciascia, qui in linea con un gusto tutto siciliano che da Buttitta conduce a Calì e che del siciliano come lingua pascolianamente morta, lingua delle rondini, “che più non si sa”, fa un mezzo d’espressione da piegare quanto più possibile all’italiano, senza che sia sperimentato il contrario. 
Del resto il rimprovero che Sciascia sente di muovere al Pirandello di Liolà è di “non aver tenuto presente la possibilità che, senza minimamente indulgere al dialetto borghese, certe parole, certe espressioni, potevano essere sostituite agevolmente con altre più comprensibili”. E’ lo stesso suggerimento che Sciascia dà a Camilleri, muovendo da una concezione scepsistica circa le possibilità di una parlata, quella agrigentina, che pure per Pirandello è in Sicilia “incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni”, ma che per Sciascia non è da ritenersi la più vicina alla lingua italiana. 
Ma dopo il successo di Camilleri e la dimostrazione che l’idiotisimo agrigentino ben può essere compreso “fuori del comprensorio di Girgenti”, sull’estetica sciasciana (per la quale il dialetto può essere solo oggetto di studi etnologici da non consegnare però alla letteratura che non sia solo poesia) fa dunque premio Pirandello; ma già Martoglio – e con lui Grasso e Musco, che per farsi capire, per Sciascia, “non avevano bisogno di parlare” – aveva senza perplessità scelto la sola via del dialetto per esprimere la verità. A questo nuovo credo Pirandello si converte solo quando ne accerta la potenza umoristica e la capacità di resa rispetto alla lingua, rimanendo fermo alla nuova idea fino ad affermare che “il dialetto è il vero e unico idioma”. 
Volendo in sostanza dare corso alla sua teoria del “sentimento del contrario”, Pirandello scopre che “l’umorismo lo troviamo nell’espressione dialettale” e si decide a scrivere una commedia come Liolà dove anche le didascalie figurano in dialetto e sulla quale pure Sciascia conviene circa l’impossibilità di una migliore riuscita in italiano, nel caso di una rappresentazione che volesse essere di tipo realistico. Nella chiave di un dialetto integrato dal realismo, laddove Pirandello ravvisa l’umorismo, Sciascia elice un’intuizione gravida di significati: “l’impotenza degli italiani a fare del realismo se non nei termini della dialettalità”. Affermazione che, contenuta in Pirandello e il pirandellismo, uscito nel ’53, risente, proprio perché estesa a tutti gli italiani, delle teorie di Pasolini espresse appena un anno prima nella fondamentale introduzione all’antologia Poesia dialettale del Novecento, donde il dialetto viene sdoganato dalle viete forme folcloristiche e dai giri di iterazione della poesia popolare per diventare uno strumento di rappresentazione della realtà anche in una Sicilia la cui letteratura vernacolare, da Di Giacomo a Buttitta, Pasolini vede mutarsi in senso felibristico e appunto realistico. 
La scoperta di Pasolini che “è possibile inventare un intero sistema linguistico, una lingua privata (secondo l’esempio di Mallarmé) trovandola magari fisicamente già pronta, e con qual splendore, nel dialetto” apre scenari nuovi sull’arco della letteratura e costringe a ripensare il ruolo della poesia in dialetto chiudendo non solo con il pascolianesimo della tradizione cordiale ma staccando anche il cordone ombelicale della poesia popolare. La nuova fase della poesia in dialetto parte proprio da questa esperienza pasoliniana, che però dà conto degli esiti altrettanto rivoluzionari cui, studiando il teatro di Pirandello, è giunto pochi anni prima Gramsci, l’autore che, per avere sentito più di ogni altro, superando prove prometeiche, il problema lingua-dialettalità, può essere visto come rappresentativo di una condizione generale distonica dentro la quale l’autore primonovecentesco adotta il dialetto per “annullarsi nell’anonimia, farsi inconscio demiurgo di un genio popolare della sua città”, come avverte Pasolini, ma ne è trattenuto per non cadere nelle soluzioni ottocentesche di sapore positivistico che intridono la versicolare poesia popolare facendone un connettivo della scuola demopsicologica entro un’equazione intellettualistico-erudita. Gramsci scioglie questo grumo e libera Pirandello dal pirandellismo, che sottende, per dirla con Sciascia, “tutte le incrostazioni filosofiche e pseudofilosofiche, tutte le etichette concettuali”. 
Pirandello esce dalle mani di Gramsci desideologizzato. Il suo teatro in vernacolo appare, al teorico del primato dell’intellettuale, privo di apporti intellettualistici e carico di una endogena autenticità: “Nel teatro dialettale il pirandellismo è giustificato da modi di pensare storicamente popolari e popolareschi, dialettali. Non si tratta cioè di intellettuali travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani”. 
La svolta è segnata. Ed è copernicana: scoprendo nel teatro dialettale di Pirandello il realismo allo stato di pasoliniano “inventum”, Gramsci apre gli occhi a tutta la letteratura dialettale e in special modo offre a quella siciliana, attardata sulle aporie che spingono il primo Pirandello a negare aperture di credito al dialetto di esportazione, un proprio “codice d’onore” oltre che credenziali per un nuovo apprentissage, sui cui effetti si misura qualche anno dopo appunto Pasolini, che sull’altare della “lingua potenziale che è il dialetto”, celebra persino Carducci, Pascoli, D’Annunzio e Verga, quelli “meno ufficiali, ma quanto più ricchi e veri” se intuiti nella loro veste di “provinciali, ritagliati e ripresentati su un terreno comune, ancora criticamente sperimentale, di realismo”. 
Alla fine ha ragione Sciascia quando ingrada in una risposta positiva e parenetica i dubbi di Pirandello, secondo cui un autore si rivolge al dialetto quando “la natura dei suoi sentimenti e delle sue immagini è talmente radicata nella terra di cui egli si fa voce che gli parrebbe disadattato o incosciente un altro mezzo di comunicazione che non fosse l’espressione dialettale”. Pirandello (il primo, si badi) vede un ripiego residuale nell’adozione del dialetto. Sciascia invece ravvisa nello stesso atteggiamento i caratteri di uno statuto. Ma la sua è una scoperta che deve al magistero sul dialetto esercitato da Croce, Gramsci e Pasolini.